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Lʼ“essenza” della performance

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 190-200)

Per la Performance Art vale la regola generale secondo cui lʼartista ingloba lʼoggettività dellʼopera dʼarte nel proprio corpo e nelle proprie azioni: il corpo dellʼartista diventa uno scenario dove tutto può succedere (Maurice Merleau-Ponty lo aveva definito “lo scenario dellʼessere”).218

Lʼartista, di fatto, dispone di un corpo che può manipolare e strumentalizzare a proprio piacimento; allo stesso tempo, tuttavia, egli è questo corpo vivo: proprio questa

tensione tra lʼavere un corpo (Körper-Haben) e lʼessere un corpo vivo (Leib-Sein) viene

posta dalla Fischer-Lichte «al centro e come punto di partenza delle riflessioni sulla produzione della corporeità nello spettacolo» (Fischer-Lichte 2004, p. 136).

Innanzitutto, tale tensione viene chiaramente espressa dal fenomeno della

presenza, che «non è una qualità espressiva, ma una qualità puramente performativa.

Essa si produce attraverso specifici processi dʼincarnazione con cui lʼinterprete produce il suo corpo vivo fenomenico come dominatore dello spazio e centro di gravità dellʼattenzione degli spettatori» (p. 169).219

Ciò che avviene durante una performance

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Cfr. Merleau-Ponty 1945, p. 23. «In effetti, è grazie al corpo che lʼesistenza del mondo e delle cose si rivela a noi come qualcosa di “già dato”, che “è lì”, antecedente a qualsiasi riflessione e a tutto il sapere scientifico. Esiste quindi una relazione spontanea tra il mondo e il corpo, espressa dal desiderio di conquistare le cose dalla loro origine, di trovare un contatto semplice con il mondo, di scoprire le cose nella relazione stessa che esse conservano con ogni individualità corporea; in sintesi, dal desiderio di scoprire lʼatto del sentire. Allʼinterno di questa stretta relazione si verifica un interscambio tra lʼIo – corpo – e il Tu – mondo – e ciò significa che esiste una reversibilità. Nel pensiero di Merleau-Ponty questa reversibilità o “chiasma”, come egli la definisce, costituisce il passaggio che ci permette di esistere in questo flusso magico che va dal singolo soggetto al mondo e viceversa» (Sileo 2012, p. 15).

219 In questo caso la Fischer-Lichte fa riferimento ad un concetto “nuovo” di incarnazione (Verkörperung), che «evidenzia come lʼessere-nel-mondo corporeo degli esseri umani rappresenti la condizione di possibilità del fatto che il corpo possa fungere ed essere concepito, tra le altre cose, come oggetto, tema e fonte della costruzione di simboli, come supporto materiale per la codificazione dei segni e come prodotto di iscrizioni culturali» (Fischer-Lichte 2004, p. 157). Lʼartista, allora, non arriva propriamente a trasformare il proprio corpo in unʼopera dʼarte, porta piuttosto a compimento dei processi di incarnazione, per mezzo dei quali egli può diventare altro, si trasforma, si rinnova e accade.

accade sempre realmente, in spazi reali e in tempi reali, avviene hic et nunc, in assoluta

presenza attuale.220

Segnatamente la “magia” che deriva da tale presenza consiste nella peculiare capacità dellʼattore di produrre energia in un modo tale da permettere che essa circoli liberamente nello spazio e possa essere avvertita dal pubblico, che, da parte sua, si ritrova allʼimprovviso immerso in questo campo energetico, che lo porta ad esperire su di sé delle autentiche trasformazioni. Inoltre, quando lʼartista produce la presenza – quando cioè “produce” il proprio corpo vivo fenomenico come corpo energetico –, egli appare come embodied mind, ossia come essere nel quale corpo e mente (sebbene pensati spesso come “ontologicamente” diversi e separati tra loro), sono «impegnati a eseguire qualcosa fino in fondo, staccandosi in ciò dalla routine incolore di tutti i giorni» (Barilli 2016, p. 159), e si ritrovano improvvisamente in una costante tensione

espressiva. Come sostenuto da Nietzschze – in un celebre passaggio del suo Also sprach Zarathustra, dedicato ai disprezzatori del corpo – il corpo diventa infatti la residenza

del Sé e questʼultimo risulta essere infinitamente più esteso dellʼIo e di ogni sua meschina pretesa razionale. Soltanto nella dissoluzione dellʼIo nel Sé, nel ritorno alla

grande ragione del corpo, lʼuomo può avvicinarsi allʼessenza e alla verità del mondo.

«Io sono corpo e anima» – così parla il fanciullo. [...] Ma il risvegliato, il sapiente dice: io sono in tutto e per tutto corpo, e niente al di fuori di esso; e anima è solo una parola per un qualcosa del corpo. Il corpo è una grande ragione, una molteplicità con un unico senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore. Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami «spirito», un piccolo strumento e giocattolo della tua grande ragione. Tu dici «Io», e sei orgoglioso di questa parola. Ma una cosa più grande, a cui tu non vuoi credere, è il tuo corpo e la sua grande ragione: questa non dice Io, ma fa Io. Ciò che il senso sente, ciò che lo

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Cfr. Barba 1985, soprattutto pp. 51-169. Il noto regista teatrale italiano Eugenio Barba distingue qui, in particolare, tra un livello pre-espressivo e un livello espressivo dellʼarte recitativa: se a livello espressivo viene sempre rappresentato qualcosa, il livello pre-espressivo serve soltanto allʼesposizione della presenza attuale dellʼattore. «Avendo osservato che il “flusso magico”[...] si trasmetteva in modo particolarmente intenso negli spettacoli tipici di alcune forme di teatro indiano e del lontano oriente, Barba analizzò le diverse tecniche e le diverse pratiche usate dai maestri di questo teatro per manifestarsi come attualmente presenti. Discutendo con loro giunse alla conclusione che lo scopo di queste tecniche e pratiche è di produrre nellʼinterprete unʼenergia in grado di essere trasmessa agli spettatori. [...] In questi procedimenti si tratta [...] di produrre in primo luogo energia, e cioè di produrre il proprio corpo vivo come corpo vivo energetico. Lʼinterprete utilizza particolari tecniche e pratiche dʼincarnazione per riuscire a produrre lʼenergia che circola tra lui e gli spettatori e agisce immediatamente su di essi» (Fischer-Lichte 2004, pp. 172-173).

spirito conosce, non ha mai il suo fine in sé. Ma senso e spirito vorrebbero convincerti di essere il fine di tutte le cose: tanto son vanitosi. Strumenti e giocattoli sono senso e spirito: dietro a loro sta ancora il Sé. Il Sé cerca anche con gli occhi dei sensi, ascolta anche con le orecchie dello spirito. Sempre il Sé ascolta e cerca: confronta, costringe, conquista, distrugge. Domina ed è anche il dominatore dellʼIo. Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente imperatore, un saggio sconosciuto – si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo. Cʼè più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza [...]. Il tuo Sé ride del tuo Io e dei suoi salti orgogliosi. «Che cosa sono mai questi salti e voli del pensiero?» esso si dice. «Una via traversa verso il mio scopo. Io sono la danda dellʼIo e il suggeritore dei suoi concetti». [...] Il corpo creatore si è creato lo spirito come una mano della sua volontà. Anche nella vostra stoltezza e nel vostro disprezzo, o disprezzatori del corpo, voi servite il vostro Sé. [...] Io non vengo per la vostra strada, o disprezzatori del corpo! Voi non siete per me pronti verso il superuomo! (Nietzsche 1983-1984, pp. 52-53).

Sebbene da una prospettiva diversa da quella proposta da Nietzsche, la questione dellʼembodiment, promossa soprattutto dagli artisti della Performance Art, aggiunge al sistema cognitivo una nuova dimensione della conoscenza, che diventa così “fisica”, prima ancora che “mentale”: il corpo dellʼartista, con la propria presenza attiva, nello spazio e nel tempo reali, diventa il mezzo privilegiato con cui potere conoscere e fare esperienza del mondo;221 e, allo stesso tempo, lʼartista offre anche allo spettatore la possibilità di esperire se stesso, innanzitutto, come embodied mind:

A causa della propria tradizione culturale, lo spettatore occidentale è abituato a pensarsi secondo la postulata dicotomia di spirito e corpo e a proiettare il superamento di questa dicotomia in un lontano futuro o a considerarla una rara fortuna che è concessa già qui e oggi solo a pochi uomini eletti in virtù di una particolare condotta di vita che viene connotata per lo più in modo religioso. Se la

221 Come mette in evidenza Barilli, infatti, «conta soprattutto lʼidea di esserci dentro per intero, vale dire, di rifiutare le varie forme di delega e di riduzione che fin qui apparivano inevitabili, soprattutto nelle arti visive» (Barilli 2016, p. 159). Per secoli, queste ultime hanno fatto uso del “filtro dellʼillusione”, un filtro che, «se riguardava massimamente le arti visive, non era sconosciuto neanche a quelle dello spettacolo, ove si è sempre ammesso che ci fosse la presenza dellʼattore “in carne e ossa”, ma come per attenuare lo scandalo di quella presenza troppo immediata, si aveva cura che essa venisse mediata da uno spazio e da un tempo anchʼessi virtuali, illusori; che cioè essa suggerisse luoghi e sequenze temporali ben diverse da quelle reali, aiutandosi con elementi di finzione, di distacco (il palcoscenico, le scene, le didascalie sul tipo “un anno dopo”, “intanto in unʼaltra città”...)» (pp. 159-160). La performance, invece, ha “dichiarato guerra” proprio a questo tipico carattere illusorio dellʼarte, divenendo il perfezionamento ultimo di una vera e propria marcia antillusionistica.

presenza dellʼattore [del performer nel caso specifico] lo colpisce ed egli lo percepisce come embodied mind sentendo al contempo anche se stesso come

embodied mind, ecco che vive questo momento come un momento di felicità che

non è possibile conservare e trasportare nella vita quotidiana. Per riviverlo è necessaria nuovamente lʼesperienza della presenza. E così lo spettatore può diventare dipendente da questi rari momenti di felicità che solo la presenza dellʼattore [performer] riesce a regalargli.

Nella presenza, dunque, non si manifesta nulla di straordinario, ma viene reso evidente e trasformato in evento qualcosa di assolutamente ordinario: la peculiarità dellʼessere umano di essere embodied mind. Esperire se stesso e lʼaltro come attualmente presenti (gegenwärtig), come presenza (präsent), significa esperire se stessi come embodied mind e, di conseguenza, vivere il proprio ordinario Esserci (Dasein) come straordinario, come trasformato e, anzi, trasfigurato (Fischer-Lichte 2004, p. 176).

Certamente anche i media tecnologici più moderni ed avanzati, facendo fede a quella logica del processo di civilizzazione così magistralmente illustrata da Norbert Elias,222 sono in grado di creare degli effetti-presenza, ma non la presenza in quanto tale. Essi producono piuttosto lʼapparenza di una presenza attuale, senza tuttavia portare effettivamente a manifestazione corpi (e oggetti) come attualmente presenti; riescono a superare la dicotomia tra corpo e anima, ma la strada che percorrono per riuscire in questo intento è diametralmente opposta a quella del fenomeno della presenza, perseguito invece con tanta assiduità proprio dalla Performance Art.

Mentre nella presenza il corpo vivo umano si manifesta anche e proprio nella sua materialità come corpo vivo energetico e organismo vivente, i media tecnologici ed elettronici generano lʼapparenza dellʼessere presente del corpo umano smaterializzandolo e de-corporizzandolo. Tanto più riescono a far svanire e rendere irreale la materialità del corpo umano, delle cose e dei paesaggi, tanto più intensa e forte risulta lʼapparenza della loro presenza attuale (p. 178).

222 Cfr. Elias 1939. Qui Elias descrive il processo di civilizzazione anche come un processo di progressiva

astrazione, nel quale la distanza dellʼuomo dal proprio corpo e dal corpo degli altri uomini diventa

sempre più estesa, e ritiene che soprattutto in seguito allʼinvenzione e alla diffusione dei nuovi media tecnologici nel XX secolo questo processo abbia raggiunto il proprio culmine: i corpi si volatilizzano in rappresentazioni mediatiche che, nonostante lʼapparente vicinanza, scivolano sempre più lontano e si sottraggono ad ogni tipologia di contatto diretto.

Alla suggestione del corpo virtuale che discende dalla tecnologia attuale la Performance Art contrappone con forza, dunque, lʼessere-nel-mondo corporeo dellʼartista e il relativo concetto di embodied mind. Al corpo dellʼartista la Performance Art restituisce quella stessa “aura” che il processo di civilizzazione gli ha a poco a poco misconosciuto: «Contro le immagini riprodotte in milioni di copie dei media tecnologici ed elettronici si staglia nel teatro e nella performance art il corpo vivo umano – anche e proprio come malato, sofferente, ferito, segnato dalla morte – nella sua unicità ed evenemenzialità» (pp. 163-164).

A tale proposito appare utile un chiarimento sul significato dei termini “corpo virtuale” e “realtà virtuale”, espressioni che non soltanto vengono utilizzate con sempre maggiore frequenza allʼinterno del linguaggio comune, ma costituiscono anche un interessante oggetto di ricerca dal punto di vista filosofico e, più specificamente, ontologico. Innanzitutto, facendo riferimento a quanto esposto in un testo di Roberto Diodato che per molti versi può essere considerato unʼottima e chiara introduzione a problematiche di questo genere, quale è Lʼestetica del virtuale223, è possibile constatare come il corpo virtuale possa presentarsi sotto molteplici “punti di vista”:

Da un punto di vista semplice, esteso e primario, “corpo virtuale” è per esempio qualsiasi oggetto-immagine visibile attualmente e più comunemente sullo schermo di un computer, che consente unʼinterazione tale da modificarlo, almeno nel senso di azionarlo, costituirlo come evento specifico. Si tratta in casi frequenti di un certo tipo di unʼentità grafica [comunemente conosciuta con il nome di avatar] che relazionata ad altre entità dello stesso genere costruisce un ambiente [virtuale di rete (NVE: Networked Virtual Environment)] col quale lʼutente può interagire. [...] Sempre in linea di approssimazione a un concetto forte di realtà virtuale, una seconda esemplificazione di corpo virtuale è costituita dalle cosidette “sculture immateriali”. Non si tratta di immagini digitali visibili sullo schermo di un elaboratore, ma di spazi-ambienti che prendono forma nellʼinterazione con gli utenti, cioè di robot virtuali che si manifestano in 3D come organismi olografici e olofonici

quasi capaci di “apprendere” dati forniti dagli utenti e mutare in relazione a essi

(Diodato 2005, pp. 7-9).

223 Cfr. Diodato 2005. Per una “visione dʼinsieme” sulle problematiche riguardanti il virtuale rimando anche a Benedikt 1991; Capucci 1993; Caronia 1996; Lévy 1994, 1995 e 1997; Marchesini 2002; Taiuti 2001; Ventimiglia 2004.

In sostanza, dunque, il corpo virtuale si presenta come un ente in grado di fenomenizzarsi, solo ed esclusivamente, nellʼinterazione con gli utenti, e proprio tale fondamentale componente interattiva – che per certi aspetti è condivisa anche dal corpo umano vivo – diventa la caratteristica per eccellenza del corpo virtuale: «Ora il corpo virtuale, pur non essendo riducibile a una rappresentazione, non esiste come corpo se non nellʼinterattività, è una interazione, un oggetto-evento: unʼazione (relazione di interattività) che è un corpo (corpo virtuale) in quanto possiede le caratteristiche che siamo soliti attribuire ai corpi» (p. 26).

Proprio tale interattività fa sì che noi – in quanto utenti – possiamo “immedesimarsi” nel corpo virtuale ed “immergerci” nella realtà in cui esso si ritrova ad agire: allʼinterno di questa realtà non siamo dei semplici spettatori, bensì “attori” che agiscono in uno spazio e in un tempo specifici, e la forte sensazione di presenza che deriva da tale esperienza diventa, talvolta, più pervasiva e potente di quella provata nella realtà quotidiana, in cui, quasi per necessità, «tendiamo a costruire narrazioni partendo da eventi forse privi di senso unitario, tendiamo a duplicare lo sguardo spostandolo allʼesterno delle nostre stesse vicende al punto che la mente pare sia spontaneamente narrativa» (pp. 62-63), al solo scopo di mettere ordine e creare un ambiente sopportabile per la nostra esistenza.

Quando si parla di realtà virtuale, si parla generalmente di utenti dal momento che coloro che si relazionano con una realtà di questo tipo tendono propriamente a manipolarla, modificarla attraverso le loro azioni, e ad utilizzare gli oggetti in essa presenti per raggiungere i propri scopi. Essi tendono ad esperire lʼambiente virtuale come se fosse una realtà “concreta”, altra, differente ed esterna rispetto a sé, ma con cui potere espandere ed esprimere in maniera maggiormente valorizzante e completa lo spazio e il tempo reali. Come sostiene Baudrillard (citato dallo stesso Diodato): «La virtualità è diversa dallo spettacolo, che lasciava ancora spazio a una coscienza critica e a una demistificazione. [...] Non siamo più spettatori ma attori della performance, e sempre più integrati nel suo svolgimento. Mentre potevamo affrontare lʼirrealtà del mondo come spettacolo, siamo invece indifesi davanti allʼestrema realtà di questo mondo, davanti a questa perfezione virtuale» (Baudrillard 1995, p. 33).

Dʼaltra parte, la realtà virtuale non va e non può essere confusa con una simulazione tendenzialmente perfetta della realtà “reale”, «che annulla la somiglianza

nellʼidentità (e dunque annulla se stessa come tale), o con una teleologicamente definitiva trasparenza del medium» (Diodato 2005, p. 13). Essa piuttosto «tende a produrre lʼesperienza di una immersione pervasiva e persuasiva ma insieme relativamente consapevole del proprio particolare statuto ontologico» (p. 15); appare infatti come una simulazione tendenziale e non come una riproduzione perfetta, ed è proprio questo “scarto” ciò che apre le infinite possibilità percettive, cognitive, ma anche e soprattutto artistiche della virtualizzazione dellʼimmaginario umano. La realtà virtuale diventa una realtà intermediaria, che sfugge tendenzialmente alla dicotomia interno/esterno, a cui siamo naturalmente abituati, dal momento che non è una semplice immagine, né un semplice corpo, bensì un corpo-immagine, insieme interno ed esterno, uno strano ibrido che sfugge, a sua volta, anche alla distinzione tra oggetto ed evento: la realtà virtuale non è una cosa stabile, ma è pur sempre una cosa; non è un evento nel senso tradizionale del termine, ossia come qualcosa che succede e passa, ma un evento che accade e si costituisce proprio grazie allʼinterazione tra utenti.

Allo stesso modo, il corpo virtuale – che non è della realtà virtuale o nella realtà virtuale, ma coincide con essa – «è insieme copia e originale, e in nessun caso contraffazione della verità dellʼoriginale» (p. 67); se con esso viene costruita una certa “illusione”, questa non necessariamente deve essere interpretata come una lontananza dallʼoriginaria verità della realtà. Il corpo virtuale non è un simulacro, esso piuttosto rinvia letteralmente al proprio non essere, ad algoritmi, a scritture. È un corpo che possiede una propria genesi non biologica ricostruibile, dal momento che non rimanda a delle riproduzioni mimetiche che si protraggono allʼinfinito.

Diventa allora necessario privare la fruizione estetica della “distanza” – a lungo considerata come la condizione più importante per lʼattribuzione di valore artistico ad unʼopera –, e, piuttosto, ripensarla nei termini di una «dimensione del risucchio, dellʼingresso da parte del fruitore nel corpo dellʼopera e insieme dellʼopera nel proprio corpo, o immaginario» (p. 72). Questo naturalmente comporta anche lʼaccentuazione della dimensione patica e panica della relazione tra fruitore e opera virtuale: questʼultima subisce lʼeffetto della presenza del primo e, attraverso il mutamento prodotto da questo subire, modifica il sentire dello stesso fruitore.224 Lʼarte virtuale

224 Diodato fa qui riferimento allʼopera Osmosi (1995) di Charlotte Davies – «uno spazio, che Oliver Grau ha definito a non-Cartesian space, in cui ci si muove, grazie a opportune protesi, tramite respirazione (“per salire, inspirate, per scendere, espirate”)» (Diodato 2005, p. 72) –, ma anche alle installazioni di

appare, infatti, come una forma dʼarte che non tenta tanto di plasmare lo sguardo dello spettatore, di modellizzare i flussi del suo desiderio, quanto «di corrispondere a questo stesso sguardo e a questi flussi integrandosi con essi, lasciandosi plasmare e modificare nella misura in cui plasma e modifica. Unʼidea di estasi con ritorno, o meglio della loro coincidenza: uscita fuori di sé, e quindi adesione affettiva e intellettuale, in grado di modificare il senso dellʼevento» (p. 182).

Come sostiene lo stesso Diodato, siamo vicini «ad alcune forme del teatro contemporaneo, e a certe forme dellʼarte che incorpora eventi [in primis, la Performance Art], ma in un ambiente spazio-temporale più prossimo a quello del sogno, tale da far svanire la polemica tra coloro che credono nellʼimmagine e coloro che credono nella realtà» (ib.).

Allʼinterno di questo contesto “sognante” le opere dʼarte perdono ogni autonoma consistenza oggettuale e, con essa, il senso oggettivo della loro unità ed unicità, diventando dei «fantasmi sintetici» (Desideri 2002, p. 49), fluidi, effimeri e necessariamente refrattari al consolidamento formale. Di conseguenza, alla centralità artistica dellʼartista e a quella estetica del pubblico «si sostituisce il policentrismo di un processo dove la soggettività del fare artistico e la dimensione tecnico-programmatica delle procedure tendono a coincidere» (p. 45). Quella che emerge, con tratti variamente “auratici”, è infatti una soggettività virtuale sempre più forte e consapevole delle proprie realizzazioni artistiche.

Essa rappresenta, sul versante estetico-corporeo dellʼimmaginazione e della sensibilità, il prolungamento di quella intelligenza collettiva celebrata da Pierre Lévy come lʼespressione più significativa del nuovo spazio del sapere proprio dellʼepoca della Rete. Rispetto al carattere ubiquitario e nomade dellʼintelligenza che abita il cyberspazio questo tipo di soggettività è principio ed effetto di una

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 190-200)