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Appendice di discussione

UMBERTO REGINA (insegnante, filosofo): «Ho sperimentato che nell’inse-

gnamento della storia è arduo rendere consapevoli i giovani dell’intrinseca storicità dell’esistere umano; si tratta, del resto, di una conquista filosofica abbastanza recente e poco divulgata (anche per il perdurante prevalere di una mentalità neoilluministica). Mi pare invece che vi sia nei giovani molta disponibilità per la scoperta, anche nel senso limitato di riscoperta, di ciò che sta loro attorno come semplicemente presente. Direi pertanto che la microstoria, se opportunamente innescata con interessi attuali, appare come una via didatticamente consigliabile in quanto consente di apprezzare come novità lo spessore storico di aspetti della realtà ritenuti banali e scontati. Se la tesi ‘abolizionista’ è il nemico da battere (non solo per i professionisti

55 Per revisioni interne allo stesso empirismo logico cfr. I. Lakatos, Criticism and Growth

of Knowledge, Cambridge 1970.

56 Giovanni Tabacco e l’esegesi del passato, Torino 2006.

57 «L’immagine del razionalista che troviamo nel bestiario nero degli antirazionalisti conservatori è una finzione della loro immaginazione atterrita»: Postan, Storia cit., p. 15.

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della storia ma anche per tutti quelli che hanno visto i pericoli annessi a una mancanza di educazione storica) ne segue che nulla deve essere trascurato come possibile occasione e stimolo di approfondimento storico. Dal punto di vista dell’insegnamento il problema non è tanto quello di scegliere il giusto punto di accesso alla storia, quanto quello di trovare comunque il modo di risvegliare l’interesse per essa.

Ho invece più volte notato che proprio tale interesse viene mortificato dalla spiegazione causale. Il nesso fra premesse e conseguenze, oltre ad appa- rire spesso astratto, induce a non cogliere gli elementi di novità o a ritenerli puramente illusori; mi pare che il ricorso alle ‘concause’, in quanto puro ripudio delle spiegazioni ‘monocausali’, non migliori molto la situazione, dato che non costituisce una reale alternativa alla riduzione naturalistica che minaccia ogni spiegazione causale. Domando allora se non si possa considerare scientificamente accettabile insistere sull’irriducibile novità che si incontra nella storia, sul carattere originariamente inventivo che si deve porre come spiegazione anche di grandi realizzazioni storiche. È, ad esem- pio, possibile presentare il Comune come frutto di un impegno inventivo della società medievale ?»

RISPOSTADI G. SERGI: Muovo dall’ultima questione sollevata dal pro- fessor Regina: sono lieto che anche a lui paia positiva la crisi della ‘spiegazione causale’ in storia, ma devo forse eccepire qualcosa sul suo pessimismo circa le ‘concause’ e sul suo ottimismo circa le invenzioni e le novità in storia. Sul primo aspetto occorre dire che il rilevare, in ambito storico, la crisi delle spiegazioni ‘monocausali’ non significa affermare una generica ricerca di pluralità di cause concorrenti. La storiografia, certamente anche per il serio influsso strutturalistico, è andata elaborando concetti di ‘interazioni’ o di ‘interferenze’ che ri- servino spazio all’analisi di fattori, elementi strutturali di una società considerati in primo luogo nella loro separatezza, e valutati in un secondo tempo nelle loro potenzialità di convergere o contrastarsi, affiancarsi in un momentaneo equilibrio o ‘disturbarsi’ dando luogo a fasi precarie, magari molto produttive nella loro precarietà. Non nego la possibilità dell’invenzione umana: ma è uno del fattori che interagi- sce con numerosi altri, e sono perplesso sulla possibilità di riconoscerle una funzione trainante. II caso del Comune medievale, che è stato scelto come esempio, è tipico. Tutti gli studi più aggiornati hanno superato da tempo la visione del Comune come grande novità sociale, politica e istituzionale della nostra civiltà medievale: visione romantica e risorgimentale, che molta fortuna ebbe ancora all’inizio del secolo

XX. I lavori più seri ne sottolineano la profonda connessione con la realtà signorile tradizionale, il ricorso spregiudicato alla strumentazio- ne feudale (di cui non segna affatto il superamento), l’atteggiamento spesso tutt’altro che liberale nei confronti dei più poveri abitanti del contado. Certo, è un contenitore idoneo per forze sociali emergenti (penso ai ceti mercantili) e a definirlo concorrono anche elementi di novità, ma non è il ‘frutto di un impegno inventivo’. Ammetto che era più bello, forse più confortante pensarlo così: ma non a caso, nel- l’introdurre le dispense di un mio corso universitario, mi è avvenuto di insistere sull’opportunità che l’insegnamento della storia servisse a dare «strumenti, e non soddisfazioni»58

Sono invece d’accordo sull’opportunità di tentare tutto nel campo delle occasioni e degli stimoli dell’approfondimento storico. Ricono- sco questo orientamento come uno degli aspetti migliori della teoria delle linee di sviluppo di Jeffreys: la fase dello stimolo. Far studiare ad esempio la rivoluzione industriale partendo da una gita fatta con gli studenti in un opificio abbandonato: questo fa parte del paesaggio mentale normale dello studente, suscita curiosità a rigore non stori- che, ma consente di sfruttare una originale tensione all’apprendimento adatta non solo alle «linee» di Jeffreys, ma anche all’approccio verso aspetti sincronici, ‘orizzontali’, di società passate con cui lo studente può avere facili identificazioni. Nell’esempio qui fatto è evidente il bisogno di correttivi alle «linee di sviluppo»: un bisogno che nasce da una preoccupazione che in generale ho sul tema degli stimoli all’ap- prendimento storico. Ogni stimolo è cioè da giudicare positivo, a patto che il ricorso a esso non divenga elemento di selezione aprioristica di ciò che interessa della sto ria: è sempre nemica della conoscenza storica la selezione privilegiata solo di quei temi che sono ‘sentiti’ a livello di massa nelle singole – e mutevolissime – fasi della storia culturale dei giorni nostri59. Le società passate e i frammenti delle società passate

devono essere studiati per il solo fatto che sono esistiti: momenti e aspetti della realtà complessiva da conoscere sempre più a fondo. L’imperativo dello scienziato è più onnicomprensivo delle motivazioni del generico uomo di cultura.

58 G. Sergi, Istituzioni medievali. Anno accademico 1980-81, Torino 1980, p. 6.

59 Da qui la mia militante avversione per la pratica giornalistica di occuparsi di aspetti del passato quando un evento del presente suggerisca la domanda: Id., Un decalogo per le

recensioni di storia dall’esperienza di un periodico di cultura, in La recensione. Origini, splendori e declino della critica storiografica (= “Storiografia”, I, 1997), a cura di M. Mastrogregori,

L

A STAGIONEDEI SEMINARI

:

ILASCITICULTURALI

Una certa fama negativa dei seminari universitari degli anni succes- sivi al Sessantotto è, in alcuni casi1, ben poco giustificata: forse per-

ché quelli ben fatti non facevano notizia e – il mestiere di storici ce lo conferma – sono le notizie, e non i fatti in sé, a lasciare traccia nella memoria2. A una consistente domanda studentesca di disci-

pline medievistiche (in contrasto con la tendenza a occuparsi solo di contemporneità), alcuni docenti di Torino risposero con seminari caratterizzati da due scelte centrali: realizzare un sempre più stretto rapporto tra didattica e ricerca, e raggiungere al tempo stesso, con queste operazioni specialistiche, anche quegli studenti i cui interessi culturali non erano specificamente orientati verso il medioevo. Le fasi di questi seminari, in continua evoluzione per quanto atteneva alle tecniche di conduzione, si richiamavano a una sorta di metodologia pragmatica applicata alla didattica: la scelta dell’ambito della ricerca, l’ impostazione del lavoro, la determinazione, la critica e la descrizio- ne delle fonti, la ‘spiegazione’, il raffronto con le formulazioni teori- che, la sintesi finale. Concretamente, scelto un problema e una zona

1 A. Prosperi, C. Ginzburg, Giochi di pazienza. Un seminario sul «Beneficio di Cristo», Torino 1975, a cui rinvio per le mirabili procedure di svolgimento; qui mi limito ad alcune osservazioni sulle premesse di metodo.

2 Del resto già durante l’occupazione di Palazzo Campana nell’autunno del 1967 uno dei gruppi di studio (dal titolo «Contenuti e metodi delle facoltà umanistiche», se ne dava conto in M. Gallina, G. Sergi, Contributo per un esame storico del movimento studentesco

a Torino, in «Il dialogo. Quaderni di dialogica e umanità», 14-15, 1968, pp. 79-95) pur

molto attivo durante l’occupazione, nei mesi seguenti fece parlare di sé soltanto per essere assegnato in modo critico al campo «socialdemocratico» per il suo atteggiamento propo- sitivo: G. Ortoleva, Introduzione alla sezione su Torino (facoltà umanistiche), in Documenti

della rivolta universitaria, Bari 1968 pp. 229, 248; la vera transizione verso una didattica

partecipata è piuttosto successiva: Lettere dall’università, a cura di L. Muraro, P. A. Ro- vatti, Napoli 1996.

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campione a un tempo ristretta e significativa, si procedeva a letture generali d’ inquadramento del periodo, dei problemi e del territorio in esame; seguiva una parte intermedia, la più significativa del seminario, in cui il gruppo lavorava su fonti o su lavori scientifici specifici usati convenzionalmente alla stregua di raccolte di dati; la parte finale del semi nario contemplava la comparazione dei risultati con risultati di ricerche condotte su zone diverse e, procedura molto importante, il ritorno alle opere generali lette all’ inizio dell’anno per verificarne e ridiscuterne le conclusioni.

Con l’attenta applicazione di questi criteri non si giungeva certo a risultati scientifici originali, ma si sono sempre compiuti apprezzabili progressi sul piano della formazione critica dello studente e dell’acqui- sizione di concreti strumenti di ricerca. Dopo alcuni anni di sperimen- tazione, tuttavia, mi convinsi che qualcosa era da migliorare sul piano più generale. Alcuni miei seminari avevano un difetto in comune con la più tradizionale delle lezioni, presumevano cioè di rivolgersi a uno studente culturalmente neutro, eludevano completamente il problema dei diversi retroterra di formazione. Invece un medievista che non si orienti, preliminarmente, verso un pubblico di studenti già animati da vocazione specialistica, deve prendere atto di sedimenti culturali di varia origine, discuterli e inquadrarli. Chi ritenga che il cosiddetto ‘spessore storico’ sia requisito indispensabile della formazione non solo del futuro insegnante e del futuro operatore culturale deve valo- rizzare una fase preparatoria della sua didattica, una fase di iniziazione in cui largo spazio abbiano le operazioni di chiarimento concettuale (penso all’introduzione sull’uso corrente del termine feudalesimo da Boutruche preposta al suo Seigneurie et feodalité) o di critica dell’ im- magine del medioevo diffusa fuori del mondo dei medievisti (è qui d’obbligo ricordare il coraggioso tentativo di Giosuè Musca e della rivista «Quaderni medievali», durata per un ventennio). È importante indurre al più presto lo studente a definire con chiarezza, in positivo o in negativo, la reale consistenza della sua domanda di conoscenza del passato, e la qualità di tale domanda.

Continuo a ritenere che questo compito – nonostante le riforme universitarie anche radicali – spetti all’ università e agli specialisti. C’è stata infatti abbondanza di elementi di confusione sul rapporto fra ricerca storica e didattica proprio in quegli ambiti, come i corsi di aggiornamento, che dovrebbero essere preposti al perfezionamen- to di tale rapporto. Preoccupa il fatto che la maggior parte degli enti organizzatori abbia spesso scelto la strada del puro e semplice ciclo di

conferenze, intervenendo solo sui contenuti e non sulle motivazioni dell’ insegnamento. Preoccupa in misura anche maggiore il fatto che alcuni enti locali (come la Regione Lombardia e la Provincia di Berga- mo), analizzando con originale impegno il problema dell’ insegnamen- to della storia nelle scuole medie, abbiano alla fine degli anni Settanta affidato l’indagine e la redazione del materiale didattico a linguisti, psi- cologi e epistemologi, trascurando del tutto gli storici di mestiere. Gli anni successivi hanno introdotto correttivi importanti3, valorizzando

la specificità della storia nell’insegnamento con periodici come «Viaggi di Erodoto» e, molto di recente, «Mundus». Non è, quest’ultima, una soddisfazione corporativa: è piuttosto la constatazione che l’assenza di storici non impedisce il formarsi di precise concezioni storiografiche – pur raggiunte per via non storiografica – che non di rado pretendo- no di condizionare addirittura la libera sperimentalità della ricerca. Secondo l’indagine interdisciplinare lombarda cui sopra accennavo la ricerca storica serve alla didattica e alla formazione solo se condotta con criteri epistemologicamente definiti «nomotetici», usando cioè leggi storiche generali come ipotesi di lavoro per la comprensione degli spe- cifici aspetti delle società passate. Non è certo una posizione nuova – è evidente il richiamo a quelle che Karl Popper definisce «quasi-teorie» – ed è presente come ispirazione di fondo anche nell’opera di Jeffreys, che per altro con la sua teoria delle linee di sviluppo nell’insegnamento della storia abbiamo visto essere stato di grande utilità in larga parte della sperimentazione degli anni Settanta4.

I medievisti hanno indubbiamente la responsabilità di essersi confrontati poco con problemi di definizione concettuale della loro ricerca. Ma non è segno di crisi aver rinunciato in parte notevole a schemi interpretativi di matrice ideologica. Questa convinzione mi in- duce a dissentire rispetto all’orientamento nomotetico, perché ritengo che compito politico-culturale dello storico sia da un lato combattere contro certo intuizionismo radicato nella cultura italiana, ma anche, d’altro canto, contro gli apriorismi e le ricerche della regolarità. In sede di uso sociale dell’insegnamento della storia, solo evitando questi rischi si rende possibile un reale sperimentalismo culturale e si age- vola l’acquisizione di capacità critiche usabili da parte del laureato in

3 Un’officina della memoria. Percorsi di formazione storica a Pavia tra scuola e università.

Omaggio a Giulio Guderzo, a cura di A. Brusa, A. Ferraresi, P. Lombardi, Milano 2008

(= «Annali di storia pavese. Fonti e ricerche storiche», nuova serie). 4 Si rinvia al capitolo precedente.

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Lettere, figura professionale polivalente già prima della più recente articolazione in corsi di laurea.

«Nella storia come nella vita verità e complessità procedono sem- pre insieme», scrive Léopold Genicot all’inizio di un suo saggio5.

Un progetto di rapporto con la storia che costringa lo studente a confrontarsi con la complessità6 è sempre stato ben vivo nel lavoro

di molti di noi. La realizzazione del progetto può spesso essere stata carente appunto per l’insufficiente superamento di sempre nuovi con- dizionamenti culturali. II proposito di rimediare a queste carenze ha per me ulteriormente valorizzato la scelta del seminario. La lezione è di solito un’operazione molto onesta, è un’ottima esplicitazione del metodo storico adottato dal docente-ricercatore, ma è per sua natura priva di meccanismi psicologici di relazione: in concreto, non costringe il docente a confrontarsi con la realtà culturale dei suoi interlocutori. Il seminario invece non solo fa partecipare gli studenti ai procedimenti stessi della ricerca, ma interviene meglio sulle basi di formazione dello studente, su frammenti spesso inconsapevoli della sua cultura: è l’applicazione didattica di quella che, in sede di introduzione, ho definito «storiografia percettiva»7. Nel seminario

l’apprendimento di tecniche e contenuti dell’indagine storica non si innesta confusamente sulla concezione storiografica che ogni studen- te ha, per quanto nascosta e generica, ma su una nuova e meditata consapevolezza critica. Perché il seminario possa conseguire questo risultato deve arricchirsi di una prima fase in cui questi problemi siano esplicitati e discussi.

Quali sono quei condizionamenti, quelle prevenzioni, quei luoghi comuni, quegli atteggiamenti mentali propri di una cultura corrente cui ho finora più volte accennato? Quali, se è lecita una metafora, le patologie che non si esorcizzano con la sovrapposizione delle nostre ricerche ma si guariscono con la discussione critica sugli scopi del no- stro lavoro? Proviamo a delinearne una rapida tipologia, privilegiando, rispetto agli specifici errori, quegli atteggiamenti mentali significativi della domanda sociale di storia non contemporanea dagli anni Ses- santa ad oggi.

5 L. Genicot, Études sur les principautés lotharingiennes, Louvain 1975, p. 12.

6 Per aspetti applicativi si veda D. Balestracci, Medioevo italiano e medievistica. Note

didattiche sulle attuali tendenze della storiografia, Roma 1996; R. Dondarini, Lo studio e l’insegnamento della storia medievale. Spunti di riflessione su questioni preliminari e di metodo,

Bologna 1996.

È in primo luogo da ricordare il cosiddetto ‘presentismo’, l’inte- resse limitato alla contemporaneità, allo studio della quale gli stu denti chiedevano, per lo più, strumenti da usare nell’intervento poli tico: era questo il presentismo degli anni Sessanta, a suo modo ancora abbastanza qualificato, nutrito di motivazioni semplicistiche ma non prive di una loro dignità8. Negli anni Settanta il presentismo si è poi

dequalificato e spoliticizzato, si è imparentato con quella ‘commisu- razione ai fini’ della ricerca, così presente, in modo per lo più non brillante, nella cultura americana del dopoguerra. In compenso, così dequalificato, il presentismo è entrato in crisi9, è divenuto tendenza

di minor rilievo, nei piani di studio di ogni facoltà di Lettere. Le materie storiche hanno ripreso a essere di nuovo molto presenti. L’ insegnamento di discipline medievistiche poteva dunque contare su una nuova disponibilità culturale degli studenti.

Un altro sedimento culturale è da collegare con la crisi dell’inse- gnamento medio. In troppi casi l’insegnante, pur consapevole della sua funzione ideologica, ha scelto la strada, che gli appariva ‘impe- gnata’, del puro e semplice rovesciamento dell’ottica ritenuta tradi- zionale: è classico l’esempio della storia romana non più insegnata come storia di un’espansione civilizzatrice, ma come storia di un popolo imperialista. La povertà metodologica di questo rovesciamento era evidente nell’adozione di parametri ideologicamente opposti ma qualitativamente identici per porre lo studente in rapporto con la conoscenza storica. Così non di rado lo studente arrivava (in parte arriva) all’università con concetti semplificati e qualunquistici di pro- gressismo storiografico, e ne è ben poco responsabile: oltre ad alcuni insegnanti, i grandi mezzi di comunicazione di massa sono stati ben più determinanti ed efficaci dei movimenti giovanili nel diffondere una facile sottocultura. Anche questo, tuttavia, era un orientamen- to non così profondamente radicato da non poter essere facilmente combattuto.

8 Nulla era più lontano, nella maggioranza dei movimenti studenteschi, dell’idea di una cultura ‘gratuita’ che non fosse ‘commisurata ai fini’: P. Ortoleva, Saggio sui movimenti del

1968 in Europa e in America, Roma 1988, pp. 83 sgg., 171 sgg.

9 Non entra invece in crisi, si espande anzi al massimo negli ultimi anni, il «presenti- smo» nella diversa accezione di M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Torino 2009, secondo il quale la continua sottolineatura in sede comunicativa dell’eccezionalità di ciò che avviene nel presente fa venir meno del tutto la collocazione degli eventi in una prospettiva storica (secondo l’autore il «nuovo regime di storicità» rinuncia alla spiegazione dei fatti e legge la contemporaneità come contenitore di svolte non più confrontate con quelle, eventuali, del passato).

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I due atteggiamenti più diffusi nella cultura corrente, e quindi fra gli studenti, verso l’insegnamento della storia, sono entrambi informati a quello che in sede epistemologica è chiamato «idiocentrismo»: la com- misurazione di ogni contenuto a sé, alle proprie esperienze, alla propria realtà sociale, da parte dell’ individuo che si rivolge alla storia.

II primo atteggiamento, prevalente nella cultura del dopoguerra, consiste nel rivolgersi alla storia per conoscere realtà diverse da quella contemporanea del la società occidentale, realtà da considerare in ogni caso arretrate, pro ve semplificate dell’ inevitabilità e soprattutto dell’ unidirezionalità del progresso. I soggetti di questa operazione cono- scitiva usano istintivamente la categoria detta del «distanziamento»10

e operano una strumentalizzazione ottimistica e provvidenzialistica dello studio della sto ria. La propria singolare esperienza e il presente conosciuto sono rigidi parametri per valutare la differenza dal passato: è questa la prima for ma di idiocentrismo.

II secondo atteggiamento, divenuto forse dominante nelle scuole a partire dalla fine degli anni Sessanta, consiste nel cercare nella storia gli elementi di permanenza, le conferme di convinzioni desunte non già dalle nuove letture, ma dall’esperienza quotidiana. È questa la matrice di osservazioni banali e generalizzanti, che a ogni insegnante è capitato di cogliere: i contadini sono sempre stati sfruttati, i ricchi hanno sempre avuto il potere, e così via. Di nuovo ci troviamo di fronte all’uso inconsapevole di una cate goria conoscitiva, quella dell’ «assimilazione»11. Dietro questo atteggia mento c’è non tanto una ge-

nerica cultura marxista, quanto un’ancor più generica ispirazione o populistica o buonsensistica. Chi è così orien tato ben raramente fa