Quando Wollheim, in Painting as an Art, passa in rassegna le posizioni che caratterizzano la nozione di rappresentazione provenienti dalla filosofia analitica, «descrive uno status quaestionis significativo» (Chiodo 2008, p. 133). Contro la posizione periferica ancora fondata sul criterio di somiglianza formale sono schierate posizioni che considerano, sotto punti di vista differenti, la nozione di finzione: innanzitutto, la teoria dellʼillusione di Gombrich (con cui abbiamo aperto questo capitolo), secondo cui la capacità che una figura ha di rappresentare è data dallʼabilità di «dare allo spettatore la falsa credenza percettiva di stare di fronte allʼoggetto rappresentato» (Wollheim 1987, p. 76); la teoria semantica di Goodman, secondo cui, come si avrà presto modo di vedere, la rappresentazione è vincolata ad un «sistema di simboli che, attraverso lʼistituzione di regole o di convenzioni» (ib.), costruiscono relazioni tra la rappresentazione e lʼoggetto in questione; e, infine, la teoria della
simulazione di Walton, per cui una figura rappresenta soltanto nel momento in cui ci
porta a «simulare di vedere di fronte a noi lʼoggetto che rappresenta» (ib.).
Nel caso specifico di Goodman, la sua proposta non sembra riconoscere unʼontologia alternativa, separata, agli oggetti della finzione; tanto che in Arte in teoria – che costituisce il capitolo IV di Of Mind and Other Matters – Goodman espone la sua tesi a riguardo nei seguenti termini:
1. tutte le cosidette finzioni sono una falsità letteraria; 2. eppure alcune finzioni sono vere; 3. la verità della finzione non ha niente a che fare con il realismo; 4. non esistono mondi immaginari; 5. non tutto ciò che è letteralmente falsità letteraria è finzione.
[...] Spesso si sente dire che le opere di finzione riguardano mondi fittizi. In senso stretto, però, la finzione non può riguardare il non esistente, perché niente si dà che non sia nel modo di esistenza attuale, non ci sono mondi meramente possibili o impossibili; infatti, dire di qualcosa che è immaginario, ma non esistente equivale a dire che esiste qualcosa la cui caratteristica è quella di non esistere. [...]
Lʼopera di finzione, dunque – non importa quanto falsa o stravagante –, riguarda sempre qualcosa che esiste. Non esistono mondi immaginari (Goodman 1984b, pp. 22-24).
Dʼaltronde, già in Vedere e costruire il mondo Goodman aveva sostenuto che la finzione, «non importa se letteraria, pittorica o teatrale, non ha davvero come suoi referenti il nulla o dei mondi possibili assolutamente trasparenti ma, per quanto metaforicamente, i mondi reali» (Goodman 1978, p. 123); «i cosidetti mondi possibili della finzione stanno tutti entro mondi reali» (ib.) e la «finzione opera in mondi reali né più né meno come quel che finzione non è» (ib.).
Al contrario, secondo Walton è necessario introdurre la nozione di mondi di
finzione; anzi, come si è appena potuto vedere, Walton fonda la nozione stessa di
rappresentazione su quella di finzione, dato che la rappresentazione solleciterebbe chi la osserva ad un autentico esercizio di immaginazione. È proprio questʼultimo a determinare lʼautonomia dellʼontologia della finzione dallʼontologia stricto sensu. I mondi di finzione, infatti, possiedono uno statuto ontologico speciale: fingere significa uscire dallʼorizzonte del vero e del falso, per entrare in quello dellʼimmaginazione, in cui la verità e la falsità non sono più quelle fondate dalla credenza, ma dallʼimmaginazione stessa.
Questo vale sia per gli oggetti di finzione che non hanno esistenza, sia per quelli che la possiedono: «Il lettore di Don Chisciotte immagina di sapere qualcosa su un cavaliere che ha quel nome e, in modo analogo, il lettore di Giulio Cesare immagina di sapere qualcosa su Giulio Cesare» (Walton 1990, p. 136). A determinare il funzionamento della rappresentazione non è, allora, lo statuto ontologico dellʼoggetto di riferimento, ma il meccanismo di finzione, che rimane lo stesso in entrambi i casi: il lettore immagina sia nel caso del Don Chisciotte (un individuo che non ha esistenza), sia nel caso di Giulio Cesare (un individuo che è esistito). Questa è la ragione per cui, secondo Walton, i mondi di finzione istituiscono una vera e propria ontologia
alternativa: nei mondi di finzione non è essenziale lo statuto ontologico del materiale di
partenza, ma il processo di traduzione che arriva alla finzione.
Tuttavia, i mondi di finzione non devono essere identificati con dei mondi
possibili; a tale riguardo, infatti, portando lʼesempio di Falsa prospettiva di William
Hogarth, Walton afferma che «i mondi di finzione sono talvolta impossibili e spesso incompleti, mentre i mondi possibili (normalmente costruiti) sono necessariamente sia possibili sia completi» (p. 196). Falsa prospettiva non corrisponde a un mondo possibile, ma a un mondo “impossibile” che non può esistere, ma che può essere
soltanto immaginato, «perché lʼimpossibilità è un dominio dellʼimmaginazione e non dellʼesistenza» (Chiodo 2007a, p. LVI).
Diversamente da Walton, in Art and Philosophy (1980) Margolis nega ai mondi di finzione unʼesistenza classica, così come unʼesistenza sui generis. Secondo Margolis, infatti, i mondi di finzione, dal momento che non alludono ad esistenze autentiche, non possiedono nemmeno riferimenti autentici:
leggendo, non mi preoccupo di analizzare le sentenze come resoconti sul mondo al di fuori della finzione: desidero soltanto informarmi sul mondo di finzione delle storie stesse. Sono in grado di immaginare unʼAlice reale e di domandare a Lewis Carroll, dopo la scrittura di Alice nel paese delle meraviglie, «Alice ha avuto qualche altra avventura?», e che con questo suggerimento Carroll abbia scritto Alice
attraverso lo specchio (Margolis 1980, p. 175).
Ciononostante, il senso dei mondi di finzione può essere salvato soltanto attraverso lo scioglimento del vincolo tra la nozione di esistenza e quella di riferimento di finzione: tale vincolo non deve più essere inteso ontologicamente, bensì
grammaticalmente. Il riferimento di finzione, che «non ha bisogno di esistere nel
mondo reale» (p. 182), può sopravvivere ancora, soltanto se si considera lʼesistenza di finzione come un «predicato» (p. 183) e se si nega che il riferimento di finzione sottintende una relazione ontologica:
La mia raccomandazione, allora, è questa: trattare il riferimento come una distinzione grammaticale che non ha alcun significato ontico – e che è, quindi, uniforme sia per le entità reali sia per le entità di finzione [...]; dovremmo svincolare i quantificatori dal significato esistenziale, interpretando lʼ«esistenza» come un predicato, e negare che il riferimento è o implica una relazione, a meno che non sia costruita in un senso puramente grammaticale (ib.).
La ragione per cui la sopravvivenza del riferimento di finzione (logico, e non ontologico) è possibile, deriva dal fatto che possiamo «immaginare un mondo esistente
anche se sappiamo che non esiste» (p. 184).
Il riferimento non ha successo perché esiste lʼoggetto al quale dichiaratamente mi riferisco, ma perché mi riferisco allʼoggetto al quale ho lʼintenzione di riferirmi.
Nessun mondo reale, per quanto denso, può assicurare il successo del riferimento. Perché, allora, se si ammette che possiamo immaginare che un mondo esiste, si dovrebbe negare il successo del riferimento a quel che abbiamo immaginato che
esiste? (ib.).
Ad agire sarebbe, ancora una volta, la nozione di immaginazione che qui non arriva a fondare unʼontologia “speciale”, bensì definisce il limite tra lʼesistenza e la grammatica. Questʼultima, segnatamente, si caratterizza in quanto struttura logica senza esistenza e senza possibilità di esistenza, proprio perché immaginare non richiede nessun tipo di esistenza o di esistenza possibile.
Quindi, le creature di immaginazione o di finzione non esistono in un qualche mondo rarefatto che sia distinto dal mondo reale o che sia un territorio speciale al suo «interno». Necessariamente non esistono. È necessariamente vero, cioè, che le creature di finzione non esistono e non possono esistere e che, se ci riferiamo a creature di finzione, a queste è possibile attribuire una proprietà essenziale, cioè la non esistenza. Presumibilmente le creature reali possono esibire alcune delle proprietà generali attribuite alle creature di finzione (eccetto, naturalmente, la non esistenza), ma una creatura di finzione o di immaginazione non può essere reale (p. 176).