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Ontologia “platonica” ed ontologia “aristotelica”

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 49-54)

Dopo lʼuscita dellʼarticolo di Rudner il dibattito sulla natura delle opere dʼarte continua, in particolare, con un importante scritto di Richard W. Peltz, Ontology and the

Work of Art (1966). Peltz comincia il suo saggio constatando, innanzitutto, come

nessuna disciplina specifica (che sia lʼestetica, la storia, piuttosto che la critica dellʼarte) comincia con lʼasserzione “x è”, dove x è la cosa che viene considerata e che, dunque, costituisce lʼoggetto di tale disciplina. Ogni disciplina, piuttosto, sembra presupporre necessariamente la consistenza ontologica degli oggetti su cui verte, senza tuttavia chiarire il significato di un simile presupposto.

Non cʼè disciplina specifica che inizi con lʼasserzione «x è» o «x ha essere», dove x è una «cosa» particolare o un oggetto che viene posto sotto considerazione (in questo caso, lʼoggetto dʼarte); eppure, ogni disciplina presuppone – come dice Aristotele – che tale asserzione sia vera. E le asserzioni vere che la disciplina fa su x suggeriscono le condizioni che rendono vero «x è». La discussione di tali condizioni è il terreno tradizionale dellʼontologia (Peltz 1966, pp. 96-97).

Dopo avere sottolineato la problematicità del compito di definire le opere dʼarte, Peltz mostra come proprio questa difficoltà possa andare a condizionare anche la pertinenza di differenti interpretazioni riferite ad una medesima opera dʼarte:

Ad esempio, si paragonino lʼinterpretazione freudiana dellʼAmleto con i commenti di T.S. Elliot sulla stessa opera. Ernest Jones, lo psichiatra inglese, è dʼaccordo con la maggioranza dei critici nel sostenere che il problema dellʼAmleto sta nel fatto che non si capisca perché lʼeroe ci metta così tanto a vendicare la morte del padre [Jones 1949]. Questo problema può essere risolto (presumibilmente con buona soddisfazione del critico letterario) da unʼanalisi psichiatrica della personalità di Amleto, che esibisce tutti i danni devastanti del complesso di Edipo. [...] Ma Jones non nega che Amleto sia una grande tragedia. Al contrario, è come se il merito artistico di questʼultima risiedesse, almeno in parte, nella sua acutezza psicologica. [...] La tragedia è una proiezione dellʼanima dellʼartista – stimola risposte nei fruitori perché riflette lʼanima di ognuno di noi. [...] La tragedia esiste solo come un attributo psichico dellʼautore e dei suoi fruitori, ed è questa caratteristica che determina lʼadeguatezza dellʼanalisi psicologica.

[...] T.S. Elliot, al contrario di Jones, ritiene che lʼAmleto sia un fallimento artistico [Elliot 1932, 123]. [...] Shakespeare affronta un problema che evidentemente non è capace di trattare. [...] Lʼanalisi estetica non sarebbe riducibile allʼanalisi psicologica, poiché lʼopera dʼarte non è unʼappendice psicologica dellʼautore o dei fruitori, ma qualcosa di indipendente da entrambi. La differenza, negativa, tra le concezioni poetiche di Elliot e di Jones sta qui. E a questi differenti punti di vista sulla natura dellʼoggetto artistico si possono far risalire le opinioni opposte sul valore letterario del dramma che si sta considerando (pp. 92-94).

Vi sarebbe dunque una complessa relazione che lega le differenti concezioni dellʼessere delle opere dʼarte con le teorie o critiche estetiche corrispondenti e che abbisogna certamente di chiarificazione. Per questo motivo, secondo Peltz, occorre distinguere tra due tipi di ontologie generali, fondamentalmente diverse tra loro.

La prima è lʼontologia platonica, che sembra basarsi principalmente sul

metodo analogico, incentrato sullʼassunzione di un significato eminente e unico di

“essere”, predicabile però in gradi differenti di tutte le cose che, in maniera diversa, sono dette “esistere”:

quando si considera il termine essere in generale si assume che abbia un significato univoco, fissato dal riferimento a un qualche contesto principale. In ogni altro contesto specifico il suo significato non è indipendente dal suo significato fisso o univoco. Esso è applicabile a un contesto particolare per analogia, cioè nella misura in cui questo contesto assomiglia al contesto principale da cui il termine deriva il suo significato (p. 101).52

Il secondo tipo di ontologia, rappresentato dallʼontologia aristotelica, addotterebbe invece il metodo letterale, secondo cui non vi è un significato univoco di “essere”, a meno che questo termine non sia riferito ad una cosa o categoria particolare, o non rimandi ad un contesto specifico. Alla stregua di quanto sostenuto da Aristotele, infatti, il termine “essere”

52 Nel saggio Classification and Evaluation in Aesthetics (1971), Peltz dimostra certamente una maggiore propensione nei confronti di questo approccio analogico, che riconosce essere stato scelto già da Morris Weitz nella sua celebre tesi contenuta in The Role of Theory in Aesthetics, secondo cui, come si è già visto, il concetto di opera dʼarte sarebbe un concetto aperto, non passibile di definizione essenziale.

è peculiare, perché il suo significato non può venire determinato dallʼessere classificato in una delle [dieci] categorie [che servono a classificare termini semplici a seconda di ciò che designano], dal momento che la sua designazione si estende attraverso tutte le categorie, applicandosi tanto alla sostanza quanto agli accidenti. [...] Come termine trascendentale, dunque, essere è applicabile in un modo univoco allʼinterno di qualsiasi genere o categoria, sebbene considerato separatamente da tutte le categorie o, ciò che è lo stesso, considerato come applicato contemporaneamente a tutte le categorie non ha senso univoco o singolare; né, di conseguenza, si riferisce a una singola cosa o a un singolo genere di cose. Le uniche parole ad avere significati univoci sono quelle il cui ambito ricade tutto allʼinterno di categorie specifiche, ed essere diventa determinato, singolare, e univoco, quando lo si consideri tenendo fisso il suo ambito allʼinterno di una sola categoria (pp. 97- 98).53

Soprattutto nellʼambito dellʼestetica musicale la posizione platonica trova dei sostenitori “agguerriti”. Tra questi è possibile ricordare Peter Kivy che nel suo saggio

Platonism in Music: A Kind of Defense (1983) cerca di fornire un “senso estetico” alla

propria tesi metafisica di stampo platonico partendo dalla constatazione della

riproducibilità delle opere musicali: se è variamente realizzabile e riproducibile, lʼopera

musicale deve essere necessariamente unʼentità astratta, un universale, un genere. Inoltre, non soltanto lʼesecuzione, ma anche la partitura originale, le diverse concezioni o interpretazioni dellʼopera devono potere essere riconosciute come realizzazioni, o meglio, come istanziazioni dellʼopera musicale stessa.

Segnatamente, unʼinterpretazione platonica dellʼopera dʼarte sostiene che vi siano delle affermazioni che si fanno sullʼopera musicale (nel caso specifico), «in cui qualche proprietà acusticamente percepita viene predicata dellʼopera» (Kivy 1983, p. 154); ma dal momento che un universale, o un genere non può possedere tale proprietà, esso non può essere ciò a cui ci si riferisce. Quindi,

quando diciamo «la Sinfonia 49 di Haydn è appassionata», noi non stiamo solo dicendo qualcosa sulle esecuzioni corrette dellʼopera, ma qualcosa sullʼopera stessa, sebbene la passione (nella fattispecie) sia una proprietà acusticamente percepita, mentre gli universali o i tipi non sono acusticamente percepiti, o, meglio, lo sono

53 Date queste premese, Peltz conviene che le discrepanze (se non, addirittura, le incompatibilità) tra i diversi discorsi estetici andranno risolte mediante la scelta preliminare di una ontologia generale adeguata.

attraverso le loro instanziazioni, per esempio le esecuzioni. Se così non fosse, sarebbe infatti strano essere accusati di un errore logico per aver detto «il leone maschio ha la criniera», visto che alle specie o ai generi naturali non possono crescere peli.

Parlare della «esecuzione di unʼopera» suona come se uno stesse parlando di due cose: dellʼesecuzione e dellʼopera, una delle quali sta per lʼaltra, come nellʼespressione «una copia dellʼoriginale». Ma un singolo leone non sostituisce il tipo: è una sua instanziazione. Similmente, sentire unʼesecuzione di unʼopera è sentire la sinfonia: è sentire lʼopera, non un suo sostituto. Lʼesecuzione è unʼinstanziazione dellʼopera, non un suo sostituto; e fare unʼaffermazione sullʼopera è fare unʼaffermazione sulle sue istanziazioni (pp. 154-155).

Data una tale posizione,54 sin da subito emerge un problema piuttosto grosso, che va a stridere con tutte le opinioni di senso comune: le opere dʼarte, così interpretate, non sembrano creabili sul piano metafisico; si caratterizzerebbero, infatti, soltanto come

idee platoniche, archetipi eterni.

Kivy, pur riconoscendo questo “limite” alla propria proposta estetica, non ritiene che il fatto che le opere musicali siano da considerarsi universali, atemporali ed inalterabili possa andare a comprometterla definitivamente. Egli riconosce infatti che, da un punto di vista musicologico, non è necessario insistere sullʼidea che la musica venga creata, stricto sensu, ma che possa, piuttosto, venire scoperta: «i musicisti non

compongono le loro opere ma le scoprono (come si può dire che Pitagora ha scoperto il

teorema che porta il suo nome)» (DʼAngelo 2011, p. 155); da parte loro, «le opere musicali esistono da sempre e aspettano solo di essere trovate da qualcuno» (ib.).

Dʼaltronde, proprio come lʼinvenzione è in parte scoperta, anche la scoperta è in parte invenzione; e a tale riguardo Kivy porta gli esempi di Michelson, il quale scoprì la velocità della luce solo dopo avere inventato lʼinterferometro, e di Gödel, il quale

54

La concezione di Kivy sembra rientrare in quella particolare teoria, appartenente alla posizione realista in senso lato, «secondo cui gli universali esistono atemporalmente e ante rem, cioè indipendentemente dagli oggetti che li esemplificano, in linea con la concezione platonica: una proprietà come la saggezza, per esempio, esisterebbe anche se nessuno fosse saggio» (Varzi 2005, p. 54). Vi è poi una seconda teoria realista – a cui invece sembra appartenere la proposta estetica di Nicholas Wolterstorff, come si avrà presto modo di vedere –, che riprende invece la concezione aristotelica, «secondo cui gli universali esistono soltanto in rebus, cioè soltanto nella misura in cui sono esemplificati: una proprietà come la saggezza, quindi, esisterebbe unicamente quando esistono persone sagge» (ib.). Opposta a quella realista, vi sarebbe la posizione nominalista, secondo cui gli universali non sarebbero che entità fittizie: «non apparterrebbero allʼarredo del mondo ma sarebbero il prodotto dellʼazione ordinatrice della nostra mente, semplici etichette di cui ci serviamo per mettere ordine in un mondo che – al di là delle affinità e differenze che possono colpirci – consisterebbe solo di entità individuali» (p. 53).

invece scoprì il teorema che porta il suo nome solo dopo avere inventato una numerazione ad hoc:

se Mozart scoprì la sua musica, anziché inventarla, tale scoperta fu tanto complessa, vi fu un tale intreccio tra scoperta e invenzione, quanto nella scoperta della velocità della luce da parte di Michelson, o del teorema di incompletezza da parte di Gödel [...]. Dunque, non sto necessariamente suggerendo che Mozart non era tanto un inventore o un creatore quanto piuttosto uno scopritore. Ciò che sto suggerendo è che potrebbe essere plausibile pensare a queste opere come a oggetti platonici di qualche tipo e, conseguentemente, a cose che avrebbero potuto non venire allʼessere. Ma proprio come inventare non è interamente un fare, così scoprire non è interamente un trovare: una scoperta, qualunque complessità e significato abbia, è al contempo unʼinvenzione, ovvero una creazione (Kivy 1983, pp. 156-157).

Sarebbe il nostro stesso senso comune, dunque, ad essere sbagliato: sbagliamo nel concepire in senso romantico la creatività del compositore e nel ritenere che unʼopera dʼarte acquisti valore soltanto perché creata in circostanze storiche e biografiche uniche. A tale proposito Kivy riconosce, innanzitutto, che «la nozione dellʼartista quale creatore con attributi divini ha una storia – e neanche tanto lunga» (p. 158). Questa nozione, suggerita da Philip Sidney nella sua Apologia della poesia del 1595, sembra acquisire la fama di cui ancora oggi gode soltanto alla fine del XVIII secolo, soprattutto attraverso lʼinfluenza della terza Critica di Kant sul movimento romantico. Fino ad allora lʼintera storia dellʼarte aveva potuto operare liberamente, senza dovere fare necessariamente uso della nozione dellʼ“artista divino” e, anzi, aveva saputo dare alla luce capolavori come «lʼIliade, lʼOdissea, i pezzi di teatro greci, le cattedrali gotiche, Shakespeare, il Rinascimento italiano, Bach, Händel, Haydn, Mozart, e molto di più» (pp. 158-159).55 E quasi a volere estremizzare questʼultimo fatto, Kivy riconosce anche che, a differenza di quanto sembrerebbe suggerire lʼidea romantica del genio artistico – oramai sin troppo “sdoganata” –, sarebbe logicamente possibile pensare che la stessa identica opera musicale possa essere composta indipendentemente da due autori, in circostanze storico-culturali differenti e ricorrendo a delle pratiche tecniche diverse, senza per questo perdere nulla della sua identità e valore.

55 E Kivy aggiunge: «Bach non pensava di essere Dio; Wagner sì, con risultati terribili» (Kivy 1983, p. 159).

È il raggiungimento di «risultati nuovi e di valore» che autorizza lʼepiteto «creativo» e non importa se quel raggiungere è «inventare», «scoprire» o «creare in un modo simile a quello divino». [...] Non cʼè bisogno di dire che la scoperta è il rivelare ciò che è sempre stato lì, ma che nessuno ebbe ancora il genio o lʼimmaginazione per vedere; ed è indifferente il fatto che essa sia di tipo scientifico o musicale (ib.).56

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 49-54)