4. Da Hegel a Habermas: linguaggio, lavoro e processo di formazione dello spirito
4.2 La connessione tra teleologia e lavoro
Nelle analisi sulla filosofia dello spirito jenese contenute in Lukács (1948) emerge con notevole nitore l’argomento destinato a diventare un classico della tradizione hegelomarxista, ovvero la tesi sul carattere finalisticamente determinato della produzione. Le osservazioni di Lukács evidenziano che la coerenza concettuale della produzione consiste nella teleologia, il comportamento produttivo umano si distingue da altre attività tipiche della specie, anzitutto dall’agire comunicativo, perché equivale a «una relazione finalistica isolata, mediata dallo strumento, tra il soggetto e l’oggetto del suo bisogno particolare» (Virno, 1986, p. 68). Ma ecco come Lukács (1948, p. 482) introduce il tema commentando le posizioni di Hegel:
Come ogni grande svolta nella filosofia, questa scoperta hegeliana è, nella sua essenza, straordinariamente semplice; ogni uomo che lavora sa istintivamente che con lo strumento di lavoro, l’oggetto di lavoro ecc. egli non può fare se non ciò che consente la legalità oggettiva di questi oggetti o della loro combinazione, che cioè il processo lavorativo non può mai andare al di là dei nessi causali delle cose. E ogni invenzione degli uomini può consistere solo nello scoprire nessi causali oggettivi finora nascosti e nel farli quindi cooperare nel processo lavorativo. Il carattere specifico della finalità, come vedono giustamente Hegel e Marx, consiste solo nel fatto che la rappresentazione della meta è presente prima della messa in moto del processo lavorativo; che il processo lavorativo ha lo scopo di realizzare questa meta con l’aiuto dei nessi causali – sempre più profondamente conosciuti – della realtà oggettiva.
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Secondo la lettura di Lukács la produzione nello Hegel di Jena è un’attività sottomessa al regime delle cause, in particolare al regime dei nessi di causalità efficiente tra gli elementi della natura, ed è compiuta in vista di uno scopo. Tale schema è ripreso da Marx, senza variazioni di sorta, nel celebre capitolo V del Libro I del Capitale in cui il processo lavorativo, oltre a essere esaminato dal punto di vista dei rapporti di forza capitalisticamente determinati, è studiato anche nei suoi «momenti semplici»14.
In una pagina delle lezioni del 1805-1806, citata anche da Luckács (1948, pp. 480-481), Hegel propone in forma matura le riflessioni sulle proprietà monologiche e strumentali della produzione:
Il lavoro, nel suo senso proprio, è non solo attività (acido), bensì attività riflessa in sé, produrre; una determinata-e-limitata forma del contenuto, un singolo momento; ma qui l’impulso produce se stesso, produce il lavoro stesso – l’impulso si soddisfa – quelli cadono nella coscienza esteriore. Ciò è il contenuto anche in quanto è il voluto, e mezzo del desiderio, la possibilità determinata di ciò che è voluto; nello strumento o nel campo coltivato, fertilizzato io possiedo la possibilità, il contenuto come un contenuto universale; perciò lo strumento, il mezzo è superiore allo scopo del desiderio, che è singolo; esso comprende tutte le singolarità. Ma lo strumento non ha ancora l’attività in lui stesso; è una cosa inerte; non ritorna in lui stesso – Io devo ancora lavorare con esso; io ho inserito l’astuzia tra me e la cosalità esteriore, per risparmiarmi e proteggere con ciò la mia determinatezza e lasciare che lo strumento si consumi; con questo però io risparmio solo secondo la quantità – ma pure mi vengono i calli; il farmi cosa è ancora un momento necessario; l’attività propria dell’impulso non è ancora nella cosa. Bisogna porre nello strumento anche un’attività propria, per farlo diventare qualcosa che è attivo da sé. Questo accade in
14 Valgano a titolo d’esempio i seguenti passaggi marxiani: «Noi supponiamo il lavoro in una forma nella quale esso appartenga esclusivamente all’uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nell’idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente […] I momenti semplici del processo lavorativo sono l’attività conforme allo scopo, ossia il lavoro stesso, l’oggetto del lavoro e i mezzi di lavoro» (Marx, 1867, p. 128). E ancora: «Il processo lavorativo, come l’abbiamo esposto nei suoi movimenti semplici e astratti, è attività finalistica per la produzione di valori d’uso, appropriazione degli elementi naturali per i bisogni umani, condizione generale del ricambio organico tra uomo e natura, condizione naturale eterna della vita umana; quindi è indipendente da ogni forma di tale vita e, anzi, è comune ugualmente a tutte e forme di società della vita umana. Perciò non abbiamo avuto bisogno di presentare il lavoratore in rapporto con altri lavoratori. Sono stati sufficienti da una parte l’uomo e il suo lavoro, dall’altra la natura e i suoi materiali» (Ivi, p. 132).
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modo tale che α) il filo è avvolto intorno alla linea e viene utilizzata la sua duplicità di lati per farlo – in questa opposizione – ritornare in sé – in generale la passività di muta in attività, in un persistere del combaciare. β) In generale questo accade in modo tale che l’attività della natura – elasticità della molla, acqua, vento – viene impiegata per fare, nella sua esistenza sensibile, qualcosa di interamente altro da ciò che essa vorrebbe fare – che il suo cieco fare viene trasformato in un fare conforme a un fine; nel contrario di se stessa – condotta razionale della natura – leggi nella sua esistenza esteriore. Alla natura stessa non accade niente – singoli scopi dell’essere naturale <diventanto> un universale. Un uccello passa in volo. Qui l’impulso si ritrae completamente dal lavoro; esso lascia che la natura si consumi, sta tranquillamente a vedere, e governa soltanto, con lieve fatica, l’intero – astuzia. Onore dell’astuzia di fronte alla potenza, afferrare la cieca potenza per un lato, in modo che essa si rivolga contro se stessa – aggredirla, afferrarla in quanto determinatezza, essere attiva contro questa – l’uomo è così il destino di ciò che è singolo. Attraverso l’astuzia il volere è diventato il femminile. L’impulso che-esce- fuori è in quanto astuzia un teoretico stare-a-guardare; ciò-che-non-sa [è diventato] impulso al sapere (Hegel, 1803-1804 – 1805-1806, pp. 90-92).
È celebre l’immagine hegeliana dell’astuzia con cui l’autore provvede a correlare da un lato l’introiezione, da parte del processo produttivo, del livello di causalità meccanica della natura e dall’altro il finalismo semplice. È interessante notare come, stando al ragionamento di Hegel, l’astuzia, sinonimo di strumentalità isolata e muta, causale e finalistica, consegua la propria verità nella fase primitiva del passaggio dallo strumento alla macchina, allorché il macchinismo assorbe in sé le qualità dello strumento e, in quanto sistema automatico, mette in crisi l’esistenza della poiesis umana. In questa metamorfosi dello strumento in macchina, nell’ottica di Hegel, il comportamento produttivo umano sarebbe del tutto soppiantato dall’automa meccanico, dunque, «l’attività dell’uomo consiste semplicemente nello “stare a guardare”: l’atteggiamento contemplativo corona anche l’attività pratica» (Li Vigni, 1998, p. 24). Nel prosieguo di questa ricerca diventerà chiaro che il modello esplicativo basato sull’astuzia sarà destinato a esaurirsi. La vasta letteratura sociologica ed economica, presentata nel II capitolo, registra una drastica trasformazione del lavoro vivo nel capitalismo del XXI secolo confutando ogni teoria tesa a correlare lo sviluppo in senso tecnologico del capitale con la scomparsa della poiesis umana e con il conseguente palesarsi di un
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uso contemplativo della vita che oltre alla poiesis neutralizzerebbe anche la
praxis. L’astuzia causale e finalistica, questo è il dato davvero rilevante, non
appare più come il carattere preminente né delle macchine, né del vivo processo lavorativo. L’incremento, nell’intimo della produzione diretta, di comportamenti comunicativi, il cui fine non è esterno alla comunicazione stessa, non sarebbe possibile se non fosse che anche lo strumento elettronico e informatico fuoriesce dallo schema teleologico. Secondo l’epistemologia dell’operaismo italiano, che sarà illustrata nel dettaglio sul finire di questa indagine,
la macchina-funzione, che organizza una causalità formale [e non più una causa efficiente], è per definizione incompleta e parzialmente indeterminata: non replica tecnologica di forze naturali date, ma infondata premessa di differenti possibilità costruttive. Come presupposto materiale di un novero indefinito di eventualità operative, lo strumento informatico non gode di autosufficienza, ma rimanda all’attività linguistica che qualifica di volta in volta le virtualità (Virno, 1986, p.
72-73).
Nel tardo capitalismo il lavoro dell’uomo e la macchina si emancipano dall’astuzia, configurando un quadro affatto nuovo in cui
le azioni comunicative, che qualificano la causalità formale della macchina elettronica, non sono orientate a conseguire uno scopo esterno alla comunicazione stessa, non introducono cioè un antecedente in vista di un conseguente, ma si esauriscono nella loro simultaneità e complementarietà. Tanto la premessa che il termine medio del produrre esautorano la teleologia (Ivi, p. 73).