1. La questione dellʼarte nellʼestetica analitica
1.5. Noël Carroll e la teoria narrativa dellʼarte
«Nello stesso spirito della definizione storica, ancorché in esplicita rinuncia alla sua ambizione definitoria, è la teoria narrativa dellʼartisticità proposta da Noël Carroll [...], che mira principalmente a spiegare in che modo noi identifichiamo degli oggetti come opere dʼarte» (Levinson 2002, pp. 436-437).
Lʼidea che il riconoscimento di artisticità sia legato alla nostra conoscenza dellʼarte precedente è infatti fondamentale anche nella sua proposta teorica:
Lʼartisticità, per Carroll, risiede nelle connessioni con il passato – connessioni che possono essere esibite in una narrazione coerente e convincente, capace di mostrare in che modo un oggetto candidato ad essere definito unʼopera dʼarte si rapporti, vuoi per ripetizione, per amplificazione o per rifiuto, alle opere dʼarte che lo hanno preceduto. Se costruire un tessuto narrativo di questo genere è possibile, lʼoggetto in questione è unʼopera dʼarte, o rivendica uno status artistico; altrimenti no (p. 437).
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Non esistono opere dʼarte e sguardi corretti prima delle proto-arti: «Una volta raggiunto questo punto terminale, comunque, potremmo usarlo come punto di inizio per un altro genere di definizione di arte, che è quella che comincia dalle ipotetiche origini dellʼarte e procede in modo seriale attraverso tutto quel che è stato prodotto da lì al presente. Questa sarebbe una definizione ricorsiva e farebbe dellʼarte un dominio ricorsivo» (Levinson 1979, p. 68).
Quella di Carroll viene solitamente definita teoria storico-narrativa ed è stata avanzata, principalmente, negli scritti Art, Practice and Narrative (1988), Historical
Narratives and the Philosophy of Art (1993) e Identifying Art (1994); è tuttavia
possibile illustrare questa teoria anche basandosi sulla presentazione che lo stesso Carroll ne ha dato nella sua più recente Philosophy of Art (1999).
Innanzitutto, secondo Carroll, per capire come arriviamo a definire qualcosa come opera dʼarte è utile guardare in concreto ciò che avviene quando ci troviamo di fronte a casi dubbi (e non è certo difficile trovarne, considerate le opere che lʼarte del Novecento, dalle Avanguardie in poi, ha saputo proporre): «Una sfida sullo statuto artistico di unʼopera ci costringe a diventare espliciti circa le ragioni con cui generalmente classifichiamo qualcosa come arte» (Carroll 1999, p. 252). Ad esempio, quando si è dovuto decidere se i ready-mades di Duchamp, i dipinti di Jackson Pollock, le fotografie di Richard Mapplethorpe, piuttosto che le opere di Damien Hirst o di Janine Antoni fossero arte, come si è dovuto procedere?
Carroll sostiene che chi propone di considerare arte delle opere “nuove” deve sapere costruire una narrazione in grado di ospitare e spiegare queste opere, di modo che risultino procedere, chiaramente, dalle opere che sono state riconosciute come artistiche in unʼepoca precedente.45
A tale proposito lo stesso Carroll cita un caso emblematico: «la deformazione figurativa dei pittori espressionisti tedeschi non può essere intesa come un tentativo non riuscito alla verosomiglianza e, perciò, come arte difettosa o pseudo-arte, bensì come una risposta artistica intellegibile – una ribellione – contro il realismo» (ib.), imperante in tutta lʼarte dellʼOttocento.
Da parte sua, lʼopera “anomala”, su cui si deve decidere lo statuto di artisticità, deve presentarsi come unʼopera di rottura, in grado di produrre una sorta di iato dal
corpus di opere già esistente; e la narrazione storica detiene proprio il compito di colmare questo vuoto che viene a crearsi tra lʼopera dʼarte in questione e le opere dʼarte
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«Come accade per ogni storia, la narrazione della storia dellʼarte ha un proprio inizio e forse, chissà, avrà anche una fine. Vi sono teorici che sostengono che la seconda parte del Novecento ha cominciato una nuova narrazione e dunque, che se ne abbia o meno la consapevolezza, già ci stiamo muovendo in un orizzonte diverso, la cui storia deve ancora essere in larga parte raccontata. In altre parole, lʼidea è che la narrazione iniziata con il meraviglioso racconto del Vasari, che molti altri dopo di lui hanno proseguito, sia giunta al termine, giacché le pratiche artistiche del Novecento sarebbero state troppo eterodosse rispetto al nucleo teorico vasariano, secondo il quale, notoriamente, il disegno è il fondamento di tutte le arti e, soprattutto di quelle che per il Vasari sono le tre arti per antonomasia: lʼarchitettura, la scultura e la pittura» (Andina 2012, p. 140). A tale proposito rimando anche a Danto 1997.
che lʼhanno preceduta – «per così dire, riempire la distanza tra un Rembrandt e un
readymade» (p. 253) –, tessendo un “filo rosso” con cui collegare presente e passato.
Queste narrazioni – che possono essere raccontate in manifesti, volantini di gallerie, interviste, dimostrazioni, recensioni critiche, lezioni di docenti, e così via – non sono sviluppate semplicemente per prevenire possibili critiche, bensì per consentire agli osservatori di comprendere da dove proviene lʼartista, di vedere perché le sue scelte hanno senso, data la logica della situazione artistica in cui egli si ritrova. Quando unʼopera dʼarte manca di qualcosa o è probabile che manchi di qualcosa, la nostra risposta non è una definizione, ma una spiegazione. Ossia, noi non diamo una definizione e la applichiamo al caso in questione, dal momento che, come si è visto, è davvero troppo difficile riuscire a trovare una definizione non controversa. Invece, proviamo a spiegare perché il candidato sia unʼopera dʼarte. [...] Questa spiegazione prende la forma di una narrazione storica. Se la narrazione è accurata e ragionevole, questa generalmente ci consente di stabilire che il candidato è unʼopera dʼarte (pp. 254-255).
Inoltre, essendo lʼarte una pratica sociale in continua evoluzione, lʼapproccio narrativo deve tenere conto proprio di questo aspetto evolutivo dellʼarte e, per questo motivo, trattare lʼarte come una conversazione:
Proprio come accade nelle conversazioni, così nella pratica artistica esiste unʼaspettativa nei confronti degli artisti perché siano interessati a dare il loro contributo originale alla tradizione in cui lavorano. [...] In relazione con i loro predecessori, gli artisti devono porre o rispondere ad alcune questioni rilevanti, sviluppare ciò che qualcuno ha già proposto, dimostrarsi in disaccordo, se non addirittura ripudiarlo – dimostrando che alcune opzioni trascurate sono possibili – (p. 255).
Lo studioso di estetica o il critico dʼarte, da parte sua, deve sapere ricostruire il peculiare dialogo che viene a crearsi tra lʼartista “emergente” e gli affermati artisti del passato, trasformandolo in una narrazione storica. Se la narrazione storica è credibile, come si è visto, allora significa che ci sono motivi più che validi per considerare la nuova opera unʼautentica opera dʼarte; in caso contrario, lʼoggetto in questione non può acquisire il carattere di “artisticità”.
Arrivati a questo punto, è doveroso sottolineare come quella di Carroll non sia propriamente una definizione dellʼarte, ma piuttosto una descrizione dei modi in cui identifichiamo le opere dʼarte. Egli ritiene infatti che, «come i neo-wittgensteiniani hanno suggerito, non è il caso che tutti i nostri concetti debbano essere compresi secondo il modello delle definizioni con condizioni necessarie e sufficienti. Al contrario, molti dei nostri concetti non vengono definiti, eppure siamo in grado di utilizzarli con successo. Non può lʼarte essere un concetto di questo tipo?» (p. 250). A differenza però del metodo delle somiglianze di famiglia, promosso dai neo- wittgensteiniani, Caroll propone un «metodo non-definitorio» (ib.) alternativo per identificare le opere dʼarte, consistente, per lʼappunto, nella produzione di narrazioni
storiche.