II. Lo sviluppo delle forze produttive e la vita della mente messa a valore Alcuni studi di economia, sociologia e
36 In Virno (1986) l’autore individua nella categoria peirceiana dell’abduzione la procedura
2.3 Episteme, praxis e poiesis nell’Etica Nicomachea di Aristotele
La digressione sullo schema aristotelico contenuto nell’Etica Nicomachea, cui la filosofia occidentale ricorre ogni volta da capo per interrogare lo statuto del conoscere, dell’agire e del fare, serve qui a individuare gli strumenti epistemologici utili all’analisi critica della tesi del capitalismo cognitivo. Questo paragrafo può essere letto come un’appendice al primo capitolo, nel quale si è tentato di esporre l’apparato concettuale su cui poggia l’intera ricerca.
Il criterio con cui è qui riletto il famoso capitolo 3 del Libro VI dell’Etica
Nicomachea può essere espresso nella seguente congettura: se la conoscenza non
è connessa con la praxis, allora essa si conserva come conoscenza scientifica (episteme) indipendente dal processo lavorativo (poiesis).
In Etica Nicomachea (1139b20-25) Aristotele introduce la nozione di conoscenza scientifica indicando l’oggetto su cui essa si applica:
Tutti noi riteniamo che ciò di cui abbiamo scienza non possa essere diversamente da come è, mentre le cose che possono essere diversamente, quando si danno lontano dalla nostra vista, ci lasciano incerti se sono o non sono. Perciò l’oggetto della scienza è per necessità. Quindi è eterno, infatti le cose che sono necessarie in assoluto sono tutte eterne, e ciò che è eterno non si genera e non si corrompe.
37 Circa l’esistenza di «una grande area di pensiero che non ha alcuna relazione diretta col pensiero verbale» valgono qui le osservazioni di Vygotskij (1934, p. 118; cfr. cap. I, IV, VII). È noto infatti che a conclusione di uno studio decennale di psicologia sperimentale e comparata l’autore russo abbia registrato la presenza nell’animale umano di forme linguistiche non intellettive (recitare una poesia a memoria o esprimere un’emozione) e di campi di pensiero non verbale (rudimenti di saper-fare utile a manipolare oggetti o a costruire strumenti oppure rudimenti di saper-agire atto a prendere mini-decisioni, a valutare e comparare situazioni e stati di cose). In Vygotskij l’«intersecazione» delle vie di sviluppo del pensiero e del linguaggio, cioè il luogo in cui il linguaggio diventa verbale e il pensiero diventa linguistico, non è una premessa naturale ma un risultato storico-sociale; in origine infatti i due processi sono dotati di radici genetiche differenti. Tale indipendenza, sottolinea lo psicologo russo, si fa valere anche in sede di pensiero verbale giunto a maturazione, nei cui riguardi egli afferma: «non esaurisce né tutte le forme del pensiero, né tutte le forme del linguaggio» (Ivi, p. 118). Sull’utilizzo della linea di ricerca di Vygotsky nella sociologia e nella linguistica del lavoro francese è istruttivo il dossier monografico Bakhtine, Vygotski et le travail contenuto nella rivista «Travailler», 2001/2, n. 6.
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Nello specifico campo di indagine della conoscenza scientifica stanno gli enti la cui qualità è quella di non essere sottoposti al divenire; essi conservano intonsa la propria essenza perché sono separati dalla storia, dunque, racchiudono un contenuto eterno (ἀίδιον). Come osservano Gauthier e Jolif (2002) gli oggetti della scienza secondo Aristotele vanno intesi non secondo un valore esistenziale bensì nel loro carattere essenziale:
Le triangle n’existe pas nécessairement, mais il est nécessairement ce qu’il est – une figure dont la somme des angles est égale à deux droits – et il l’est donc éternellement, sans qu’il ait jamais commencé à l’être ni qu’il puisse jamais cesser de l’être (qu’il existe ou qu’il n’existe pas) (Gauthier-Jolif, 2002, p. 454).
Guathier e Jolif autorizzano a sostenere che dall’essenza degli oggetti scientifici non è necessariamente deducibile la loro esistenza; in questa prospettiva il dato rilevante è che cosa essi sono e non la loro realtà empirica: la somma degli angoli interni di un triangolo è sempre uguale a due retti indipendentemente dal suo stazionare nel mondo in qualità di prodotto estrinseco.
Qui giunti è possibile avanzare la seguente ipotesi: l’episteme o conoscenza scientifica presa in senso aristotelico attiene a ciò che è eterno precisamente perché essa è separata dalla produzione. Questa idea pare essere confermata da Heidegger in quell’ineguagliabile commento all’Etica Nicomachea inserito nella sinossi preparatoria al corso marburghese del 1924-1925 sul Sofista di Platone. Nelle pagine dedicate al VI Libro dell’opera aristotelica, già utilizzate nel primo capitolo di questa ricerca, allorché l’autore ricostruisce il significato di episteme, egli concepisce una doppia dialettica con la praxis da un lato e con la poiesis dall’altro:
La τέχνη ha a che fare con cose che devono prima essere fatte, e che non sono ancora ciò che saranno. La φρόνησις rende accessibile la situazione; le circostanze sono sempre diverse in ogni azione. Invece ὲπιστἠµη e σοπία vertono su ciò che c’è già sempre, senza dover essere prodotto ex novo (p. 74).
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L’episteme, per come è stato illustrato precedentemente, concerne ciò che non può essere diversamente da come è, al contrario la techne e la phronesis, ovvero rispettivamente il sapere che guida la poiesis e quello che guida la praxis, sono entrambe inscritte nella sfera di ciò che è mutevole e perituro (EN, 1140a). Se si esclude la sophia, che non rientra in questa indagine, si ricava che l’episteme si situa in una sfera diversa da quella in cui risiedono praxis e poiesis perché essa verte su «ciò che c’è già sempre, senza dover essere prodotto ex novo». È in questo orizzonte che appare in ogni senso decisiva l’affermazione secondo cui la coerenza concettuale dell’episteme, la sua essenziale connessione con l’eterno, è legittimata dall’incolmabile distanza che la separa dalla produzione.
Nei più sviluppati processi lavorativi del tardo capitalismo questo modello, recepito e in larga misura accettato dalla filosofia della prassi novecentesca, pare essere radicalmente revocato in dubbio e l’argomento circa la caduta dei confini tra episteme, praxis e poiesis è un chiodo fisso della filosofia italiana di ispirazione operaista (cfr. Virno 1993; 2002a; 2015b). Situandomi nell’ottica delle analisi operaiste vorrei fornire una variazione rispetto allo schema tradizionalmente usato da Virno a proposito della ibridazione tra Lavoro, Azione e Intelletto, nel tentativo di integrarlo. In apertura di Virtuosismo e rivoluzione Virno (1993, p. 116) afferma: «In queste note si sostiene: a) che il lavoro [poiesis] ha assorbito i tratti distintivi dell’agire politico [praxis]; b) che tale annessione è stata resa possibile dalla combutta tra la produzione contemporanea e un Intelletto divenuto pubblico, irrotto cioè nel mondo delle apparenze»38. Qui, mutando
38 Più avanti, nel completare la pagina introduttiva al suo «piccolo (minimo) trattato politico» (Virno, 1993, p. 9), Virno aggiunge: «si avanzano poi le seguenti ipotesi: a) il carattere pubblico e mondano del Nous, ossia la potenza immateriale del general intellect, costituisce il punto di partenza inevitabile per ridefinire la prassi politica, nonché i suoi problemi salienti: potere, governo, democrazia, violenza ecc. In breve, a quella tra Intelletto e Lavoro, va opposta la coalizione tra Intelletto e Azione. b) Mentre la simbiosi di sapere e produzione procura l’estrema, anomala e però vigorosa, legittimazione al patto di obbedienza ne confronti dello Stato, la connessura tra general intellect e Azione politica lascia intravedere la possibilità di una sfera pubblica non statale» (Ivi, p. 117). L’alleanza tra Intelletto e Azione, opposta al legame tra Intelletto e Lavoro, è il nuovo principio repubblicano con cui avviare l’Esodo, ovvero «la defezione di massa dallo Sato» (Ivi, p. 130). L’Esodo, inteso come connubio tra Intelletto e Azione, è progettato «al di fuori del Lavoro, in opposizione a esso» (Ibidem). A questa estromissione del Lavoro dal programma di liberazione dallo Stato e dal capitale l’ultimo Virno (2015b) sembra replicare con la nozione di uso. L’uso è l’operosità originaria che funge da premessa tanto per le attività del genere della praxis quanto per quelle del genere della poiesis (cfr. Ivi, pp. 157-159). Nella semantica di Virno l’uso non è affatto lo strumento con cui disattivare la politica e la produzione, come accade in Agamben (2014a), al contrario l’uso è il luogo in cui
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appena lo sguardo, l’idea è che la conoscenza, l’episteme quale uno degli elementi contenuti nell’Intelletto, consegua lo spessore di fattore produttivo nella misura in cui è messa fin da subito in relazione con la prassi linguistica. La mossa sarebbe, dunque, di intendere la connessione tra Lavoro e Intelletto e quella tra Lavoro e Azione non nell’ordine della premessa e della conseguenza bensì come due momenti in coevoluzione: se l’una allora, contestualmente, anche l’altra, e viceversa.
Secondo questa prospettiva, che conserva un certo grado di confronto dialettico tanto con le più recenti tesi sul capitalismo cognitivo quanto con gli ormai ultradecennali argomenti della filosofia operaista, non sembra del tutto legittimo pensare alla congiuntura tra produzione e conoscenza senza anche, al contempo, teorizzare l’introduzione della praxis nella poiesis, e intendere questo transito come il luogo preciso in cui l’espisteme si converte in sapere sociale non formalizzato, che si articola nella cooperazione tra parlanti. Sull’intreccio tra linguaggio, conoscenza e lavoro può gettare luce un brano di Josiane Boutet (1993, p. 55), esponente della linguistica del lavoro in Francia, linea di ricerca che sarà al centro dell’ultimo paragrafo di questo capitolo. Il brano in questione e più in generale l’intero orizzonte di senso di Boutet sono l’esito di studi empirici svolti in contesto di lavoro:
Dans de nombreuses approches du langage en situation de travail on considère celui- ci comme l’instrument ou le vecteur de connaissances déjà élaborées par les sujets. Ces derniers ont alors à les expliciter pour le psychologue, l’ergonome ou l’ingénieur venu, par exemple, «extraire les connaissances» de l’expert. Que des savoirs soient mémorisés, que les sujets puissent y accéder, et que ces opérations viennent se matérialiser dans du discours, constitue indéniablement l’un des fonctionnements possibles de l’activité de langage. Mais ce n’est pas le seul. Le langage permet aussi, du fait même de la mise en mots, la construction ou l’élaboration de savoirs et de connaissances nouvelles, contemporaines de l’énonciation même de la parole et qui ne préexistaient pas. Il y a alors une véritable fonction de découverte, grâce à l’énonciation: on dit à autrui des choses qu’on ne savait pas (ou pas sous cette forme là) avant de les énoncer.
rinvenire la matrice comune della praxis e della poiesis così da poterle riarticolare al di là delle figure istituzionali dello Stato e del capitale.
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