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Un nuovo modello ontologico: il modello type/token

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 54-64)

La soluzione proposta da Peltz non sembra avere conosciuto grande fortuna nel vivace dibattito inerente al problema dellʼontologia dellʼopera dʼarte che ne è seguito. Certamente più rilevante e paradigmatico è risultato il modello ontologico type-token,57 risalente a Charles S. Peirce,“padre” della semiotica moderna, ma proposto in tutta la sua rilevanza estetica da uno dei più noti ontologi analitici dellʼarte, Joseph Margolis, per la prima volta, nel suo scritto Describing and Interpreting Works of Art (1961).58

Margolis muovendo dalla constatazione che il lavoro del critico dʼarte sia, in realtà, duplice – da un lato deve descrivere le proprietà di unʼopera, dallʼaltro valutarne i meriti o demeriti –, arriva alla conclusione che lʼattività descrittiva precede logicamente quella valutativa:

Non ho nulla in contrario con il problema verbale della categorizzazione riscontrato dai critici nelle arti, ma ho notato che la valutazione delle opere dʼarte presuppone logicamente il fatto che uno sia in grado prima di identificare le caratteristiche di

56 Lʼobiettivo polemico di Kivy è qui soprattutto lʼessenzialismo storico, che attribuisce ad ogni artefatto passibile di interpretazione, unʼidentità e un significato che gli vengono riconosciuti tramite il riferimento ad uno specifico momento della sua storia: di norma, il momento “mitizzato” della sua creazione.

57 Come riconosce anche Varzi, «la distinzione type/token si applica con naturalezza al caso delle opere letterarie e musicali, come pure nella scultura a stampo, nellʼacquaforte o nella xilografia, ma sembra inadatta nel caso di quelle forme artistiche che per loro natura si manifestano soltanto nella realizzazione di particolari concreti e irripetibili, come nella pittura, nella scultura scolpita o nel jazz dʼimprovvisazione» (Varzi 2005, pp. 90-91). Inoltre, questo modello ontologico sembra invocare necessariamente una serie di difficoltà: innanzitutto, «il problema di distinguere tra tokens genuini ed esecuzioni in qualche modo devianti, come le copie illecite, le contraffazioni, le trascrizioni, gli adattamenti ecc.» (p. 91); ma anche «la necessità di render conto della natura propriamente artefattuale dei tokens. Se due topolini camminando sulla tastiera del mio computer producessero per puro caso una sequenza di parole in tutto e per tutto identica a quella che costituisce il testo dellʼOdissea, diremmo che hanno creato una nuova copia di quellʼopera?» (ib.).

58 È doveroso ricordare, tuttavia, come tale modello ontologico abbia saputo condurre allʼaltrettanto celebre distinzione che vede le opere dʼarte come individui, da una parte, e come tipi, dallʼaltra, e che è stata teorizzata e sviluppata ampiamente, soltanto qualche anno dopo, dal filosofo inglese Richard Wollheim, nel suo celebre Art and Its Objects (cfr. Wollheim 1968).

determinate opere dʼarte, attraverso cui potervi poi riconoscere un certo merito (Margolis 1961, p. 537).

Data tale priorità, risulta palese quanto ogni chiarificazione sullo statuto ontologico dellʼoggetto estetico che si tratta di descrivere giochi un ruolo cardine nellʼattività del critico dʼarte. Sorgono tuttavia delle complicazioni nel momento in cui si voglia dare conto di un terzo aspetto dellʼattività del critico, irriducibile ai primi due e fondamentale per la comprensione dellʼopera dʼarte: lʼaspetto interpretativo.

Secondo Margolis lʼinterpretazione critica non è da intendersi come valutativa

tout court e, a differenza della descrizione, non farebbe capo ad un oggetto stabile e

contemplabile, bensì ad una serie di affermazioni vere o false, al punto che il critico dʼarte diverrebbe, addirittura, «a quasi performer» (p. 539).

Ciononostante, va notato che non per tutte le arti valgono nella stessa misura queste osservazioni, che risultano certamente più pertinenti per tutte quelle arti che abbisognano di esecutori, come la musica, la danza e il teatro – quelle che Margolis definisce «performing arts» (p. 538) –, e più “deboli” per le arti figurative – «plastic

arts» (p. 540) –, come la pittura e la scultura:

nelle prime [performing arts], lʼopera deve essere eseguita e un critico deve interpretare lo spartito o il testo al posto di una esecuzione effettiva; nelle seconde [plastic arts], lʼoggetto è inizialmente “là”, prodotto, ma non possiamo dire con precisione quali siano i suoi confini – né in generale per tutti i tipi di proprietà menzionate a proposito delle arti plastiche, né in casi specifici per le proprietà particolari attribuite ad una determinata entità plastica (p. 541).59

Quello che ne deriva è una sorta di sistema delle arti, sviluppato dallo stesso Margolis in un suo lavoro di poco anteriore, The Identity of a Work of Art (1959),60 e

59 Tra questi due estremi si collocano le arti letterarie, «literary arts» (Margolis 1961, p. 541), come la poesia e il romanzo, principalmente.

60

In questo saggio Margolis, volendo trovare una risposta alla domanda “che cosʼè unʼopera dʼarte?” – e avvalendosi esplicitamente anche delle analisi di Rudner e della nozione di “megatipo” (ossia di un tipo realizzato da tipi di livello inferiore), coniata in precedenza da Charles L. Stevenson in On «What Is a

Poem?» –, dichiara di non volere fornire una definizione concettuale di “opera dʼarte”, bensì di svolgere

alcune osservazioni preliminari utili allʼidentificazione di singole opere dʼarte in quanto entità capaci di reggere descrizioni diverse: forme e generi artistici diversi paiono evocare, a loro volta, diversi criteri di identificazione o di identità, essendo diverso il modo di esistenza delle opere che rientrano in essi. Proprio Margolis, infatti, è stato tra i primi a dichiararsi favorevole alla tesi secondo cui si darebbe una differenza

ampliato, in seguito – come si avrà presto modo di vedere –, soprattutto nel saggio The

Ontological Peculiarity of Works of Art (1977).

La distinzione type/token sembra connettersi a quella tra entità universali ed entità particolari. Da parte loro, gli universali, diversamente dai particolari, sono stati variamente caratterizzati riferendosi alle seguenti caratteristiche: avere delle realizzazioni o esemplificazioni; essere ripetibili; essere astratti; essere privi di collocazione spazio-temporale; essere impossibilitati ad entrare in relazioni di tipo causale con altre entità; essere predicabili delle cose particolari. I tipi sembrerebbero essere, allora, soltanto una specie delle entità universali.

La terminologia che distingue type e token era stata introdotta, come già ricordato, da Charles S. Peirce, in Collected Papers, in particolare nel volume IV, § 537,analizzando il caso del doppio senso di “parola”: da una parte, vi sarebbe la parola “parola” nella lingua inglese, intesa come unʼentità astratta; dallʼaltra parte, invece, le diverse parole “parola” presenti fisicamente (proprio su questa stessa pagina, ad esempio), da intendere come oggetti spazio-temporali, composti da dellʼinchiostro distribuito sulla carta.61

Al di là del carattere schiettamente ontologico delle questioni trattabili mediante la categorizzazione “tipo/occorrenza”, resta il fatto che Margolis ha chiara lʼintenzione di risolvere una questione che è ontologica e anteriore al problema della definizione semantico-concettuale di “arte” (e di “opera dʼarte”, implicitamente). Nondimeno, interrogarsi sul modo di esistenza delle opere dʼarte implica inequivocabilmente anche unʼinterrogazione a proposito di ciò che siamo disposti a riconoscere come arte in generale.

Il dibattito sul problema dellʼapplicabilità del modello type/token nellʼambito specifico dellʼontologia dellʼarte – che come si è visto si è dimostrato vivace già con le prime analisi di Margolis –, si amplifica soprattutto nel corso degli anni Settanta del

fondamentale tra forme e generi artistici secondo lʼapplicabilità del modello type/token (cfr. Margolis 1959, pp. 35-36).

61 È importante mettere in evidenza come questa celebre distinzione, pur avendo conosciuto unʼestensione dalla semiologia a numerosi altri ambiti di ricerca – tra cui, appunto, lʼontologia dellʼarte –, attende ancora una formulazione teorica soddisfacente. Fra gli studiosi non si dà accordo, infatti, circa diverse importanti questioni che la riguardano: che cosa sono i tipi?; esistono realmente?; sono entità astratte oppure “presenti” nelle relative occorrenze?; quale è la relazione che li lega alle loro occorrenze?; e così via.

secolo scorso, ed è proprio a questo periodo che risale anche un importante saggio di Nicholas Wolterstorff, intitolato Toward an Ontology of Art Works (1975).

Wolterstorff intende qui mettere a fuoco ciò che da sempre (talvolta tacitamente) viene considerato come il problema dellʼontologia dellʼarte: muovendo dalla constatazione, di senso comune, che tra le varie opere dʼarte si possono ritrovare entità diversissime tra loro, arriva a chiedersi se tutte le opere dʼarte appartengono ad una medesima categoria ontologica, se condividono un medesimo modo di esistenza e se soggiacciono ai medesimi criteri di identità: «Che tipo [sort] di oggetto è una sinfonia? E un dramma? Un balletto? Una stampa? Una scultura? Un poema? Un film? Un dipinto? Le opere dʼarte sono tutte fondamentalmente simili nel loro statuto ontologico?» (Wolterstorff 1975, p. 112).62

Innanzitutto, prima di affrontare queste difficoltà di stampo squisitamente ontologico, Wolterstorff cerca di proporre una fenomenologia, quantomeno “abbozzata”, delle opere dʼarte.

Per prime considera quelle che egli definisce «opere da performance» (p. 114) e riconosce il fatto che:

In molte arti si applica la distinzione tra la performance di qualcosa e lʼopera realizzata nella performance. In musica, ad esempio, si può distinguere unʼesecuzione di Verklärte Nacht e ciò stesso che è eseguito, cioè lʼopera di Arthur Schönberg Verklärte Nacht. In maniera analoga, nella danza si può distinguere tra una rappresentazione del Lago dei cigni e ciò che è rappresentato, il balletto Il lago

dei cigni.

[...] In primo luogo, lʼopera realizzata in una performance e la performance stessa si differenzieranno sempre in alcune delle loro proprietà. Per esempio, essere stata

composta da Schönberg è una proprietà di Verklärte Nacht, ma non lo è di nessuna

delle esecuzioni di Verklärte Nacht. Dʼaltra parte, avere luogo in un certo tempo e in

un certo spazio è una proprietà di ogni esecuzione di Verklärte Nacht, ma non di Verklärte Nacht in sé. È importante notare che lʼopera realizzata in una performance

può distinguersi dalla performance non solo nelle proprietà «ontologiche», ma anche

62 «Qual è allora lo statuto ontologico di queste cose, le cui proprietà fisiche e fenomeniche (quelle di cui facciamo lʼesperienza) possono essere diverse al punto che si può avere a che fare con la cosa stessa (lʼoriginale, per il quale visitiamo un museo) o, semplicemente, con una istanza di questa cosa (unʼesecuzione o addirittura la sua registrazione)? Che cosa rende opere dʼarte un quadro o una sinfonia, se il primo esiste soltanto in forma singola e la seconda sembra dotata di ubiquità? Esiste una differenza costitutiva tra opere autografiche, come si pensa in genere che siano quelle della pittura, e opere allografiche, come quelle della musica scritta?» (Cometti, Morizot, Pouivet 2000, p. 34).

nelle proprietà «estetiche». Per esempio, può essere che avere la voce che comincia

sul la naturale non sia tra le proprietà di nessuna esecuzione del Pierrot Lunaire di

Schönberg, sebbene sia una proprietà dellʼopera in sé, sicuramente una proprietà

essenziale (pp. 112-113).

Wolterstorff prosegue la sua riflessione, riconoscendo il fatto che, a differenza dello statuto ontologico delle performance, quello delle opere da performance «è immensamente confuso» (p. 114).

Le performance sono occorrenze o eventi. Esse hanno luogo in un certo tempo e in un certo spazio, iniziano e finiscono in un certo tempo, durano per un certo lasso di tempo, e hanno parti temporali nel senso che ogni performance è a un certo punto a metà, poi a tre quarti, a un ottavo e così via. Ma che tipo [sort] di oggetto è unʼopera da performance? Ciò che dovrebbe essere già chiaro [...] è che le opere da performance non sono occorrenze (eventi). Possiamo quindi già rispondere a una delle domande presentate in apertura: le opere dʼarte non sono tutte uguali nel loro statuto ontologico (ib.).

Certamente anche in altre arti (diverse dalle arti da performance) «trovano applicazione distinzioni simili a quella tra performance/opera da performance» (ib.): a tale proposito Wolterstorff porta come esempio quello delle stampa, della scultura

prodotta da uno stampo e dellʼarchitettura.

Qui una distinzione comunemente applicata è quella tra una particolare riproduzione e lʼopera di cui è una riproduzione; ad esempio, tra la decima riproduzione di

Obbediente fino alla morte e la stampa di cui è una riproduzione, cioè Obbediente fino alla morte di Georges Rouault. E si considerino poi quei casi in cui la scultura è

prodotta da uno stampo. Qui una distinzione comunemente applicata è quella tra un particolare calco di, poniamo, Il pensatore, e lʼopera scultorea di cui è il calco, cioè

Il pensatore di Rodin. Si considerino in terzo luogo quei casi nel campo

dellʼarchitettura in cui molti edifici diversi sono prodotti secondo un unico insieme di specifiche. Qui una distinzione comunemente applicata è quella tra un esempio dato, poniamo, della Casa Tech-Bilt n. 1 e quello di cui è un esempio, cioè la Casa

Le riproduzioni di una stampa, i calchi di una scultura e gli esempi di unʼopera architettonica sono tutti oggetti fisici che durano nel tempo, e questo costituisce il motivo per cui Wolterstorff ha deciso di raggruppare i prodotti di queste ultime arti sotto il nome di «opere oggettuali» (p. 115):

Al fine di avere una terminologia appropriata, chiamiamo gli oggetti di cui ci possono essere riproduzioni, calchi ed esempi, opere oggettuali, e diciamo che riproduzioni, calchi ed esempi sono oggetti di opere oggettuali. Quindi, come controparte della distinzione performance/opera da performance, abbiamo la distinzione tra riproduzioni, calchi ed esempi da un lato, e opere oggettuali dallʼaltro (pp. 114-115).

Wolterstorff affronta, infine, le opere letterarie, i film e i dipinti: le prime due sembrano possedere uno «statuto doppio » (p. 117), ossia, apparirebbero sia come opere da performance, sia come opere oggettuali:

Unʼopera letteraria può sia essere scritta sia essere «recitata». Ci possono essere tanto copie quanto recite di essa. [...] Un unico film può avere molte copie, essendo una copia un oggetto fisico; e un film può avere anche molte proiezioni, essendo una proiezione unʼoccorrenza (evento).

[...] Per quanto riguarda i dipinti, sembra che non trovi applicazione né la distinzione oggetto/opera oggettuale né quella performance/opera da performance, e nemmeno sembra che trovi applicazione qualche distinzione simile (pp. 115-117).

Arrivato a questo punto, pienamente consapevole del fatto che quanto ha presentato allʼinizio del suo saggio «non può certamente considerarsi svincolato da un qualsiavoglia impegno ontologico» (p. 118), Wolterstorff passa dal piano fenomenologico a quello ontologico, stricto sensu, e decide di affrontare, per prima, la difficoltà costituita dalla circostanza per cui di una medesima opera dʼarte – musicale o teatrale, in primis –, possono darsi realizzazioni multiple e differenti.63 In questo caso,

63 Già da qualche anno tale circostanza era stata ampiamente evidenziata nellʼestetica analitica: basti pensare alla celebre distinzione tra “arti allografiche” e “arti autografiche” formalizzata da Nelson Goodman nel suo Languages of Art (1968): «Goodman era partito dalla constatazione che ha senso parlare di falsi solo relativamente a certe arti, e non ad altre. Si può falsificare il Fanciullo morso da un

ramarro di Caravaggio, ma non Pianto antico di Carducci. Infatti ogni copia corretta di Pianto antico è

un esemplare dellʼopera di Carducci, e non una sua falsificazione. Goodman chiamava autografiche quelle arti nelle quali le falsificazioni attraverso copie sono possibili, per esempio la pittura o la scultura

infatti, si ammette che tra le diverse esecuzioni o interpretazioni di una medesima opera possono darsi anche delle differenze piuttosto notevoli. Lo stesso avverrebbe anche per le fotografie e le stampe; mentre i dipinti e le sculture non sarebbero che oggetti unici e non replicabili.

La risposta teorica adottata da Wolterstorff consiste nel focalizzare il rapporto

di esemplificazione che sussiste proprio tra le opere di cui possono darsi realizzazioni

diverse e tali realizzazioni – laddove, però, lʼautentica opera dʼarte va scorta nellʼentità passibile di esemplificazione –. Segnatamente, tale entità si caratterizza come unʼentità generica, di cui si possono dare esempi più o meno “riusciti”, in base alla condivisione di determinati predicati e proprietà tra lʼopera e i suoi esempi. In sostanza, cioè, le autentiche opere dʼarte vanno intese come dei generi normativi, «norm-kind» (p. 126),64

«intendendo con ciò il fatto che esse, come i generi biologici, potrebbero presentare casi corretti e non corretti, formati propriamente o impropriamente» (Levinson 2002, p. 439): «per esempio, lʼesecuzione del Pierrot lunaire dovuta a Björk, rispettando la partitura di Schoenberg, è una effettiva realizzazione di questʼopera, mentre non lo è la canzone Pierrot e la luna dei Litfiba» (Kobau 2008b, p. 58).65

Wolterstorff conclude il proprio discorso restringendolo al caso particolare della musica e arriva alla conclusione per cui è normativamente necessario che un esempio ben formato di unʼopera sia prodotto anche con la precisa intenzione di produrlo rispettando i relativi criteri di correttezza – dando così adito anche al vivace dibattito, allora in corso, riguardante il problema dellʼintenzionalità di autori ed esecutori –.

da intaglio; chiamava invece allografiche quelle opere nelle quali una copia non è un falso, ma un nuovo esemplare, come la letteratura o la musica, dove al massimo si possono creare dei falsi storici nella forma di pastiches (come quando Macpherson finge nel Settecento di comporre i canti di un bardo dellʼVIII secolo, Ossian). [...] Per essere definita autografica unʼopera dʼarte dovrà essere tale che la storia della sua produzione, cioè le circostanze, i materiali, i metodi con cui è stata composta siano rilevanti per la sua identità; sarà invece allografica se la sua identità non dipende affatto da questi aspetti, ma solo dalla

eguaglianza di compitazione (il fatto che unʼopera letteraria contenga tutte le lettere dellʼoriginale, uno

spartito – e persino, secondo Goodman, unʼopera eseguita – tutte le note scritte dallʼautore)» (DʼAngelo 2011, pp. 151-153).

64

Come ricorda anche DʼAngelo, Wolterstorff «ha espresso il rapporto tra tipo e occorrenza descrivendo i tipi come norme-specie, cioè accentuando il loro carattere normativo e non semplicemente descrittivo e insistendo sullʼanalogia con le specie naturali. Come un orso bruno è un orso bruno solo se è un esemplare ben formato della specie, così unʼopera è unʼoccorrenza della norma-specie solo se ne incarna tutti i requisiti essenziali» (pp. 153-154).

65 Come ricorda Wolterstorff, le opere dʼarte «sono norm-kind, e in quanto tali a esse sono associati certi requisiti che devono essere rispettati affinché lʼessere di qualcosa sia un esempio corretto dellʼopera» (Wolterstorff 1975, p. 138).

È importante sottolineare, tuttavia, come Wolterstorff si dimostri restìo ad identificare le opere dʼarte, in quanto esemplificabili, con le entità generiche “platoniche”, astratte ed eterne;66

nonché ad assorbire in unʼunica teoria dellʼarte, incentrata sul “paradigma musicale”, anche le opere di pittura e scultura, considerate abitualmente come oggetti fisici, concreti e singolari.

Un paio di anni dopo lʼarticolo di Wolterstorff appare il breve, ma denso saggio di Margolis, The Ontological Peculiarity of Works of Art (1977), con cui egli cerca di offrire unʼulteriore risposta al problema dello statuto ontologico delle opere dʼarte, che sconfina in una teoria generale dellʼarte basata interamente sul modello

type/token.

Margolis apre il suo saggio riportando una considerazione – che egli ritiene particolarmente significativa in vista della sua analisi – proposta da Jack Glickman nel suo Creativity in the Arts (1976): «i particolari sono realizzati, i tipi sono creati [...]. Nel creare una nuova minestra, il cuoco crea un nuovo tipo di minestra, una nuova ricetta; potrebbe farlo senza realizzare alcuna minestra (ovvero senza realizzare una scodella di minestra in particolare» (Glickman 1976, p. 140). E lo stesso Margolis prosegue: «se possiamo dire che il cuoco crea (inventa) un (nuovo tipo di) minestra, e se gli universali non possono essere creati o distrutti, allora, nel creare un tipo di minestra, il cuoco dovrà creare qualcosa che non è certo un universale» (Margolis 1977, p. 143).

Secondo Margolis lʼanalogia con lʼarte appare qui immediata:

Propongo che il termine type – in tutti quei contesti in cui si presenti unʼambiguità

type-token – designi particolari astratti che possono essere esemplificati. Si consideri

un caso illuminante di esemplificazione. Quadri opportunamente ricavati dalla lastra

66 Questa propensione per unʼontologia dellʼarte di stampo “platonico”, talvolta integrata dal ricorso al modello type/token e tesa a coprire tutti i diversi generi artistici, era già stata mostrata da P. F. Strawson, in particolare nel suo saggio Aesthetic Appraisal and Works of Art (1966). Secondo Strawson, infatti, nemmeno i dipinti vanno intesi come oggetti fisici particolari; la ragione per cui tendiamo a trattarli come tali è puramente contigente e dipende dalla nostra incapacità, specificamente “tecnica”, di produrne delle riproduzioni perfette. Una volta in possesso di tale capacità, potremo cessare di assegnare un qualsiasi

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 54-64)