a proprio piacimento.177
3. Verso unʼontologia della Performance Art
Con la Performance Art – e con la Body Art (da potere intendere, questʼultima, come una “declinazione” artistica più ristretta e soggiacente alla prima)178
– il corpo, in quanto «sede di tutte le divisioni in atto nella cultura occidentale» (Warr 2000, p. 17),179 diventa lʼoggetto privilegiato dellʼintervento artistico,180 per mezzo del quale lʼartista può dare forma a moderni “riti di passaggio” (à la Van Gennep). Il performer, infatti, «incarna quel soggetto che, nelle sue azioni, opponendo resistenza allʼistantaneismo nevrotico del tempo reale, allo spiritismo del virtuale, mette in opera, come nella trance, gesti, liturgie, riti atemporali, sottraibili allo scorrere del Kronos e ascrivibili allʼimmobilità dellʼAion» (Conti 2015, p. 14). La performance, da parte sua, si pone come paradigma di un processo dinamico e continuo che lega il comportamento performativo individuale alla più complessa struttura sociale ed etica.
Per la prima volta nella storia dellʼarte il corpo rappresenta il medium per eccellenza e il fine ultimo dellʼoperazione artistica, oltre a detenere un proprio
177 Per Chen Zhen lʼopera dʼarte nasce da un dialogo serrato tra il suo contesto visibile, ossia il tessuto sociale, politico e culturale in cui si ritrova ad essere “inserita”, e quello invisibile, identificabile nella “memoria” del proprio luogo di origine. Per questo, tutta la sua produzione artistica è permeata dal concetto di “trans-esperienza” che, a sua volta, si basa su tre principi: residenza, come adattamento temporaneo dellʼopera in un contesto diverso da quello di origine; risonanza, in quanto ricerca di dialogo con il pubblico presente; e infine resistenza, nei termini di una battaglia contro lʼinfluenza preponderante della cultura occidentale.
178 Come suggerisce Barilli, dal momento che il corpo è «da considerarsi come il denominatore comune di tutto il settore “performativo” [...] il campo della performance può essere considerato in buona parte coestensivo con lʼarea indicata come Body Art» (Barilli 2016a, p. 163).
179
Questa, a sua volta, è una citazione di Carole Schneemann, tratta dal catalogo sulla sua performance
Ask the Goddess (1991).
180 «Ciò spiega la frequente esibizione della nudità, che consente di proporre il corpo come mezzo di naturale e spontanea comunicatività, attrattivo o repulsivo per la nostra sensibilità costruita da secoli di condizionamenti. Il corpo si trova nellʼambigua posizione di soggetto/oggetto, ed è ora gettato in azioni forti, tese alla conquista dello spazio oltre che dellʼidea, ora segnati da atti (auto)lesivi dolorosi (vedi le performances “storiche” di Gina Pane o di Marina Abramovič), o pericolosi (Rudolf Schwarzkogler, Chris Burden o Paul McCarthy), fino ai riti orgiastici di Hermann Nitsch e collaboratori (OMT, Orgien
Mysterien Theater): queste sono declinazioni della corrente “calda” della performance che, a parte la
forza della provocazione, ricercano quella “liberazione” che lʼoggettivazione di certi impulsi e pratiche private effettivamente consente» (Sullo 2015, pp. 92-94). Per affrontare nel dettaglio la differenza tra “corrente calda” e “corrente fredda” della Performance Art rimando a Rossini 2005 e 2015.
linguaggio che, come ogni altro sistema di comunicazione, è in continua evoluzione;181
sebbene non sia da dimenticare e sottovalutare il fatto che il corpo è da sempre considerato come «il più antico strumento di comunicazione per dire “hic et nunc” [...], per dire ciò che si comunica senza la parola, il suono, il disegno. È ancora un modo per dichiarare la propria opposizione alla cultura dominante, ed è anche la modalità di conformismi disperati» (Vergine 2000, p. 15).182
In particolare, la necessità di un ritorno dallʼoblio del corpo dellʼartista, avviato come si è visto a partire dai primi anni Sessanta, sorge in risposta alle problematiche dellʼindividuo e della società capitalista, caratterizzata essenzialmente «dal dominio di unʼunica “economia politica mondiale” che costringe a trasformare il proprio corpo in un ingranaggio governato dagli “imperativi categorici e martellanti di produzione, consumo e ordine”» (Warr 2000, p. 21). Per questo motivo lʼesibizione e la rappresentazione del corpo dellʼartista – oltre a segnare una trasformazione violenta della concezione tradizionale di arte visiva –183 «si presentano come antidoto a una società pancapitalista che mercifica ogni aspetto del quotidiano e tenta di convertire tutta lʼesistenza in quella che Heidegger definiva una “immagine del mondo”, dove tutti i soggetti non sono che oggetti in vetrina, schiavi del piacere di chi li guarda» (ib.).
Il nostro vivere in una “democrazia di mercato”, che da anni tende a ridurre ogni differenza puntando sugli esiti strategici di una omologazione finalizzata al consumo, provoca un disorientamento [...] al quale solo il ruolo critico dellʼartista (come di ogni comportamento sociale cosciente) può fare opposizione. Lʼartista ha in questo senso una responsabilità politica e filosofica, poiché mette al centro in termini di problematicità il rapporto tra tempo e spazio, annullato invece dalla virtualizzazione in atto, e perché, nel caso specifico della performance art, considera il corpo come testimone di unʼetica dellʼIngovernabile, sottratta ai rapporti strategici “al di là tanto degli stati di dominio che delle relazioni di potere” [Agamben].
181 A tale riguardo «come non citare Roland Barthes quando dice che non cʼè linguaggio senza corpo, ma anche subito parafrasarlo dicendo che non cʼè corpo senza linguaggio» (Conti 2015, p. 14).
182
«I corpi degli artisti, divenuti visibili a partire appunto dal 1960, rappresentano i grandi cambiamenti sociali e culturali considerati oggi indicativi dellʼepisteme collettiva “post” modernista. Il corpo, che era stato negato per preservare lʼideologia e i principi del Modernismo, assume sempre più prepotentemente in questo periodo la funzione di locus dellʼio, luogo dove pubblico e privato si incontrano e dove si
negozia, si crea e si dà un senso al sociale» (Warr 2000, pp. 20-21).
183 «La performance si pone [...] come privilegiato spazio di riflessione sullʼarte. Lʼesperienza straniante, le situazioni al limite, la comunicazione al di fuori delle logiche della cultura dominante – non il mercato – sono parte del bagaglio programmatico della performance art, che propone, nella sua processualità, il superamento positivo dellʼidea corrente stereotipata, di arte» (Fontana, Frangione, Rossini 2015a, p. 18).
Allʼartista contemporaneo viene demandato il compito più difficile che esista, quello di essere un soggetto “mobile”, “nomade”, ”in situazione” che svolge un ruolo etico- politico in equilibrio tra dimensione ambientale, spazio socio-antropologico, intersoggettività: in sintesi si carica di una funzione “ecosofica” [Guattari] (Fontana, Frangione, Rossini 2015a, p. 16).184
In un senso simile, la Performance Art riceve come suo fine ultimo la piena espressione di Sé attraverso il corpo, il riappropriamento di quello che Lea Vergine ha riconosciuto come il (proprio) diritto a «poter essere» (Vergine 2000, p. 8).185
Ciononostante,
Come ogni movimento, anche questo è destinato a non durare, anche per una semplice ragione di domanda e di offerta dunque di mercato; e per una naturale stanchezza dei suoi protagonisti. La richiesta di opere dʼarte “tangibili” da parte del pubblico, dei collezionisti, dei musei, fa sí che spesso si giunga già oggi a dei pericolosi compromessi: foto di operazioni [...] sul proprio corpo [...], registrazioni su nastri di parole, suoni, rumori; protocolli di operazioni o relitti di eventi corporei (fazzoletti insanguinati, lamette da barba autolesionistiche, tamponi vaginali, ecc.); conservati come reliquie (più o meno taumaturgiche!) venduti “come opere dʼarte”; spesso riprodotti in copie numerate e firmate... (Dorfles 2015, p. 151).186
Di fatto la maggioranza delle opere dʼarte di tipo performativo del passato, temporanee ed effimere per natura, si sono tramandate fino a noi solo ed esclusivamente grazie allʼopera dei fotografi che le hanno immortalate:
Sotto gli occhi di tutti, almeno dei presenti, avvengono appunto le esibizioni nude e dirette del corpo con tutti i suoi prolungamenti; ma lʼocchio nudo degli spettatori che fanno circolo è prontamente doppiato dai molti occhi meccanici o elettronici
184 Lʼartista contemporaneo «crea un linguaggio di forte coinvolgimento rituale e propone una figura sociale che torna a farsi carico di un compito propositivo, affermativo e soprattutto etico, sperimentando modelli alternativi di organizzazione e produzione nelle arti contemporanee, per interrogarsi riguardo al sistema dellʼarte oggi, ai cambiamenti sociali in atto, al ruolo – in quanto artisti – nella crisi trasversale attuale, attraverso la pratica della performance» (Rossini 2015, p. 58).
185
«Lʼuomo è ossessionato dalla necessità di agire in funzione dellʼaltro, ossessionato dalla necessità di mostrarsi per poter essere» (Vergine 2000, p. 8).
186 È cosi che nasce la cosidetta narrative art come indirizzo artistico «che “racconta” eventi passati o presenti attraverso lʼuso di documentazioni fotografiche e altri “relitti del passato”» (Dorfles 2015, p. 164).
degli apparecchi fotografici e delle “camere” che coi loro clic e il loro tenace ronzio fanno da sottofondo. [...]
Inoltre, i vari occhi meccanici-tecnologici non hanno solo il compito di surrogare lʼocchio naturale, soprattutto nella funzione conservativa, ma anche di potenziarlo: le zoomate, i primi piani permettono di ingrandire, di esasperare, di evidenziare certi aspetti del corpo, del volto, della mimica gestuale, che allʼosservazione normale sfuggirebbero; e lo stesso si dica per i suoni e i movimenti (Barilli 2016a, p. 162).
Molti artisti attraverso la fotografia o, più recentemente, attraverso il video hanno trovato il modo con cui potere «prolungare, almeno in parte, la durata nel tempo delle loro manifestazioni corporee. Anche se, in realtà, viene così a mancare quellʼimpatto visivo, dato dalla partecipazione “attiva” dello spettatore allʼazione, che costituisce la vera singolarità di questo genere di arte» (Dorfles 2015, pp. 164-165).
Infatti, la performance dipende fondamentalmente dalla folgorazione dellʼhapax al pari dellʼoccasione nella vita. Nessun avvenimento può essere rivissuto due volte, nessuno può ripetere unʼazione in modo identico; a maggior ragione quando si tratta di un atto performativo singolare, realizzato in un certo luogo, in un preciso momento e rivolto ad un pubblico effettivamente presente. Così come la vita non può ripetersi, la stessa opera non può essere rimessa in scena, a meno di confondere la performance con il teatro, lʼautenticità con la recitazione, la persona con il personaggio. Si può dire che lʼarte della performance cerca di fornire una chiave di lettura diversa del reale adottando le forme stesse della vita (Lupieri 2015, p. 26).187
Dʼaltronde, come sostiene anche la scrittrice e critica dʼarte inglese Tracey Warr,
La sensazione che si prova ad assistere ad una performance dal vivo è ben diversa da quella che si prova nel guardare un video o una fotografia. Peggy Phelan e Rob La Frenais sono due tra i critici che, attraverso convincenti argomentazioni, si sono schierati apertamente a favore della partecipazione a queste performance che
187 Lupieri prende a prestito il termine “hapax” da Vladimir Jankélévitch, il quale, nel suo Le Je-ne-sais-
quoi et le Presque-rien (1957) afferma: “Ogni vera occasione è un hapax, non implica né precedente, né
riedizione, né assaggio, né retrogusto; non si annuncia attraverso segni premonitori e non conosce seconda volta”.
trasfigurano in momento catartico sia per lʼartista (o gli artisti) sia per gli spettatori (Warr 2000, p. 14).188
Già Walter Benjamin nel suo rivoluzionario e alquanto premonitorio saggio del 1936, Lʼopera dʼarte nellʼepoca della sua riproducibilità tecnica, aveva constatato che «la riproduzione allontana la presenza dellʼautore e le tecnologie fotografiche e cinematiche portano alla luce “formazioni strutturali della materia completamente nuove”» (p. 41): il corpo stesso diventa simulacro e più la cultura dipende da simulacri, più è tecnologica, «tanto che alla fine veniamo sempre più inglobati e al tempo stesso alienati dalla rappresentazione» (ib.).
Ciononostante, come suggerisce lo stesso Benjamin – e questa nota apre uno scenario certamente più “roseo” –, esiste anche «la possibilità che gli individui (corpi/sé) del futuro, anziché dei semplici simulacri immobili, siano in continua evoluzione e aperti alla diversità, e che incoraggino anziché reprimere i comportamenti che ci legano agli altri e alla società» (p. 42).
È quello che avviene, ad esempio, con lʼopera dellʼartista libanese Mona Hatoum, Corps étranger, del 1994 (fig. 45): dopo avere penetrato e scrutato ogni singola parte del proprio organismo e avere catturato i rumori derivanti dal proprio respiro e battito cardiaco (per mezzo di sonde endoscopiche e colonscopiche e di apparecchiature per ecografie), la Hatoum – una scultrice dallʼenergia paragonabile a quella di Richard Serra – decide di “proiettare” tutti questi elementi allʼinterno di una piccola stanza cilindrica a cui il pubblico può accedere liberamente. «Lo spettatore improvvisamente capisce che quello che vede è in realtà lʼinterno e la superficie di un corpo di donna» (ib.), e in questo modo viene letteralmente inglobato dal corpo dellʼartista. È per questo motivo che «Yves Abrioux, critico dʼarte francese, ha ipotizzato che il corpo più “estraneo” di Corps étranger è forse proprio quello dello spettatore: “Mentre prendo lentamente coscienza di immagini, allusioni e riferimenti, comincio a capire che il corpo estraneo del titolo, alla fine, è proprio il mio...» (p. 43).
Gli artisti che lavorano con le nuove tecnologie (video/TV, web, CD ROM) sposano la logica della rete globale che è alla loro base per rappresentarsi (e rappresentare i loro “corpi dʼartista”) secondo modalità che ci inducono a prendere atto della nostra
posizione in continuo cambiamento nel groviglio di complessi rapporti interpersonali che formano il tessuto sociale. Gli artisti hanno dunque incoraggiato ognuno di noi, per mezzo dei loro corpi, a essere più cosciente del proprio, di quel corpo che è carne del mondo e parte integrante e imprescindibile di quella grande arena sociale che, con molta fantasia, risponde al nome di “dominio pubblico”. [...] Il “privato” è “pubblico” e il corpo dellʼartista continua a specchiarsi in noi pur non appartenendoci (ib.).
Capitolo sesto
Ontologia della Performance Art