La distinzione fra storia e memoria, ben chiara agli storici di profes- sione, illustrata nei dettagli pratici e teorici da molti esperti, è difficile da suggerire persino ai più illuminati operatori culturali, anche perché – quando hanno responsabilità politiche locali – possono imporre lo- devoli iniziative di conservazione del passato solo in quanto riescano a dimostrarne l’ ‘utilità’ a fini identitari e, più in generale, di ‘memoria’ di una comunità.
La distinzione non ha confini cronologici, ed è quindi valida an- che per la storia contemporanea, come ha magistralmente dimostrato Marc Bloch nel suo La guerra e le false notizie, dove ben risulta che una pratica pur onesta di raccolta delle testimonianze può allontanare dalla ricerca della verità1. Non c’è dubbio che storia e memoria ap-
paiono due ‘generi’ inconfrontabili soprattutto se ci si occupa di storia precontemporanea e, quindi, i terreni della storia orale non risultano percorribili. Esistono anche in questo caso le versioni cosiddette tràdite del passato (cioè le leggende, le narrazioni popolari, l’erudizione fatta di ipotesi): tuttavia l’esperto sa che queste versioni non devono – è vero – essere ignorate (devono infatti essere analizzate in sé come prova di culture dotte o folcloriche di lunga durata), e tuttavia sono spesso da rimuovere se lo scopo è un altro, cioè avvicinarsi alla conoscenza del frammento di passato a cui si vuole risalire.
Nella progettazione di un museo o di una mostra, com’è noto, occorre conferire efficacia alla ricezione del suo messaggio, introdu- cendo o meccanismi di “conferma” di ciò che un visitatore più o
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meno confusamente già conosce, oppure altri e diversi meccanismi che stimolino la “meraviglia” rispetto a parti del passato che sono del tutto ignorate e, in quanto tali, stupiscono2. Molti musei locali sono
criticati dagli storici perché scelgono soltanto la prima e più facile strada. I visitatori sono soddisfatti quando osservano, per esempio, un utensile domestico, e possono dire di ricordarne personalmente uno simile presente o addirittura in uso nella casa dei nonni: ma – obiet- tano gli storici – questa non è un’operazione formativa, non ‘insegna’, si limita a dare soddisfazioni3. Un museo della vita quotidiana è utile
e ha valore proprio se sottolinea invece diversità e cronologie; se non conferisce l’impressione sbagliata che esista un passato tutto uguale fino alla rivoluzione industriale e poi un altro, di nuovo tutto uguale, fino alla rivoluzione tecnologica del Novecento. Si può obiettare che “sapere qualcosa” è meglio che non sapere nulla: ma se il “qualcosa” è sbagliato è poi più difficile da rimuovere, e noi ce ne rendiamo ben conto nell’insegnamento universitario (non a caso, su certi periodi del passato, preferiamo studenti tabula rasa a studenti con una volenterosa cultura scolastica fondata su pregiudizi).
Le fonti precontemporanee si prestano quindi a sviluppare l’altro stimolo, quello della meraviglia: scoprire che le piramidi egizie non erano costruite da schiavi4 o che l’economia altomedievale non era
“chiusa” (né fondata sul baratto)5 può sorprendere e determinare, di
conseguenza, prima un surplus di attenzione poi una curiosità volta ad acquisire ulteriori informazioni. Occorre, ovviamente, collaborazione fra le parti: l’esperto mette a disposizione le sue competenze, fa da guida alla lettura della fonte; l’operatore culturale deve tradurne gli esiti senza opporre resistenze che possono nascere da tradizioni loca-
2 Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, a cura di I. Karp, S. D. Lavin, Bologna 1995.
3 Una delle conseguenze della «nuova ignoranza» di cui parla l’antichista Maurizio Bettini, quando denuncia le conoscenze «sempre create per un’occasione, favorendo la formazione di stereotipi che rispettano più le attese del destinatario che la libertà e l’originalità del destinatore (…) rischiamo di precipitare in una società culturale tutta fatta di performances. In questo modo la trasmissione del sapere diventa (…) doppiamente ‘occasionale’, e quindi deformata» («La Stampa», 8 ottobre 1997); critico sul potere deformante dell’ ‘occasione’ è W. M. Johnston, Celebrations. The Cult of Anniversaires in Europe and The United States
Today, Somerset 1991; un raffinata analisi sulla genesi della celebrazione delle ricorrenze
anche in ambiti privati in J.-C. Schmitt, L’invention de l’anniversaire, in «Annales», 248 (juil.-ao. 2007), pp. 793-835.
4 L’uomo egiziano, a cura di S. Donadoni, Roma Bari 1990.
5 P. Toubert, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, Torino 1995, pp. 115-252.
li consolidate o, anche, da interessi turistici. A chi organizza alcuni riti carnevaleschi nati nell’Ottocento (ma con la pretesa di riproporre situazioni medievali) non fa piacere divulgare la provata assoluta ine- sistenza di uno ius primae noctis medievale6: eppure dovrebbe farlo,
pur mantenendo il suo carnevale e semplicemente sottolineando che il movimento popolare lì rievocato può essere pensato come reazione a un abuso signorile, non a un “diritto” consuetudinario.
Ma ci sono casi meno rimediabili. Mi è avvenuto di tenere una conferenza in un comune del Torinese particolarmente fiero di es- sere menzionato in un diploma dell’imperatore Ottone III del 1001. In quell’occasione spiegai che il luogo di Giaveno era solo una delle trenta località citate, che l’imperatore aveva fatto redigere dal suo cancelliere il diploma sostando in un luogo lontanissimo (vicino a Civita Castellana), che il marchese di Torino destinatario della con- ferma di un terzo dei suoi beni in Giaveno conseguì qualcosa che già aveva e che, soprattutto, si vide garantita l’immunità di un suo pieno possesso e non di un feudo: di conseguenza, non aveva prestato alcun giuramento vassallatico (anzi, il marchese non era neppure presente alla stesura del documento)7. La dimostrazione non poteva piacere
a un gruppo locale che, con la scusa di elevare il livello culturale degli abitanti, si prefiggeva di instaurare una rievocazione in costume in cui l’imperatore fosse presente nel luogo, si occupasse soltanto di Giaveno e “investisse” solennemente il marchese del presunto feudo, con tanto di cerimonia rappresentata, ovviamente, con scarsa aderenza alla realtà rituale di quel periodo. Negli anni successivi la messinscena che non è neppure folclorica (perché creata ex novo) si è sviluppata e ha ricevuto il riconoscimento del CERS (Consorzio Europeo Rievoca- zioni Storiche), un ente con sede a Venezia che non è dotato di alcun comitato scientifico, che non è in grado di esercitare il benché minimo controllo di attendibilità e che, tuttavia, è citato con successo come credenziale per ottenere finanziamenti pubblici. La mia dimostrazione è stata invece oscurata come una verità fastidiosa.
Del resto, perché ci si dovrebbe stupire? Il comune di Tonco, nell’Astigiano, è stato doverosamente avvertito da uno storico mol- to accreditato (Renato Bordone) di due errori di una sua fortunata
6 A. Boureau, Le droit de cuissage. La fabrication d’un mythe. XIIIème – XXème siècle, Paris 1995.
7 G. Sergi, Trattamento delle fonti precontemporanee fra storia e memoria, in Spazio, memoria
ed identità in ambiente urbano (Atti del Convegno del Centro di documentazione e Interpre-
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manifestazione in costume. Il rito del sacrificio di un tacchino non può essere medievale (come è noto i tacchini sono stati importati dal nuovo mondo). Inoltre, il corteo con l’orgogliosa esibizione di Gerardo, fondatore dell’ordine gerosolimitano, come fosse nativo di Tonco si fonda sulla lettura sbagliata e un po’ ridicola di una fonte: il cronista Guglielmo di Tiro dice “tunc (allora) hospitale regebat” e non vuole affatto riferirsi alla località dell’Astigiano, ma dare solo un’indicazione temporale, poi volutamente forzata da falsificatori di documenti fra Cinquecento e Ottocento8. Ebbene, gli amministratori
locali prendono queste due rettifiche come un’offesa, le ritengono di disturbo al turismo e proseguono come prima.
Sono casi minimi – su cui si può sorridere – di «invenzione della tradizione». Questi esempi hanno tuttavia il pregio sia di illustrarci la capillarità locale di certe procedure di manipolazione del passato, sia di farci assistere alla consapevole operazione deformante in diretta: senza dover risalire all’Ottocento, come è invece costretto a fare lo storico inglese Eric Hobsbawm quando si occupa della più ‘alta’ e impegnativa invenzione delle tradizioni nazionali9.
Le strumentalizzazioni del passato lontano sono forse meno do- lorose, ma non meno pericolose politicamente di quelle della storia recente. Ogni comunità può scegliere, nel passato, come propria «età dell’oro» (concetto tecnico usato dagli esperti di sociologia storica) 10,
un periodo anziché un altro. È ben difficile che quella comunità scel- ga un periodo in cui non era dominante e in cui non limitava libertà altrui: quindi i Croati scelgono una certa età e i Serbi un’altra, Parma preferisce il secolo XI dei Canossa e Milano l’età viscontea (quando i Visconti dominavano anche su Parma). Se tutti i consorzi umani potessero riprodurre nel presente la loro età dell’oro non basterebbe il sistema solare a contenere le loro ambizioni11. Ecco perché il concetto
stesso di identità è da giudicare pericoloso, da maneggiare con cura12:
8 Se ne dà conto in R. Bordone, La medievalizzazione del tempo festivo, in Il teatro della
vita. Le feste tradizionali in Piemonte, a cura di P. Grimaldi, L. Nattino, Torino 2009, pp.
97-106.
9 Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo cit.
10 A. D. Smith, Le origini etniche delle nazioni, Bologna 1992, p. 148 sgg.
11 Oltre, parte quinta, dialogo con Beniamino Placido; cfr. l’importante base teorica di E. Zerubavel, Mappe del tempo, trad. it. Bologna 2004.
12 J.-L. Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, trad. it. Torino 1999; F. Remotti, Contro l’identità, Roma Bari 1996; M. Aime, Eccessi di culture, Torino 2004. Che simili indirizzi di pensiero siano riconducibili a comprovati dati di fatto, e non a volontà di ‘correttezza politica’, risulta anche da riflessioni su una realtà geografico-sociale di forte isolamento come il Giappone: T. Kozakai, L’étranger, l’identité.
per questa ragione la storiografia professionale diffida dell’erudizione volta a celebrare ‘radici’ e ‘glorie patrie’, mossa da amore per una terra e non per la verità. Meglio abbandonare del tutto la nozione di identità (secondo i suggerimenti degli antropologi Francesco Remotti e Marco Aime) o almeno essere pronti ad analizzare ‘identità variabili’ e a interrogarsi su quali motivazioni spieghino la prevalenza, oggi, di radici che si richiamano a una fase storica piuttosto che a un’altra.
I rischi ci sono, se pur in misura ridotta, anche nella ricerca sto- rica, mentre compie gradualmente i suoi progressi. Un certo modo ‘regressivo’ di guardare al passato è in qualche misura inevitabile (le domande dello storico nascono almeno in parte dalla sua esperienza del presente), ma non deve essere elevato a metodo, per non cadere in deformazioni prospettiche per cui si interpreta il passato più lontano come semplice preannuncio di ciò che si è realizzato dopo. I medie- visti, ad esempio, sanno bene che il millennio medievale è per lo più immaginato, tutto, come era nei suoi ultimi due secoli (quindi con la peste del 1348 e con le corti signorili, con le carestie e con i tornei, con i castelli residenziali e con gli addobbamenti cavallereschi)13.
È errore da evitare con accorgimenti di taratura dei procedimen- ti interpretativi. Un esempio è fornito da Torino e dalla sua storia. Nessuno avrebbe concepito (come invece hanno fatto l’Accademia delle Scienze e l’editore Einaudi) un’opera in nove volumi sulla storia torinese se Torino non fosse quello che è stata nell’ultimo secolo e mezzo14. L’operazione in sé è giustificata soltanto dal presente, perché
dall’antichità alla prima età moderna Torino era demograficamente di peso scarsissimo. Dopo il progetto la ricerca è stata condotta cor- rettamente, e ogni singola fase è stata valutata in sé, senza pensare al ‘dopo’; gli storici coinvolti si sono comportati come antropologi ‘nel tempo’ (anziché ‘nello spazio’) pronti a calarsi nella diversità e capir- la. L’accuratezza di queste procedure si è poi in gran parte perduta nella sintesi che è stata condotta, in occasione delle recenti Olimpiadi
Essai sur l’integration culturelle, Paris 2001; non c’è dubbio tuttavia che è facile emerga una
funzione pedagogica a forte impronta ideologica, che enfatizza sul piano didattico alcune novità della ricerca, come emerge da alcuni contributi di Rencontre de l’histoire et rencontre
de l’autre. L’enseignement de l’histoire comme dialogue interculturel, a cura di M. H. Idrissi,
Rabat 2007 (= «Horizons universitaires», III/4); invece è ispirata a fiducia nel mestiere di storico deciso ad abbandonare un’impostazione etica l’opera di D. Bidussa, Dopo l’ultimo
testimone, Torino 2009.
13 Sergi, L’idea di medioevo cit., pp. 21-25.
14 Id., Alle origini dei caratteri della città, in Storia di Torino, I: Dalla preistoria al comune
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invernali, da Geoffrey Symcox e Anthony Cardoza, nella loro Storia di Torino (sempre di Einaudi)15: singolo volume che dichiara di voler
essere un sunto dei nove precedenti, ma in realtà ne prescinde in gran parte e non manca di cadere – per le parti antica e medievale – in seri fraintendimenti (che non si possono gabellare come espedienti comunicativi di una storiografia anglosassone che, invece, mai come negli ultimi anni, nelle sue espressioni migliori sta diventato tecnica e addirittura iniziatica).
Se torniamo, com’è doveroso, alla precedente grande opera – ma quanti operatori culturali e quanti insegnanti lo faranno, tentati co- m’è comprensibile dal singolo successivo volume? – si vede bene che un insediamento può avere «centralità», anche per molti secoli, pur senza avere peso demografico-produttivo. Con quei seri accorgimenti studiare Torino è servito a valorizzare, attraverso la comparazione, Vercelli, Asti, addirittura (e molto) Chieri. Un’operazione positiva, dunque: con il rischio tuttavia di stimolare effetti negativi, come fasti- diose rinfocolate fierezze provinciali di sedicente ‘cultura’ di centri che oggi dal capoluogo si sentono trascurati. Su questo non ci può essere ricetta rassicurante: lo storico fa il suo mestiere, se poi operazioni politico-culturali di dubbia legittimità ne sfruttano i risultati può, al massimo, mettere in campo un po’ di vigilanza. È più grave quando i risultati di quel mestiere sono del tutto ignorati.
Le difficoltà non sono poche, legate soprattutto all’ardua collabo- razione fra parti diverse. Negli anni Ottanta la Regione Piemonte co- stituì un Comitato Alpi Occidentali – composto da storici, archeologi e storici dell’arte dell’università – per promuovere la ricerca storica di qualità16. L’idea era quella di garantire un particolare accesso ai
finanziamenti a quei progetti di ricerca che ricevessero una sorta di «marchio di qualità» dal comitato di esperti. Nessuno, nel periodo suc- cessivo, volle assoggettarsi a questo giudizio. Fu un fallimento totale, il Comitato si sciolse perché risultò evidente che studiosi e gruppi locali erano contrari a sottoporsi a quel tipo di controllo.
Ma torniamo ad aspetti propositivi. Un’altra importante differenza fra passato e presente è legata alla memoria dei luoghi e alla nozione di spazio. Più si va indietro nel tempo più i ‘gruppi umani’ hanno maggior peso rispetto alla nozione collettiva, in qualche caso istitu-
15 A. L. Cardoza, G. Symcox, Storia di Torino, Torino 2006.
16 Ne facevano parte, oltre a chi scrive, Gisella Cantino Wataghin, Giovanni Romano, Sergio Roda, Angelo Torre.
zionale, dello spazio. Per i Longobardi la compagine dei sudditi di un duca era ben più chiara dell’idea (pressoché inesistente) dei confini spaziali del ducato17. Questo tipo di prevalenza, del tutto estranea
alla nostra cultura contemporanea, ha ancora sue manifestazioni nel tardo medioevo: ci sono casi di carte di franchigia concesse a una comunità di cui si prevede anche l’eventuale spostamento in altro sito. Ricerche storico-antropologiche recenti – non prive di aspetti progettuali – lavorano sulla cosiddetta «memoria dei luoghi»18: cioè
su quanto i luoghi sono in grado di trasmettere alla mentalità di chi (per sostituzione, aggiunta o stratificazione) via via in quei luoghi si insedia, creando una sorta di cultura locale condivisa anche quando manca una tradizione umana trasmessa per più generazioni. È ciò su cui ovviamente può lavorare la politica locale che si propone di ‘crea- re’ un’identità, a fini di coesione sociale e di comune investimento sulla tutela ambientale e artistica. Qui l’identità inventata non sembra corrispondere a un’operazione né arbitraria né abusiva, perché fa dei cittadini, con le loro diversità d’origine e nei diversi spazi, i custodi di beni di valore indiscusso, sia che si tratti di tracce del passato più lontano o di archeologia industriale.
Lo storico precontemporaneo, dunque, mette a disposizione non soltanto quello che sa sul piano del contenuto, ma anche i delicati ac- corgimenti esegetici necessari per fonti come epigrafi, testi agiografici, cronache, statuti, verbali dei consigli comunali, fonti giudiziarie, cata- sti, atti notarili, registri parrocchiali. Gli operatori culturali – quando si propongono di valorizzare il passato di una regione, di una città, di un quartiere – devono essere disponibili a un’operazione condotta insieme con gli esperti: ‘riscoprire’ senza inventare.
17 G. Sergi, La territorialità e l’assetto giurisdizionale e amministrativo dello spazio, in Uomo e
spazio nell’alto medioevo (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo,
L), Spoleto 2003, pp. 479-504.
18 M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, trad. it. Milano 1993; Id., Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino 2004, ha sottolineato soprattutto gli aspetti negativi della perdita di quella «memoria»; pagine analitiche e propositive in D. Lowenthal, The Heritage Crusade and the Spoils of History, Cambridge 1998. Il concetto qui proposto è da tenere distinto da quelli di «luoghi della memoria» sviluppato soprattutto da P. Nora, Entre mémoire et historie. La problématique des lieux, in Les lieux de mémoire, I: La
République, a cura di Id., Paris 1984; sul piano più generale non si può condividere l’im-
postazione di chi ritiene la storia «scienza del tempo» e non anche dello spazio (Historicité
et spatialité. Recherches sur le problème de l’espace dans la pensée contemporaine, a cura di J.