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Sintassi dell’inoperosità

III. Né praxis né poiesis: il concetto di inoperosità in Giorgio Agamben

3. Elementi per un’ontologia della potenza oltre l’atto

3.3 Sintassi dell’inoperosità

Dopo aver messo in luce il rapporto che intercorre tra la teoria dell’inoperosità e la teoria della potenza, sul finire del capitolo occorre aggiungere un altro elemento che più volte è stato evocato senza però specificarne il ruolo: la negazione linguistica. L’indagine, quindi, prosegue interrogando la composizione sintattica dell’in-operosità, nell’ambito della quale il segno ‘non’ appare come il tassello decisivo. Un simile tentativo si inscrive nell’orientamento generale con cui Agamben è studiato all’interno di questa ricerca, ovvero provare a sviluppare le sue tesi intorno all’inoperosità nell’interesse di cogliere vantaggi e svantaggi teorici. In particolare nei paragrafi precedenti sono emerse almeno due letture divergenti rispetto al concetto elaborato dall’autore. La prima, che sarà più ampiamente discussa nel quinto capitolo, concerne l’idea di intendere l’inoperosità come un adeguato strumento epistemologico per studiare le trasformazioni di una delle figure della poiesis, ossia il lavoro vivo umano nel tardo capitalismo, nel preciso momento in cui la produzione ingloba in sé numerosi aspetti che per concetto appartengono alla praxis, anzitutto e perlopiù l’interazione linguistica. L’offuscarsi della linea di confine tra praxis e poiesis nel lavoro porterebbe il nome di inoperosità perché la potenza di lavorare, sempre più di tipo comunicativo e relazionale, stenta a tradursi in atto, si conserva oltre l’energheia, è senza scopo e senza opera. La seconda lettura riguarda il sonno senza sogni che, nella linea di ricerca materialista inaugurata da Aristotele, equivale allo stadio del ciclo biologico in cui l’organismo disattiva ogni sensazione, ogni agire e fare e così riposa. Il sonno è sotto questa luce un’inoperosità provvisoria volta alla veglia, ossia alla vita di nuovo attiva e vigile e non all’esistenza nottetempo. Tanto nel lavoro quanto nel sonno la disattivazione delle consuete procedure della praxis e della poiesis non è eterna,

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ma sempre circoscritta a un fenomeno storicamente e spaziotemporalmente definito. Nelle pagine che seguono la sintassi dell’inoperosità dovrà mettere a fuoco una terza versione dell’argia capace di mostrare un ulteriore scarto rispetto al valore difeso da Agamben.

Potenza e negazione. Continuando a muoverci nell’ambito della teoria

dell’inoperosità collegata alla teoria della potenza oltre l’atto, occorre per il momento trascurare la categoria cara ad Agamben e mostrare la connessione tra il concetto di potenza e la negazione linguistica. A tale riguardo è irrinunciabile riferirsi alle osservazioni che Aristotele annota nel De interpretatione. Si tratta del celebre passo in cui l’autore distingue la negazione dell’enunciato modale ‘è possibile che sia’ dalla negazione del contenuto semantico dell’enunciato stesso. Negare ‘è possibile che sia’ significa apporre il segno ‘non’ davanti alla copula: ‘non è possibile che sia’; invece, la negazione del dictum della frase equivale a ‘è possibile che non sia’. Attraverso tale distinzione Aristotele intende sottolineare come la negazione sia strutturale alla logica interna della potenza nella misura in cui l’essenzialità del poter essere consiste nel poter non essere e non già nel non poter essere: «In effetti, tutto ciò che può essere tagliato, o camminare, può altresì non camminare, e non essere tagliato. La ragione è la seguente: tutto ciò che ha tali possibilità non è sempre in atto, di modo che ad esso apparterrà altresì la negazione» (De Int., 21b12-16). Se accettiamo queste indicazioni, allora sembra legittimo ritenere che la potenza sia coestensiva alla negazione: sono perfettamente sovrapponibili, si conservano in un’eterna soglia di indistinzione (cfr. Virno, 2013).

Inoperosità e negazione. In coerenza con quanto detto a proposito della

giuntura tra inoperosità e potenza e tra potenza e negazione, non è affatto irragionevole illustrare il nesso tra inoperosità e negazione attraverso l’implicazione che segue: se l’inoperosità dimora nella potenza e la potenza è coestensiva alla negazione, allora l’inoperosità mette radici nella negazione.

Già Agamben, commentando la Lettera ai Romani di Paolo61, descrive la condotta della comunità messianica nel segno della vita caratterizzata «da uno speciale funtore di inoperosità, che anticipa in qualche modo nel presente il

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sabatismo del Regno: l’hos me, il ‘come non’» (Agamben, 2007, p. 271). Vivere nel segno del ‘come non’, argomenta Agamben, significa rendere inoperosa la vita fin qui condotta, con la sua praxis e con la sua poiesis, per esistere non più nella comunità orientata da un certo fare, ovvero da certi modelli produttivi, e da un certo agire, ossia da certe istituzioni politiche, ma soltanto nella «nostra potenza di agire e di vivere, la nostra ag-ibilità e la nostra viv-ibilità» (Ivi, p. 274). La vita della comunità inoperosa, scandita dal ‘come non’, riscrive la storia naturale dell’animale umano smentendo tanto l’aristotelica definizione dell’uomo come animale linguistico e politico quanto l’argomento hegelo-marxiano che assegna alla produzione un altrettanto significato antropologico di fondo. Non contano più le forme di vita qualificate, i comportamenti sociali e i giochi linguistici, cui in primo luogo occorre pensare in termini di creazione delle condizioni di possibilità e, dunque, in termini di sopravvivenza, ma protagonista è la generica disposizione a vivere, la vivibilità. Così come leggibile è un libro che può non essere letto, allora vivibile è proprio di ciò che può non essere vissuto62: la vivibilità, tratto saliente del vivere inoperoso segnato dal ‘come non’, al pari di ogni altra disposizione a fare o subire qualcosa (espressa con gli aggettivi mangiabile, amabile, vendibile, toccabile, temibile) si radica in «una disposizione basilare, che innerva da cima a fondo il nostro parlare: la disposizione a negare» (Virno, 2013, p. 84).

Inoperosità, potenza, negazione: il ‘non’ è il connettivo che forgia la sintassi della parola ‘inoperosità’ allorché essa, con Agamben, è ricondotta al proprio luogo di origine logico-metafisico, cioè il concetto di potenza.

Ancora un’altra inoperosità. La dislocazione in ambito linguistico63 della teoria di Agamben, anziché confermare le tesi dell’autore, sembra gettare luce su ulteriori aspetti contraddittori. Il punto decisivo concerne l’abisso che separa inoperosità e negazione quanto al ruolo che ognuna di esse svolge nell’ambito della forma di vita umana. L’inoperosità, secondo Agamben, è una disposizione

62 Anche se percorre tutt’altra direzione antropologica è istruttiva l’osservazione di Virno (2013, p. 84): «la desinenza ‘-ibile’ lascia presagire anche l’omissione e il colpo a vuoto».

63 Il linguaggio costituisce un tema centrale nel pensiero di Agamben fin dalle sue prime produzioni (cfr. D’Alonzo, 2015). Il focus linguistico di Agamben, tuttavia, va oltre le finalità di questa ricerca. I principali testi di riferimento sono: Infanzia e storia (1978), Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività (1982) e nell’ambito del programma Homo sacer il volume Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (2008).

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destituente, che uccide la produzione e la politica per configurare una dimensione post-storica in cui la vita non è più da vivere ma è finalmente redenta. La negazione, al contrario, è una disposizione costituente, che definisce non solo il funzionamento di ogni atto linguistico, ma anche quello dell’intera facoltà di linguaggio e, dunque, imparare a negare segna una tappa capitale del processo antropogenetico. Com’è nelle tesi di Virno (2013) la negazione è un elemento innegabile del linguaggio: oltre a consistere in una determinata prestazione verbale, il ‘non’ è anche il segno che dà origine a tutti gli altri segni.

Se è vero che l’inoperosità dimora nella negazione, come spiegare il decorso destituente della prima e quello invece costituente della seconda? Poiché l’uomo si scopre inoperoso in quanto originariamente provvisto di un’indole potenziale, dunque, di un’indole coincidente con la capacità di negare, allora non può darsi che la negazione sia uno «speciale funtore di inoperosità» non perché disattiva la vita. bensì precisamente perché è quell’elemento innegabile della nostra storia naturale oltre il quale l’inoperosità non può risalire? In questo orizzonte sembra lecito intendere l’inoperosità, nella sua connessione con la potenza e con la negazione, come il luogo in cui le forme consuete della politica (praxis) e della produzione (poiesis) sono sospese senza annullare il contenuto semantico dell’agire e del fare, ma preparando il terreno alla trasformazione di ciò che è, quindi, al non essere come héteron (e non come enantíon – ‘contrario’), al ‘diverso’ concepito da Platone nel Sofista (cfr. 257b3-13).

Agamben non colloca l’inoperosità in un’ontologia contraria all’essere: l’inoperosità è lungi dall’indicare sia la negatività assoluta sia la mera mancanza di opere, essa qualifica una forma di vita non teleologicamente determinata, che fa uso delle cose del mondo senza appropriarsene e senza crearne di nuove, quindi, povera e sottratta al diritto. Ha ragione Agamben a criticare il paradigma dell’operatività e a pensare in ottica post-statale e post-capitalista, ma dire ‘no’ allo Stato e al capitale non significa affatto uccidere tutto il facĕre e tutto l’agĕre. Rendere inoperoso il lavoro sotto il capitale e lo Stato non autorizza a progettare un’antropologia contraria alla poiesis e alla praxis, bensì l’inoperosità che dimora nella potenza e nella negazione permetterebbe di disattivare il lavoro e lo Stato senza divellere l’inclinazione a fare e ad agire. Se il sillogismo proposto innanzi è

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valido, allora bisogna ammettere che l’inoperosità intesa come dire ‘no’ alla produzione e alla politica non si identifica nella completa disattivazione del significato di ‘produzione’ e di ‘politica’. Così come nella frase ‘Angelo non è alto’ il ‘non’ conserva il contenuto semantico del predicato ‘essere alto’ e non allude necessariamente al ‘basso’, bensì rimanda a una diversità non ancora determinabile, allo stesso modo il ‘no’ dell’inoperosità potrebbe rinviare a un altro dal lavoro e dallo Stato, a una poiesi altra, a un’altra prassi.

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IV. Sul divenire poiesis della praxis: lo schema omologico