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Il performer

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 126-129)

2. Richard Schechner e la teoria della performance

2.2. Il performer

La pratica teatrale di Schechner si fonda sulla centralità del performer, il quale entra in azione nel momento in cui inizia a riflettere e praticare la performance come evento in funzione rituale. La stessa performance, infatti, è in grado di ricongiungere lʼindividuale e il sociale, la scena rappresentata con la «costellazione di eventi (la maggior parte dei quali passano inosservati), che hanno luogo sia fra gli attori che tra il pubblico)» (Schechner 1973a, p. 81).

La liminalità è la dimensione per eccellenza del processo performativo e – così come riteneva lo stesso Turner – essa «favorisce la produzione simbolica, nel senso che la “communitas”, sottolinea e celebra la sua differenza dal resto della società, rappresentandola; il rito quindi come espressione del margine, esibizione dellʼinvisibile, la zona neutra che collega lʼinterno con lʼesterno, che dà forma ai sogni e ai desideri, in cui guardando lʼaltro si recupera lʼio» (Valentini 1984, p. 34). Come sostiene lo stesso Schechner,

i sogni sono il paradigma della liminalità esistendo in un mondo totalmente caratterizzato dal “come se”. I sogni hanno infatti luogo tra la chiarezza del pensiero razionale e la confusione dellʼesperienza vissuta e ricordata. Il sognare di cui sto parlando non è limitato alle fantasie della notte, ma può essere esercitato in quanto tecnica mentale di dissoluzione parziale dei confini tra inconscio e conscio, fra fantasia e rappresentazione pubblica. [...] Inscenare un sogno realizza quello che non

può essere mai mostrato. Un sogno è esperito di prima mano solo dal sognatore (come la violenza della tragedia greca che è sempre fuori scena), condiviso solo se può essere rappresentato. Gli sciamani e gli artisti sono persone “allenate ai sogni”: possono metterli a fuoco, tenerli a mente e riferirli. [...] Una volta che un sogno è inscenato cambia completamente la sua natura: entra nellʼarena sociale, nella sfera estetico-rituale. Può essere insegnato ad altri; può essere modificato, combinato, e trasformato in accordo – o in rottura – con la tradizione. [...] Mettere in scena i sogni – o memorie elaborate di sogni – rompe violentemente le barriere tra il virtuale e il reale, una barriera che gli animali (presumiamo) non possono far altro che mantenere intatta. Tra gli esseri umani il “come se” congiuntivo del sognare è trasformato per mezzo di performance nellʼindicativo “è” delle azioni del corpo (Schechner 1987, pp. 262-263).

Nel caso specifico del performer «si tratta di ricostruire se stesso, di inscrivere nel proprio corpo-testo, lʼaltro da sé, di riconoscersi come altro, passare “dallʼio narcisistico” “allʼio rappresentativo”, e quindi identificarsi e nominarsi, avendo incorporato il linguaggio, i segni attraverso cui si manifestano gli oggetti, gli altri» (Valentini 1984, p. 36). Il processo performativo diventa allora processo transizionale, in quanto esperienza iniziatica attraverso cui il performer sviluppa nuovi comportamenti, recuperando quelli passati. Detto altrimenti, il processo performativo «è

un processo che si modella a partire dal lavoro spettatoriale del performer che unifica

nel suo sguardo, visioni, meccanismi percettivi, memoria, immaginario di operator e

spectator» (p. 37). Il performer, infatti, riunisce in sé il ruolo di produttore e di ricettore,

attore e spettatore: «La “metà-attore” che corrisponde al ruolo è quella che ha interiorizzato la partitura [...]; la “metà-attore” che corrisponde a se stesso è quella che osserva, che muove e che gode dellʼazione dellʼaltra metà. [...] La metà attore che “non dimentica” se stesso è quella che sa, la metà che “diventa il personaggio” è quella che sente» (Schechner 1986, pp. 179-180).

Il performer è la persona che supera egocentrismo e narcisismo, così da arrivare a costruire la realtà oggettiva del soggetto, lʼ“Io”; e tutto questo, allʼinterno dello spazio-tempo della performance, «al limite fra il “non io” e “lʼio”, che Schechner modifica in “non io” e “non-non io”, né se stesso né Amleto» (Valentini 1984, p. 35). Laurence Olivier (lʼindimenticabile “Amleto” del cinema), ad esempio, «non è Amleto, ma non è neanche non Amleto; ed è vero anche lʼopposto: Amleto non è Olivier, ma

non è neanche non Olivier» (Schechner 1981-1983, p. 290). Olivier non è Amleto, dal momento che noi conosciamo lʼattore e il ruolo; ma Olivier è anche non non Amleto, visto che, mentre egli recita, noi presumiamo che sia Amleto, egli interpreta tale ruolo. Da parte sua, Amleto ha un carattere che esiste nello spazio tra ciò che Olivier non è e ciò che Olivier non non è.

Tutte le vere performance condividono questa qualità del «non e non-non». Olivier non è Amleto, ma non è neanche «non Amleto»: la sua rappresentazione oscilla fra la negazione del personaggio impersonato (io sono io) e lʼaltra negazione di non essere lui (io sono Amleto). Lʼaddestramento del performer è volto non tanto a trasformare una persona in unʼaltra, quanto a sviluppare le sue possibilità di agire fra due identità: in questo senso recitare è un paradigma di liminalità (Schechner 1981b, p. 182).

«Lʼintero processo è strutturato al negativo, al congiuntivo: “come se”» (Schechner 1981-1983, p. 291),145 e Schechner sembra apprezzare tale “doppia negatività” della performance proprio per la sua potente “carica creativa” e per il fatto che è simile a ciò che Grotowski aveva descritto come via negativa del suo Teatro Povero, «nella quale il metodo consisteva nellʼeliminare dalla pratica tutto ciò che non era necessario» (Schechner 1987, p. 253): se togli, elimini qualcosa, dai alle persone la possibilità di fare delle scelte, di fare e rifare ciò che essi sono e ciò che essi fanno.Tutte le nostre scelte quotidiane sono scelte performative ed è per questo motivo che la performance si presenta come «la più concreta e allo stesso tempo la più effimera delle arti. E nella misura in cui la performance è il modello base di tutto il comportamento umano, questo aspetto di trasversalità, di processualità, di molteplicità rivela la gloria e lʼabisso della libertà umana» (Schechner 1981b, p. 182).

Come suggerisce il titolo di un saggio di Schechner, Performer e spettatori

trasportati e trasformati (1981), le performance possono essere sia “trasportative”, sia

“trasformative”. Durante una performance, infatti, gli attori sono sempre condotti “altrove”: in tutte le specie di performance «si supera una certa soglia ben definita» (Schechner 1983, p. 23) – se ciò non succede, allora si determina il fallimento della

145 Era stato già Turner a ritenere che il conflitto sociale seguisse una struttura di tipo drammatico e adottasse il modo congiuntivo del “come se”. «Il lavoro di Turner si accorda bene con quello di Erving Goffman che, parlando di scene e di “personaggi” (chi è chi?, o finge di essere chi?) ha scovato teatro dovunque nella vita quotidiana» (Schechner 1983, p. 15). Cfr. Goffman 1959.

performance stessa –, e il performer «dalla “vita reale” entra in quella decisamente multiforme della performance, da un ben definito spazio temporale a un altro, ossia intrattiene un gioco fantasioso di molteplici personalità» (Schechner 1981b, p. 186).146

Da parte sua, questo “trasporto” può implicare anche una vera e propria

trasformazione nel perfomer (e, a volte, anche nel pubblico), con «effetti permanenti

come nei riti di iniziazione o temporanei come nel teatro estetico e nella danza in trance» (Schechner 1983, p. 16).147

Dʼaltronde, ogni performance è caratterizzata da quattro variabili differenti:

1) di tipo funzionale, quando porta dei cambiamenti direttamente nella vita quotidiana (come nelle iniziazioni, nei matrimoni etc.), di tipo finzionale quando modifica «eventi reali» (come The Deputy, le commedie, i documenti); 2) lo status dei personaggi allʼinterno della performance; 3) lo status degli individui che allʼinterno del ruolo impersonano se stessi (come nelle iniziazioni), rimanendone posseduti, o nel senso stanislavskiano, diventando gli artefici del «ruolo». (Analogamente Quesalid cominciò col fare la parte dello smascheratore/investigatore, per finire poi succube della maschera che voleva togliere agli altri; così il Carnevale e altre celebrazioni simili sono imperniate sullʼinversione dei ruoli, per cui lo sciocco fa il re e il re agisce scioccamente); 4) infine la qualità della performance misurata dalla padronanza delle tecniche richieste (le quali variano da società a società, da occasione a occasione), oppure, a volte, dalla capacità di contraffare la mancanza di abilità con estrema astuzia (Schechner 1981b, p. 193).

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 126-129)