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Per una critica alla teoria dell’agire comunicativo

4. Da Hegel a Habermas: linguaggio, lavoro e processo di formazione dello spirito

4.4 Per una critica alla teoria dell’agire comunicativo

Perlomeno a partire da Theorie und Praxis del 1963 Habermas16 risulta essere uno dei più autorevoli interpreti della filosofia della prassi tanto da mostrarsi in grado di gettare un ponte tra il coté continentale e quello analitico, tra il lascito di Hannah Arendt circa i concetti aristotelici di praxis e poiesis e la ripresa delle medesime categorie nell’ambito della teoria degli atti linguistici da parte di John Austin a Oxford (cfr. Berti, 1992). Il problema di Habermas, dal quale egli muove per ottenere la teoria dell’agire comunicativo, può essere riarticolato assumendo da un lato la questione arendtiana circa lo svilimento dell’azione politica provocato dall’estensione della razionalità tecnico-produttiva al campo della ragione etica e dialogica, e considerando dall’altro come unica soluzione il potenziamento dell’interazione linguistica intesa nella sua assoluta estraneità rispetto alle procedure del comportamento produttivo. Un simile approccio sembra essere confermato da Petrucciani (2000, p. 9) fin dall’inizio della sua

Introduzione:

La razionalità tecnica ed economica – questo è e sarà in sostanza il punto di vista di Habermas – ha le sue proprie regole ed è legittima nel suo ambito; tuttavia essa ha anche la tendenza ad arrogarsi il monopolio della razionalità, e ad espandersi in modo imperialistico soffocando altre forme di razionalità e generando patologie sociali; sono perciò necessarie strutture di limitazione e di contenimento se si vuole garantire alla società uno sviluppo armonico, equilibrato e non patologico.

Tali «altre forme di razionalità», ovvero le «strutture di limitazione e di contenimento» capaci di opporsi e di emancipare la vita attiva dal giogo della ragione produttiva mettono radici in ciò che Habermas (1981) chiama agire

comunicativo. Nel classica argomentazione presentata nel primo dei due volumi in

16 Per i temi che qui interessano, oltre a Habermas (1963; 1968; 1981), una selezione della sua vasta bibliografia non può evitare di comprendere almeno Habermas (1968-1973; 1973); utile è poi la raccolta di saggi apparsa in lingua italiana nel 1983 col titolo Dialettica della razionalizzazione. Agevole e efficace è l’introduzione al pensiero di Habermas prodotta da Petrucciani (2000), corredata da un’ampia bibliografia di riferimento. Per ciò che concerne la letteratura secondaria in lingua italiana segnaliamo la raccolta curata da Ostinelli e Pedroni (1992), dedicata alla teoria dell’agire comunicativo.

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cui è suddivisa l’opera l’autore definisce così la differenza tra agire strumentale (e strategico) e agire comunicativo:

Definiamo strumentale un’azione orientata al successo se la consideriamo sotto l’aspetto dell’osservanza di regole tecniche di azione e valutiamo il grado di efficacia di un intervento in un contesto di situazioni e di eventi; definiamo strategica un’azione orientata al successo se la consideriamo sotto l’aspetto dell’osservanza di regole di scelta razionale e valutiamo il grado di efficacia dell’influenza esercitata sulle decisioni di un antagonista razionale. Le azioni strumentali possono essere connesse con le interazioni sociali, le azioni strategiche rappresentano di per se stesse azioni sociali. Parlo invece di azioni comunicative se i progetti di azione degli attori partecipi non vengono coordinati attraverso egocentrici calcoli di successo, bensì attraverso atti dell’intendere. Nell’agire comunicativo i partecipanti non sono orientati primariamente al proprio successo; essi perseguono i propri fini individuali a condizione di poter sintonizzare reciprocamente i propri progetti di azione sulla base di comuni definizioni della situazione. In tal senso il concordare definizioni della situazione costituisce una componente essenziale delle prestazioni interpretative necessarie per l’agire comunicativo (Habermas, 1981, p. 394).

Escludendo le azioni strategiche perché non pertinenti rispetto all’analisi in corso, e comunque anch’esse collocabili nell’ambito dell’operosità finalisticamente determinata, la distinzione tra agire strumentale e agire comunicativo si consuma sul terreno della teleologia. Strumentale è, sotto questa luce, il comportamento orientato al conseguimento di uno scopo esterno, l’intera attività è governata dalla concatenazione mezzo-fine e nel suo concetto essa è irrelata al tessuto delle relazioni dialogiche; al contrario il calcolo monologico è completamente assente nell’agire comunicativo e nella sua essenza esso non realizza scopi esterni alla comunicazione stessa. Il rapporto inversamente proporzionale tra comunicazione e scopo – se a allora non b, se b allora non a – è messo in chiaro con gesto preciso da Virno (1986, pp. 70-71) allorché scrive: «l’assenza di azioni comunicative è l’autentica garanzia della qualità finalistica del processo produttivo […] niente comunicazione, quindi scopo; scopo, quindi niente comunicazione».

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La teoria dell’agire comunicativo appare come un modo sofisticato di riproporre l’antica opposizione tra praxis e poiesis in un’epoca in cui, giova ribadirlo, già Arendt denuncia l’ibridazione tra le due sfere. Il punto cieco interno alla proposta di Habermas sembra perciò quello di non aver svolto il problema in coerenza con lo sviluppo storicamente determinato della ragione tecnico- produttiva. Anziché approfondire e capovolgere la sostituzione del fare all’agire, cogliendo così gli albori della trasformazione di una delle più importanti figure della condotta strumentale, ovvero il lavoro linguisticizzato tipico del tardo capitalismo, Habermas si fa scudo dietro un razionalismo esangue con cui spiega, certamente con rigore, soltanto i motivi per i quali l’eticità del dialogo non può avere la stessa origine e la stessa sequenza logica del produrre. «Riformulando ancora una volta la dicotomia tra tecnica e prassi», come suggerisce Petrucciani (2000, p. 104), Hebermas contrappone l’agire comunicativo all’agire strumentale confermando lo schema aristotelico dell’opposizione tra praxis e poiesis e prediligendo il primo dei due termini. Per questa via l’autore individua una soluzione che gli permette di salvaguardare l’operosità umana, ma il principio che la ispira e il risultato cui giunge appaiono non meno teoretici e trascendenti di altri tentativi che colgono nell’uso inoperoso e contemplativo della vita il varco per proiettarsi al di là del dominio della tecnica e della produzione.

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