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La svolta analitica contro la mimesi

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 75-83)

Nella storia dellʼestetica occidentale il concetto di mimesis è stato a lungo alla base della riflessione teorica sullʼopera dʼarte, costituendo il criterio essenziale della

rappresentazione, la quale, pertanto, si attuerebbe attraverso un meccanismo dal

funzionamento molto simile a quello della figura retorica della sineddoche, che nel discorso dice una parte per dire il tutto, o meglio, allude al tutto attraverso la selezione della sua parte più semplice da dire. Allo stesso modo, la rappresentazione, diretta dal criterio di mimesi, procederebbe attraverso una sineddoche della forma.79

Lo stesso Ernst Gombrich – lo storico dellʼarte che ha avuto, verosilmente, più influenza sugli autori di tradizione analitica –, nel suo importante studio Art and Illusion (1960),80 ricorda la genesi del criterio di imitazione nella tradizione artistica occidentale riportando un significativo scambio di battute che, stando alla testimonianza di Filostrato – «uno scrittore antico che seppe indagare la natura della mimesis assai più a fondo di Platone o Aristotele» (Gombrich 1960, p. 221) –, sarebbe avvenuto tra il filosofo pitagorico Apollonio di Tiana e Damide, suo fedele discepolo:

«Dimmi, Damide, esiste una cosa chiamata pittura?». «Certo», ribatte Damide. «E in che cosa consiste questʼarte?». «Beʼ, – risponde Damide, – nel mescolare i colori». «E perché lo fanno?». «Per lʼimitazione, per ottenere la figura somigliante di un cane o di un cavallo o un uomo, o una nave, o di qualsiasi altra cosa sotto il sole».

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«Lʼ“impalpabile avanzo della tradizione filosofica greca” sembra avere sintesi in un criterio che corrisponde a una sineddoche della forma secondo la quale i segni di superficie hanno il potere di rappresentare lʼoggetto (il tutto) se rappresentano la sua forma (la sua parte)» (Chiodo 2008, p. 118). 80

A tale proposito Jerrold Levinson ricorda: «Il tema della rappresentazione nellʼestetica analitica è stato per lo più indagato in riferimento alla rappresentazione figurativa (o raffigurazione). Il lavoro è stato sollecitato nel modo più significativo dalla pubblicazione, nel 1960, di Art and Illusion, libro che costituisce una pietra miliare dello storico dellʼarte Ernst Gombrich. Gombrich presentò la sua celebre critica del modello dellʼ“occhio innocente” nella percezione delle figure, e si espresse a favore di una concezione che tenesse conto della storia della rappresentazione figurativa, che egli intendeva come un cammino progressivo verso immagini sempre più realistiche, sempre più capaci di sorreggere unʼillusione, a cui si è giunti attraverso un prolungato processo di “creazione e corrispondenza”» (Levinson 2002, p. 441).

«Allora, – insiste Apollonio, – la pittura è imitazione, mimesi?». «Certo, che altro dovrebbe essere? – risponde la sua eco, – se non facesse questo, sarebbe un ben ridicolo baloccarsi coi colori». «Già, – continua il suo mentore, – ma che dire delle cose che vediamo in cielo quando le nubi corrono portate dal vento, di quei centauri e antilopi, di quei lupi e cavalli? Sono anchʼesse opere dʼimitazione? Dio è forse un pittore che occupa le sue ore libere in questo divertimento?» No, rispondono concordi i due, queste forme che vediamo nelle nubi non hanno significato in sé, sorgono per puro caso; siamo noi che siamo per natura portati allʼimitazione e diamo forma a queste nubi. «Ma questo non significa forse, – propone Apollonio, – che lʼarte dellʼimitazione ha un duplice aspetto? Uno è quello che porta ad usare le mani e la mente per realizzare imitazioni, lʼaltro quello che realizza la somiglianza unicamente con la mente?». Anche la mente dellʼosservatore ha la sua parte nellʼimitazione. Anche una pittura a monocromo, o un rilievo in bronzo ci colpiscono come qualcosa di somigliante: li vediamo come forma ed espressione. «[...] Per questo dico che coloro che osservano opere di pittura e disegno devono possedere la facoltà imitativa e che nessuno può capire il cavallo o il toro dipinto se non conosce questi animali» (pp. 221-222).

Ciononostante secondo Gombrich è proprio la sospensione di ciò che allʼinizio è stato definito come meccanismo della “sineddoche della forma” che deve diventare centrale nella nozione di rappresentazione. Quando si dà forma ad una rappresentazione, infatti, ci si deve necessariamente spostare dal piano della mimesi a quello della

finzione, dal momento che si passa dallʼimitazione della forma esterna di un oggetto alla

costruzione arbitraria del sostituto di tale oggetto.

Nella definizione che vi si dà [Gombrich sta qui facendo riferimento allʼOxford

Dictionary] di unʼimmagine, si sottintende che lʼartista «imita» la «forma esterna»

dellʼoggetto che ha davanti a sé, e che a sua volta chi guarda lʼimmagine vi riconosce il «soggetto» dellʼopera dʼarte per mezzo della «forma». Questo è il modo che potremmo chiamare tradizionale dʼintendere la parola rappresentazione. Il corollario che ne segue è che unʼopera dʼarte o sarà una copia fedele, in sostanza una replica completa dellʼoggetto rappresentato, oppure comprenderà in qualche modo «lʼastrazione». Lʼartista, così leggiamo, astrae la «forma» dallʼoggetto che vede. Lo scultore di solito astrae la forma a tre dimensioni, e si astrae dal colore; il pittore astrae contorni e colori, e si astrae dalla terza dimensione (Gombrich 1951, p. 4).

Lʼidolo sostituisce il dio. Che esso rappresenti o no la «forma esterna» di una particolare divinità, o magari di una classe di demoni, è una questione che non è pertinente. Lʼidolo serve da sostituto del dio nel culto e nei riti – ossia, è un dio fabbricato dallʼuomo, nello stesso preciso senso in cui il cavalluccio balocco è un cavallo fabbricato dallʼuomo; volerne cavare altri significati sarebbe un invito allʼillusione.

[...] Il gatto corre dietro alla palla come se fosse un topo. Il bambinetto si succhia il pollice, come se fosse il seno materno. In un certo senso la palla, per il gatto, «rappresenta» un topo, il pollice, per il bambino, «rappresenta» un seno. E anche qui la «rappresentazione» non dipende da somiglianze formali, ma si ferma ai requisiti minimi della funzione. La palla non ha nulla in comune con il topo salvo il fatto che si può inseguirla. Pollice e seno hanno in comune solo il fatto che entrambi possono essere succhiati. Nella loro qualità di «sostituti» palla e pollice adempiono a certi requisiti dellʼorganismo. Sono chiavi capaci, per puro caso, di aprire certe serrature biologiche o psicologiche, altrimenti detto sono falsi gettoni – capaci, tuttavia, di far funzionare il meccanismo se introdotti al posto dei gettoni veri (pp. 7-8).

Per prima cosa, è doveroso ricordare che Gombrich articola la sua teoria della rappresentazione partendo dalla celebre distinzione proposta dal già citato Charles S. Peirce tra “segni iconici” e “segni non-iconici”, ossia tra segni che rinviano a ciò che denotano per somiglianza e quelli che, invece, non lo fanno; arrivando, in questo modo, a distinguere le parole dalle immagini, a seconda che la relazione tra segno e designato sia convenzionale o naturale: «se il caso delle parole è incerto, i disegni, le immagini visive sono invece sicuramente segni naturali, riconoscibili perché somigliano, in qualche modo, alla cosa o alla creatura che rappresentano» (Gombrich 1982, p. 329).

Si può dire che nasca qui, proprio da questa coppia antitetica, la teoria

dellʼillusione di Gombrich, che, a sua volta, è incentrata su una sorta di equivalenza percettiva: unʼimmagine rappresenta un oggetto se di fronte ad essa lʼosservatore può

provare le stesse reazioni percettive che proverebbe se di fronte si ritrovasse lʼoggetto vero e proprio. Percepire unʼimmagine equivale, così, a percepire un oggetto, anche se non sempre si è in grado di determinare la natura di tale illusione, dato che «non è

possibile cedere a unʼillusione e nello stesso tempo osservarla dal di fuori» (Gombrich 1960, p. 6).81

Un ulteriore problema sorge nel momento in cui ci si rende consapevoli del fatto che una stessa immagine può essere interpretata in maniere differenti:

Prendiamo il semplice disegno che è arrivato ai seminari di filosofia dalle pagine del settimanale umoristico «Die Fliegenden Blätter». Possiamo vedere la figura come un coniglio o come un papero ed è facile arrivare sia allʼuna che allʼaltra interpretazione. Meno facile è descrivere quel che accade quando passiamo da unʼinterpretazione allʼaltra. Evidentemente non abbiamo lʼillusione di trovarci di fronte a un «vero» papero o a un «vero» coniglio. La forma disegnata sul foglio non ha una somiglianza stretta con nessuno dei due animali. Tuttavia non cʼè dubbio che la forma cambia in modo misterioso quando il becco del papero si muta nelle orecchie del coniglio e assume nuovo spicco un segno che prima sfuggiva e che indica la bocca del coniglio. Io dico «sfuggiva», ma entra davvero nella nostra esperienza quando torniamo a vedere un «papero»? Per rispondere a questa domanda siamo costretti a chiederci che cosa «cʼè realmente davanti a noi», a vedere la forma indipendentemente dalla sua interpretazione: e questo (ce ne accorgiamo subito) non è realmente possibile. Certo possiamo passare con rapidità sempre maggiore da unʼinterpretazione allʼaltra; possiamo anche «ricordarci» del coniglio mentre stiamo vedendo il papero; ma quanto più attentamente ci osserveremo tanto più sicuramente scopriremo che non è possibile tener presenti contemporaneamente le due interpretazioni opposte (pp. 5-6).

Gombrich si serve di questo esempio anche per mostrare che, se messi davanti ad una rappresentazione, non è possibile cogliere simultanemante il contenuto dellʼimmagine e il suo essere una determinata figura; nel migliore dei casi «potremo passare da una lettura a unʼaltra, ma [...] lʼambiguità in sé non può mai essere percepita» (p. 312).82

È proprio lʼillusione che fa sì che le immagini siano intese come segni naturali, che «presentano unʼautentica somiglianza visiva con gli oggetti cui si riferiscono»

81 Secondo Gombrich «lʼillusione è difficile da descrivere o analizzare, perché, anche se siamo intellettualmente consapevoli del fatto che ogni data esperienza deve essere unʼillusione, non possiamo a rigore osservarci nellʼatto di cedere a unʼillusione» (Gombrich 1960, p. 6).

82 «Non siamo consapevoli dellʼambiguità in sé, ma solo delle varie interpretazioni. È nel passare dallʼuna allʼaltra che scopriamo come forme diverse possano essere proiettate entro lo stesso contorno. Possiamo imparare a cambiare la marcia più rapidamente, possiamo, in pratica, oscillare tra diverse interpretazioni, ma non possiamo dare contemporaneamente interpretazioni contrastanti» (p. 284).

(Gombrich 1982, p. 338), piuttosto che come segni convenzionali. Nel caso delle immagini il rapporto tra segno e referente non può essere mediato interamente da un sistema simbolico (come riterrà invece Nelson Goodman), proprio perché «se si volesse ridurre ad una formula questa forma estrema di convenzionalismo, si potrebbe dire che tra immagini e carte geografiche non esistono differenze fondamentali» (p. 331).

Lo stesso Gombrich sente la necessità di integrare la sua teoria dellʼillusione con una seconda teoria, la teoria dellʼinformazione, secondo cui chi osserva unʼimmagine deve poterne trarre sempre delle informazioni vere a proposito dellʼoggetto rappresentato.

Affermare di un disegno che è una riproduzione corretta di Tivoli, non significa ovviamente che Tivoli sia fatta di sole linee di contorno. Significa che coloro che intendono le notazioni contenute nel disegno non ne trarranno alcuna falsa

informazione, sia che esso si limiti ai semplici contorni resi con poche linee o che

precisi «ogni filo di erba» come gli amici di Richter volevano fare. La riproduzione esauriente potrebbe essere quella che ci dà del luogo tanto di corretta informazione quanto ne potremmo avere osservandolo noi stessi dal punto esatto in cui si è messo lʼartista (Gombrich 1960, p. 110).83

La teoria dellʼinformazione dimostra anche come, da un lato, «il mondo non ci presenta mai unʼimmagine neutra» (p. 332) di sé e, dallʼaltro, il nostro vedere «non è mai un semplice registrare» (p. 361), dal momento che «lʼocchio vergine è un mito» (ib.).84 Quando lʼartista rappresenta, infatti, è predisposto a rappresentare lʼoggetto in questione facendo affidamento ad un sistema di convenzioni e a degli schemi rappresentativi già definiti: lʼartista «al pari dello scrittore ha bisogno di un vocabolario prima di accingersi a copiare la realtà» (p. 106) e questo significa anche che il «“linguaggio dellʼarte” è qualcosa di più che una vuota metafora» (p. 107); al contrario, è proprio ciò che rende possibile il fatto che lʼarte stessa possieda una propria storia.

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A tale riguardo Gombrich riporta anche un altro esempio: «Se accettiamo come vera lʼindicazione del cartellino per cui il quadro rappresenta Wivenhoe Park, avremo anche fiducia che questa interpretazione ci dica molte cose circa questo luogo di campagna nel 1816, cose che avremmo potuto notare noi stessi se fossimo stati vicino a Constable. Naturalmente tanto lui che noi avremmo visto molto di più di quanto non possa essere tradotto nei crittogrammi del colore, ma almeno questi crittogrammi non forniranno, a chi li sa decifrare, informazioni false» (p. 362).

84 Nelson Goodman arriverà addirittura a sostenere: «Il mito dellʼocchio innocente è morto e sepolto da tempo» (Goodman 1984b, p. 27).

La vignetta di Alain riassume molto esattamente un problema che ha assillato gli storici dellʼarte per molte generazioni. Perché epoche e popoli diversi hanno rappresentato il mondo visibile in modi tanto differenti? Può accadere che i dipinti che noi ammettiamo come aderenti al vero appaiano alle generazioni future inattendibili come le pitture egizie ai nostri occhi? Tutto ciò che riguarda lʼarte è assolutamente soggettivo o esistono, in materia, criteri oggettivi? Se tali criteri esistono, se i metodi che si insegnano oggi nei corsi di disegno dal vero portano ad imitazioni della natura più fedeli di quelle ottenute dagli Egizi con le loro convenzioni, perché gli Egizi non adottarono questi metodi? È possibile, come insinua il nostro disegnatore, che essi vedessero la natura in modo diverso? Questo mutare della visione artistica non potrebbe aiutarci anche a intendere le immagini create dagli artisti contemporanei che sono così spesso fonte di tanta perplessità? Tutti questi interrogativi riguardano la storia dellʼarte [...] (p. 3).

Unʼulteriore condanna al criterio di mimesi arriva anche da uno dei più importanti autori analitici, il quale, per molti versi, ha saputo fare proprio lʼinsegnamento di Gombrich, ma anche allontanarcisi nel momento in cui ne ha sentito la necessità. Secondo Nelson Goodman, infatti, la teoria dellʼillusione di Gombrich ha compiuto certamente «qualche passo in avanti rispetto alla teoria dellʼimitazione; ciò che conta qui, infatti, non è fino a che punto il quadro riproduca lʼoggetto, ma fino a che punto il quadro e lʼoggetto, in condizioni dʼosservazione rispettivamente adatte, danno luogo alle medesime risposte e aspettative» (Goodman 1968, p. 37):

un quadro è realistico precisamente nella misura in cui è unʼillusione ben riuscita, tale da indurre lo spettatore a supporre che esso sia ciò che rappresenta, o che ne abbia le caratteristiche. La misura di realismo proposta coincide, in altre parole, con la probabilità di scambiare la rappresentazione con ciò che è rappresentato (ib.).

La teoria dellʼillusione, tuttavia, non può non fare emergere alcune difficoltà: prima fra tutte quella secondo cui, anche al massimo grado di illusione possibile, «il fatto di vedere un quadro come un quadro preclude la possibilità di scambiarlo per qualcosa dʼaltro; e le condizioni dʼosservazione appropriate (p.e., in una cornice, contro una parete uniforme, ecc.) sono calcolate per dissipare lʼinganno» (ib.):

Quando osservo anche il quadro più realistico, raramente credo di poter letteralmente penetrare nello spazio, affettare il pomodoro, o suonare il tamburo.

Semmai riconosco le immagini come segni che stanno per gli oggetti e le caratteristiche rappresentate – segni che operano automaticamente e immediatamente senza essere confusi con ciò che denotano (p. 38).

Inoltre, a differenza di quanto sostenuto in precedenza da Gombrich, Goodman ritiene che una rappresentazione non sia da confondersi con unʼimmagine. La rappresentazione possiede la capacità di funzionare anche in una condizione di

separazione radicale dallʼoggetto, che lʼimmagine invece non possiede; ovvero è in

grado di costruire un vincolo con un oggetto e, al tempo stesso, di conservare tale vincolo anche quando è costretta a perdere (o sceglie di perdere) il genere di relazione fondato sulla mimesi, a favore di una relazione fondata invece sulla sostituzione

arbitraria.

Segnatamente, lʼobiezione al criterio di mimesi di Goodman, in dialogo con Gombrich,85 emerge chiaramente già dalla citazione introduttiva alla sua opera più emblematica, Languages of Art (1968): «Lʼarte non è una copia del mondo reale. Di queste dannate cose basta che ci sia un solo esemplare» (p. 11).

Goodman intende, soprattutto, dare radicalità ad una posizione che si dimostrerà caratteristica di tutta la tradizione analitica: la svolta contro la mimesi, con cui si arriva ad affermare che «la mimesi non ha fondazione legale, perché lʼoggetto non è il modello della rappresentazione, ma il suo risultato» (Chiodo 2008, p. 110).

Dʼaltronde, la stessa teoria della rappresentazione come copia

si trova bloccata sin dallʼinizio dallʼincapacità di specificare che cosa debba essere copiato. Non un oggetto nel modo in cui è, né in tutti i suoi modi di essere, né nel modo in cui esso appare allʼocchio prima che la mente intervenga. Inoltre, cʼè qualcosa di sbagliato nella nozione stessa di copiare un qualche modo di essere dellʼoggetto, un qualche suo aspetto. Poiché un aspetto non è propriamente lʼoggetto-a-una-certa-distanza-e-angolazione-e-sotto-una-certa-luce; ma è lʼoggetto così come noi lo consideriamo o concepiamo, una versione o unʼinterpretazione

85 Goodman fa riferimento, in particolare, al già citato “classico” di Gombrich, Art and Illusion (1960), che lo stesso Goodman recensisce nello stesso anno di pubblicazione dellʼopera in «The Journal of Philosophy» (cfr. Goodman 1960). Secondo Goodman «Gombrich, in particolare, ha raccolto una schiacciante documentazione allo scopo di mostrare come il modo in cui noi vediamo e raffiguriamo è determinato e varia a seconda dellʼesperienza, della pratica, degli interessi e delle disposizioni» (Goodman 1968, p. 17).

dellʼoggetto. Rappresentando un oggetto, noi non copiamo tale interpretazione – la

otteniamo (Goodman 1968, p. 16).

Anche più tardi, in Ways of Worldmaking (1978), lo stesso Goodman sosterrà: «Possiamo avere parole senza un mondo ma non mondi senza parole o altri simboli» (Goodman 1978, p. 7);86 e quando queste parole autonome dal mondo possiamo farle corrispondere alle rappresentazioni, attraverso le “parole” non copiamo più il mondo, ma lo otteniamo. La rappresentazione, allora, «non è più il risultato della relazione tra una rappresentazione a registrazione di un oggetto e un oggetto a fondazione di una rappresentazione. E questo succede perché la rappresentazione e lʼoggetto non corrispondono più a due orizzonti eterogenei, tra i quali il primo ha la funzione di dire la verità del secondo attraverso la conservazione della relazione mimetica» (Chiodo 2008, pp. 111-112).87 La rappresentazione, al contrario, è un modello capace di autonomia dallʼoggetto, tanto che è lo statuto ontologico della rappresentazione che arriva a dare soluzione allo statuto ontologico dellʼoggetto, e non viceversa.

In definitiva, è possibile constatare come la filosofia analitica lavori ad un progetto che è contro la mimesi, dal momento che la verità di un oggetto sembra eccedere sempre ciò che possiamo vedere in esso: è quello che sappiamo a costruire quello che vediamo. «Una rappresentazione, allora, non deve tradurre in una forma lʼesercizio della nostra vista, ma deve tradurre in una forma lʼesercizio del nostro sapere» (p. 113).

86 A tale proposito, è importante ricordare che una delle tesi principali di questʼopera di Goodman è «che le arti devono essere prese in considerazione non meno seriamente delle scienze in quanto modalità di scoperta, di creazione, di ampliamento della conoscenza nel senso largo di progresso nel comprendere, e quindi che la filosofia dellʼarte dovrebbe essere concepita come una parte integrante della metafisica e dellʼepistemologia. [...] Quindi le immagini sono in grado di produrre e presentare fatti, e di far parte della fabbricazione del mondo né più né meno dei termini. E, in effetti, la nostra – come si dice – immagine del mondo è il prodotto congiunto di un descriverci e di un dipingerci il mondo. Eppure devo ribadire che non sto sottoscrivendo né una teoria raffigurativa del linguaggio né una teoria linguistica delle immagini; le immagini fanno parte di sistemi simbolici non linguistici, e i termini di sistemi non figurativi» (Goodman 1978, pp. 120-121).

87 Come sostiene Goodman in Seven Strictures on Similarity (1970), è probabile infatti che la verità dellʼoggetto, alla quale vuole essere data visibilità nella rappresentazione, non sia visibile nella sua forma esterna. Cfr. Goodman 1970, pp. 437-447.

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 75-83)