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Sviluppi contemporanei: lʼontologia dellʼarte di Amie L Thomasson

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 64-73)

Dopo diversi studi di stampo squisitamente meta-ontologico,69 Amie L. Thomasson, soprattutto nella fase più recente della sua ricerca, ha dedicato ampio spazio anche a problemi legati allʼontologia dellʼarte – consapevole del fatto che questʼultima «ha occupato una delle aree di discussione più vaste nellʼestetica recente» (Thomasson 2005, p. 221) –, offrendo così alla stampa diversi contributi importanti, tra cui The Ontology of Art (2004), The Ontology of Art and Knowledge in Aesthetics (2005), Debates about Ontology of Art: What Are We Doing Here? (2006) e

Ontological Innovation in Art (2010).

In particolare, in The Ontology of Art la Thomasson intende dimostrare il fatto che rispetto alle opere dʼarte appare certamente fuorviante il tentativo di perseguire una sistemazione dei nostri saperi che si modelli sul sapere delle scienze naturali – o, come specificherà in The Ontology of Art and Knowledge in Aesthetics, sul “paradigma della scoperta”, «the discovery view» (ib.), secondo cui «il mondo contiene numerosi fatti determinati, indipendenti dalla mente, su cui ognuno può essere ignorante o in errore, ma che qualche scienziato cerca di scoprire attraverso delle investigazioni empiriche sostanziali» (ib.) –.70

Secondo la Thomasson, infatti, lʼontologia dellʼarte sarebbe stata viziata finora dallʼassumere come paradigmatiche le entità oggetto delle scienze naturali – e, dunque, entità la cui vera natura va scoperta –; quando, invece, nei territori di competenza di discipline come lʼontologia, un simile ruolo non risulta affatto scontato.

69 Cfr. Thomasson 1999, 2007 e 2014.

70 La Thomasson suggerisce piuttosto che: «La sola via per riuscire a trovare la verità sullʼontologia dellʼopera dʼarte è la via dellʼanalisi concettuale, che estrapola dalle nostre pratiche e dalle cose che noi diciamo la sottostante concezione ontologica di coloro che fondano il riferimento del termine [Thomasson sta qui pensando alla teoria causale del riferimento], rendendole forse più esplicite, appianando ogni inconsistenza apparente e mostrando il loro posto allʼinterno di un quadro ontologico più ampio» (Thomasson 2005, p. 227).

Per chiarire meglio questʼultimo assunto, piuttosto definitorio, sembra opportuno seguire più da vicino il ragionamento che la Thomasson ci propone al riguardo:

Sebbene sembri che poche persone abbiano una risposta pronta alla questione sullo statuto ontologico dellʼopera dʼarte, alcune considerazioni importanti sono costruite facendo affidamento al nostro modo comune di intendere le opere dʼarte e le pratiche artistiche ad esse correlate. Normalmente consideriamo le opere dʼarte come delle cose che vengono create in un certo momento, in particolari circostanze culturali e storiche, attraverso il fare immaginativo e creativo di un artista, un compositore o un autore. Una volta create, tendiamo a considerarle poi come delle entità pubbliche, relativamente stabili e durevoli, e che possono essere viste, udite o lette da un numero differente di persone, le quali possono legittimamente costruire delle argomentazioni a proposito di qualche proprietà dellʼopera in questione (Thomasson 2004, p. 78).

Più specificamente, stando al senso comune le opere pittoriche e scultoree sono intese come delle entità individuali: anche se possono esistere delle loro riproduzioni perfette, comunque lʼopera dʼarte autentica coincide sempre con lʼoriginale; e proprio in quanto entità individuali, dipinti e sculture possono essere vendute, comprate, conservate attraverso opere di restauro e, persino, distrutte.

Diversamente, le opere musicali e letterarie possono essere riprodotte in numerose copie (è anzi auspicabile per lʼartista che le ha create, che esse lo siano): il manoscritto originale firmato dallʼautore stesso, per esempio, possiede certamente una certa valenza storica, ma se un giorno esso dovesse venire innavvertitamente distrutto, lʼopera dʼarte potrebbe comunque continuare a “vivere” in altre copie dello stesso manoscritto, o anche solo nella memoria dei suoi fruitori. Inoltre, le opere musicali e letterarie, a differenza di dipinti e sculture, non vengono letteralmente vendute e comprate: ciò che viene venduto sono i diritti di riproduzione dellʼopera e non unʼentità fisica concreta.

«Queste differenze ci suggeriscono che le opere dʼarte non possono rientrare tutte nella stessa tipologia ontologica» (p. 79), e arrivata a questa importante conclusione, la Thomasson decide di passare in rassegna alcune delle più celebri considerazioni ontologiche sullʼarte, sebbene riconosca che nessuna di essa possa

apparire pienamente soddisfacente, in quanto, in qualche modo, si ritrova ad essere in conflitto con il nostro modo comune di intendere le opere dʼarte e le pratiche ad esse correlate.

La “rassegna ontologica” incomincia ricordando la tanto nota, quanto contrastata ipotesi dellʼoggetto fisico, come ha avuto da definirla lo stesso Richard Wollheim che lʼha esposta nel suo Art and Its Objects (1968), secondo cui le opere dʼarte sono degli oggetti puramente fisici – cumuli di marmo, tele dipinte, sequenze di suoni o segni su delle pagine –, così che il loro statuto ontologico non può apparire tanto più enigmatico di quello degli oggetti a noi più familiari.

Stando invece alla proposta avanzata, qualche anno prima, da Robin G. Collingwood in The Principles of Art (1958), non soltanto la creazione immaginativa sarebbe necessaria per la creazione di unʼopera dʼarte, ma sarebbe persino sufficiente: un compositore, ad esempio, può comporre unʼopera dʼarte semplicemente “nella propria testa”, senza essere tenuto per forza a scrivere uno spartito o a suonare delle note. Inoltre, secondo Collingwood, lʼautentica opera dʼarte non si identifica mai con la tela dipinta, la serie di suoni o le pagine di un libro di cui può essere “costituita”: questi oggetti fisici rappresentano soltanto dei mezzi di cui lʼartista si serve per invitare ed aiutare i fruitori della sua opera a ricostruire dentro di sé quello stesso processo immaginativo con cui egli è arrivato a creare lʼopera dʼarte. È proprio questa esperienza immaginativa, completa e totale – che coinvolge lʼartista, da una parte, e i fruitori più competenti, dallʼaltra –, ciò che può essere considerata come lʼautentica opera dʼarte.

Similmente, Jean-Paul Sartre, in Lʼimaginaire (1940), ritiene che le opere dʼarte siano delle entità immaginarie, dal momento che lʼosservazione di oggetti artistici richiede sempre degli atti immaginativi di coscienza. A differenza di Collingwood, però, Sartre intende, in qualche modo, preservare la “componente materiale” dellʼopera, arrivando a considerarla non come una mera attività, bensì come unʼentità, che viene certamente creata e sostenuta attraverso degli atti di coscienza immaginativa, ma che esiste fintantoché resta oggetto di tali atti.71

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Come ricorda anche DʼAngelo: «La presenza di opere che sembrano non avere nulla a che fare con lo

status della cosa, dato che non sembrano distruttibili attraverso la distruzione dei loro supporti materiali,

ha portato alcuni autori ad abbracciare una veduta che costituisce lʼantitesi più netta allʼipotesi dellʼoggetto fisico. Si tratta dellʼidea che lʼopera consista nellʼimmagine interna, presente nella mente dellʼartista e in quella del fruitore dellʼopera» (DʼAngelo 2011, p. 146).

In ogni caso, anche queste due ultime concezioni ontologiche (con cui, verosimilmente, si avrebbe potuto supplire ai problemi che lʼ“ipotesi dellʼoggetto fisico” di Wollheim avrebbe portato con sé) sembrano implicare in realtà molti più problemi, che soluzioni. Innanzitutto, come fa notare la Thomasson, diventa estremamente complicato vedere e dimostrare come la stessa opera dʼarte possa essere esperita e discussa da persone diverse; inoltre, sembra che nessuna opera dʼarte autentica possa essere distrutta, dal momento che esisterebbe soltanto nella mente di chi lʼha creata e in quella di chi ne gode. Per le stesse ragioni, a differenza di quanto avviene nel mondo dellʼarte di cui oggi siamo tutti testimoni, non si capisce come le opere dʼarte, così concepite, possano essere vendute, comprate, riprodotte, o restaurate. Ad aggiungersi, infine, la problematica forse più evidente: considerare le opere dʼarte come attività o entità immaginarie significa, implicitamente, ritenere che lʼopera dʼarte possa esistere soltanto “ad intermittenza”, in base, cioè, alla presenza o allʼassenza di stati mentali di supporto e che, dunque, per la sua stessa esistenza ed essenza dipenda totalmente dai nostri atti immaginativi.

La soluzione, allora, sembrerebbe derivare dalla possibilità di interpretare lʼ“ipotesi dellʼoggetto fisico” da una prospettiva “più debole”, secondo cui le opere dʼarte sono degli oggetti concreti individuali, ma non identificabili totalmente con i loro costituenti materiali; e, dunque, non delle entità pienamente descrivibili in termini fisici. Anche se questa prospettiva può apparire come la più plausibile tra tutte quelle sino a qui ricordate, secondo la Thomasson, comunque «il problema di determinare il preciso statuto ontologico delle opere dʼarte rimane irrisolto» (p. 82). Rimangono infatti delle ottime ragioni per rifiutare il fatto che tutte le opere dʼarte siano degli oggetti fisici (nel senso “forte” o “debole” del termine): i già ricordati Wollheim e Wolterstorff, per esempio, sebbene sostengano che alcuni tipi di opere dʼarte – dipinti e sculture, in

primis – siano degli oggetti fisici, entrambi rifiutano che ciò possa valere per tutte le

opere dʼarte. Le opere musicali, letterarie e teatrali non sono particolari oggetti fisici, processi o eventi che possono essere plausibilmente identificati con lʼopera dʼarte stessa o con il materiale costitutivo di base. A tale riguardo, la proposta di Wollheim è allora quella di considerare queste ultime come delle entità astratte72 e, più specificamente,

72 Come ricorda anche Maurizio Ferraris, la posizione della Thomasson appare simile a questa di Wollheim, in quanto, nella sua opera Fiction and Metaphysics (1999), «per opere come le sinfonie e i romanzi deve introdurre una categoria ontologica a parte, quella degli “artefatti astratti” (artefatti nel

come tipi di cui le diverse copie o esecuzioni sono segni, dando così adito al celebre modello type-token, di cui si è già avuto modo di parlare. Secondo Wolterstorff, invece, le opere musicali e quelle letterarie andrebbero considerate come dei generi normativi, ossia, come si è visto, generi determinati al loro interno da delle proprietà normative, dove queste proprietà sono precisamente quelle scelte dallʼartista al fine di garantirne la più corretta riproduzione.

A conclusione della sua “rassegna ontologica”, la Thomasson riporta la “stravagante” posizione di Gregory Currie, che nella sua An Ontology of Art (1989) considera tutte le opere dʼarte (non solo romanzi e sinfonie, ma anche dipinti e sculture) come entità astratte, suscettibili di avere occorrenze multiple, di pari statuto ontologico ed estetico. Per Currie, più specificamente, le opere dʼarte sono dei tipi di azione (action

types): azioni compiute dallʼartista nello scoprire una determinata struttura (letteraria,

musicale o figurativa che sia).73

Anche questʼultima ipotesi, tuttavia, come si può facilmente immaginare, arriva a scontrarsi con la concezione comune di opera dʼarte:

senso che sono il prodotto di unʼattività intenzionale umana; astratti, perché non si identificano con nessun oggetto concreto in particolare)» (Ferraris 2007a, p. 148). A tale proposito, lo stesso Ferraris ritiene che la propria proposta – che egli etichetta come teoria della iscrizione – possieda «un potere esplicativo superiore alla ipotesi di Thomasson» (ib.). La teoria della iscrizione, prendendo le mosse dalla celebre ontologia sociale del già citato filosofo americano John Searle (cfr. Searle 1995), riconosce nelle opere dʼarte, innanzitutto, la sedimentazione di atti sociali fissati attraverso la memoria e, dunque, attraverso la scrittura (di qualunque tipo essa sia), «la quale poi, per la realtà sociale, tende a dar vita a documenti» (p. 146). Unʼopera dʼarte, pertanto, si caratterizza in quanto atto iscritto – «(da intendersi come condizione necessaria ma non sufficiente: perché ci sia opera, è necessario un atto iscritto, ma ovviamente ci sono tantissimi atti iscritti che non sono opere dʼarte)» (ib.) –, che è il risultato di un atto che coinvolge almeno un autore e un destinatario – «anche chi scrive solo “per sé” postula, nella propria attività, un destinatario» (pp. 146-147) –. Ferraris riporta qui, come esempio, il caso di Botticelli, «che non ha preso una tavola di legno con sopra dei colori battezzandola Nascita di Venere, ma ha pensato un quadro come quadro, ha fatto degli schizzi preparatori, ha dipinto, il tutto in un contesto di committenze, di aspettative e di codici culturali» (p. 147). Ma Ferraris prosegue, facendo notare «che questo vale anche per Duchamp. Non è che lʼorinatoio si trasformi in opera grazie a un colpo di bacchetta magica. Piuttosto, cʼè una intuizione di Duchamp che si traduce in atto, e che viene iscritta come opera, per esempio in un museo, o in una fotografia su un libro di storia dellʼarte, ecc.» (ib.). Nel caso di Botticelli, lʼintenzione guidava anche lʼorganizzazione del materiale, mentre Duchamp “si appropria” di un oggetto già fatto – un

ready-made, per lʼappunto –. Per ulteriori approfondimenti sullʼontologia dellʼarte proposta da Ferraris,

rimando anche a Ferraris 2007b; mentre per un “inquadramento generale” sulla sua interessante ontologia

del documento, rimando, tra gli altri, a Ferraris 2005, 2007c e 2009.

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«Currie vede le opere dʼarte come tipi dʼazione (action-types), ove lʼazione in questione consiste nella complessa sequenza di passi tramite cui lʼartista, che ha in mente certi obiettivi e sta lavorando in un certo contesto creativo, perviene a un certo oggetto manifesto – ciò che noi solitamente, ancorché in modo erroneo, identifichiamo come lʼopera dʼarte stessa. Currie crede che tutte le opere dʼarte siano tipi, anche quelle che, come i dipinti e i disegni, sono apparentemente particolari unici» (Levinson 2002, p. 440).

Sembra, infatti, che malgrado la diversità delle concezioni a nostra disposizione, nessuna sia completamente soddisfacente. Nessuna opera di pittura, scultura, musica o letteratura può essere identificata con unʼentità immaginaria, un mero oggetto fisico, un tipo o un genere astratto, senza richiederci di abbandonare o di rivedere seriamente il modo abituale di intendere lʼarte, che è incorporato nelle nostre credenze, nei nostri comportamenti abituali e nelle pratiche con cui trattiamo le opere dʼarte (p. 83).

La Thomasson ci invita allora ad una serie di riflessioni: non potrebbe essere proprio il nostro modo di intendere lʼarte ad essere sbagliato, anziché le proposte ontologiche che si sono susseguite durante la storia dellʼestetica?; le violazioni del senso comune sullʼarte rappresentano davvero un problema per le teorie estetiche, o costituiscono, piuttosto, un “ostacolo” soltanto per il nostro senso comune?

Qualcuno potrebbero sostenere che esistono delle violazioni soltanto per il senso comune e che anche in passato, quando le cosidette “credenze popolari” si sono ritrovate ad essere in contrasto con le teorie scientifiche che venivano via, via proposte da delle “menti” sempre più allʼavanguardia, le prime hanno dovuto sopperire e cedere inevitabilmente il loro spazio alle seconde. Così, similmente, si potrebbe pensare che alcune delle nostre migliori teorie estetiche potrebbero, alla fine, richiederci di rivedere, se non addirittura di superare in toto alcuni dei modi con cui pensiamo abitualmente allʼopera dʼarte.

Ciononostante, come fa notare la Thomasson, è fondamentale riconoscere come vi sia una differenza sostanziale tra le teorie scientifiche e quelle filosofiche: le prime non soltanto devono, ma soprattutto possono essere confermate empiricamente, riuscendo così a fornirci delle motivazioni valide per essere a favore delle loro dirette implicazioni; ma «lo stesso stato epistemico non può essere condiviso dalle teorie filosofiche» (p. 84).

Non solo manca lʼevidenza empirica necessaria per confermare le teorie che ritengono le opere dʼarte degli oggetti fisici, dei tipi di azione, piuttosto che delle entità immaginarie, ma non è nemmeno chiaro che tipo di conclusioni empiriche è possibile considerare a favore o contro i principali modi di intendere lo statuto ontologico delle opere dʼarte. Pertanto, sebbene anche le migliori teorie scientifiche a volte si ritrovino ad essere in conflitto con il senso comune, [...] lʼanalogia con il caso delle teorie scientifiche non ci dà motivo di credere che le concezioni del senso

comune debbano essere lasciate da parte quando entrano in conflitto con le teorie dellʼestetica filosofica (ib.).

Al contrario, la Thomasson è fermamente convinta che proprio le concezioni e le pratiche del senso comune vadano a determinare lo statuto ontologico dei termini a cui si riferiscono – nel caso specifico, lo statuto ontologico delle opere dʼarte e, di conseguenza, dei generi artistici –. Sembra pertanto assolutamente plausibile – se non addirittura necessario – che gli artisti, o comunque tutte quelle persone che hanno a che fare con il mondo dellʼarte e si ritrovano a trattare costantemente con delle opere dʼarte, conoscano e abbiano saputo fare proprie queste stesse convinzioni, le quali, a loro volta, costituiscono le basi di tutte le pratiche di esecuzione, ristrutturazione, vendita ed esposizione di opere dʼarte di vario genere.

Sembra, infatti, che se uno ammette che esistono delle opere dʼarte, il solo metodo appropriato per determinare il loro statuto ontologico viene dal tentativo di chiarire e rendere esplicite le assunzioni ontologiche che derivano dalle più rilevanti pratiche e credenze che hanno a che fare con le opere dʼarte, così da poterle sistematizzare, trascrivere in termini filosofici e poterle inserire allʼinterno di uno schema ontologico generale. Ne risulta che la coerenza con tali credenze e pratiche costituisce il migliore criterio di successo per una teoria sullʼontologia delle opere dʼarte. Dal momento che cʼè la possibilità che queste pratiche siano vaghe o lascino alcuni problemi aperti, ogni precisa teoria filosofica deve in qualche modo supplire ad esse, interpretare i loro precetti, chiarire ogni visione che possa violarle troppo drasticamente [...]. Perciò concezioni radicalmente revisioniste, come quella di Currie, possono al meglio essere viste come delle suggestioni su come le nostre pratiche potrebbero essere riviste (in un modo che Currie aveva trovato forse più coerente e giustificato), ma non come descrizioni sul tipo di cosa che le opere dʼarte che noi conosciamo “sono veramente” (pp. 87-88).74

La Thomasson, inoltre, ammonisce che per risolvere i problemi dellʼontologia dellʼarte non possiamo semplicemente selezionare e appropriarci delle categorie

74 Anche in The Ontology of Art and Knowledge in Aesthetics, la Thomasson sosterrà che: «Le soluzioni radicali non possono essere viste come scoperte su ciò che è davvero lo statuto ontologico dei generi artistici, ma soltanto come proposte su come potremmo cambiare le nostre pratiche – non perché esse siano sbagliate in quanto basate su delle visioni non esplicite, a differenza di quanto vale per i fatti reali, ma, forse, solo perché il cambiamento proposto potrebbe renderle più chiare, meno vaghe, e così via» (Thomasson 2005, p. 227).

ontologiche già disponibili; occorre tornare alle “fondamenta” della metafisica, per ripensare alcune delle sue biforcazioni più “classiche”: come, ad esempio, quella che separa e oppone le entità indipendenti dalla mente e quelle interne alla mente; piuttosto che quella tra gli oggetti concreti, collocati spazio-temporalmente, costretti al cambiamento e al perimento, e gli oggetti astratti, indipendenti, non mutevoli ed eterni.

Unʼattenta considerazione dellʼontologia dellʼarte ha impatto e applicazioni anche al di fuori dellʼestetica: riesce a dimostrare che le biforcazioni delle categorie tradizionali non sono esaustive e che abbiamo bisogno di accettare delle nuove categorie ontologiche, se vogliamo davvero includere delle entità come le opere dʼarte allʼinterno della nostra ontologia. Lo sviluppo di una più adeguata ontologia delle opere dʼarte può anche costituire la base per un modo ontologico più adeguato di trattare gli oggetti sociali e culturali in generale, molto spesso trascurati nella metafisica naturalistica. [...] Lʼespansione dei tradizionali sistemi categoriali, al fine di rendere giustizia anche alle opere dʼarte, può aprire la strada per risolvere problemi ontologici riguardanti numerosi oggetti sociali e culturali. In definitiva, [...] il vantaggio può risiedere non soltanto nellʼavere una migliore ontologia dellʼarte, ma anche una migliore metafisica (p. 90).

In un suo saggio successivo, Ontological Innovation in Art (2010), la Thomasson sembra essere giunta, invece, ad una conclusione alquanto “pessimistica” a proposito della possibilità di realizzare unʼeffettiva ontologia dellʼopera dʼarte. Arriva infatti a ritenere che non ci siano delle risposte definitive alla domanda sullo statuto ontologico dellʼopera dʼarte, e che i generi ontologici delle opere dʼarte possano variare con il tempo e di luogo in luogo, senza togliere il fatto che opere dʼarte di generi ontologici sempre nuovi possono essere continuamente introdotte.

Stando alla definizione comune, lo “statuto ontologico” di unʼopera dʼarte è fissato fondamentalmente dalla sua esistenza, dalla sua identità e dalle sue condizioni di persistenza: ciò determina in quale categoria ontologica una specifica opera dʼarte rientra. Una volta fissata la categoria, diventa possibile non soltanto comprendere quando e dove unʼopera dʼarte è osservabile, quali proprietà le sono essenziali e quali invece accidentali, ma anche che tipo di cambiamenti possono interferire con la sua

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 64-73)