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LA TRANSIZIONE VISTA DAL BASSO: FRA MEDIOEVO E ANTICO REGIME

Si sa che «medioevo» è una convenzione cronologica (la sua fine è tradizionalmente collocata al 1492), ed è quindi ovvio che frequente- mente si considerino in modo unitario i problemi di storia locale che sono ai confini della periodizzazione, fra il Trecento e il Seicento.

Sulla base dei temi sviluppati finora in questa ‘parte seconda’, sappiamo che un’insidia si nasconde nello studio di qualsiasi qua- dro politico regionale constatabile negli ultimi anni del medioevo e nell’antico regime, cioè nell’età moderna precedente la rivoluzione francese: il rischio di leggere quel quadro politico come esito di lunghi e statici secoli precedenti. Come se l’età moderna, quando presenta connotati feudali, non fosse altro che l’eredità di tutto il medioevo postcarolingio.

In questa ricostruzione sbagliata, ma ancora largamente circolan- te1, i protagonisti sono fissi e corrispondenti a un facile immaginario:

un signore locale che comanda perché è un «feudatario», un principe a lui superiore che gli ha interamente delegato – con poche eccezioni – il potere locale e, sopra tutti, un re che poco si interessa di vicen- de che si svolgono alla periferia del suo Stato. La geografia politica regionale può essere poi ulteriormente complicata da piccole zone di esenzione e di immunità di chiese e monasteri.

Nel primo secolo dell’età moderna e nell’ultimo del medioevo può davvero essere così: tuttavia non soltanto non è così prima, ma dobbiamo anche considerare che i percorsi attraverso cui si arriva a quell’esito sono decisivi per comprendere il funzionamento capillare 1 J. Markoff, The Abolition od Feudalism. Peasants, Lords and Legislators in the French

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delle locali gerarchie di potere. È decisivo, soprattutto, tenere conto che prima del Trecento c’era ben poco di feudale e che, in partico- lare, è molto più ‘moderno’ che non medievale l’uso di comperare per denaro diritti che dovrebbero essere pubblici: anche per questa ragione – se pur all’interno di stati nazionali o regionali formalmente più strutturati – il massimo frazionamento dei poteri cosiddetti feudali si raggiunge tardi, e più in età moderna che non nel medioevo2.

Alla vigilia della rivoluzione francese i feudatari mantenevano po- teri considerati ingiusti e arbitrari per la sensibilità del primo Sette- cento3. Qualche esempio: la tassa detta legnaticum per consentire di

far legna nei boschi, il monopolio a pagamento di attrezzature come forni e mulini, il diritto di imporre lavori di manutenzione di strade e mura, il diritto-dovere di giudicare reati minori, alcuni pedaggi. Si chiamavano «bannalità», perché permaneva l’uso del termine «banno» che, nell’alto medioevo, indicava il potere più grande di tutti, quello assoluto del re o dei suoi ufficiali, in grado di insinuarsi nella vita quotidiana dei sudditi. Dopo la crisi del potere di quegli ufficiali (conti e marchesi), fino a tutto il secolo XIII i signori locali erano per lo più signori ‘di banno’, titolari di un potere completo, non ricevuto per feudo ma costruito di fatto e con energia intorno ai loro castelli.

Questi potenti – vera caratteristica di gran parte del medioevo – con il trascorrere del tempo dovettero riconoscere la supremazia di principi territoriali come i Savoia. Spesso feudalizzarono a poste- riori il loro potere, per apparire legittimati agli occhi dei sudditi, che cominciavano a contestare ciò che a loro appariva come frutto di un’arbitraria consuetudine. Si è visto che lo strumento per continua- re come prima ma in modo più legittimato era il ‘feudo oblato’: un ricco e potente signore locale donava i suoi possedimenti al principe ma li riceveva immediatamente indietro in forma feudale, in cambio di un giuramento di fedeltà vassallatica. Questi nuovi feudi (il «feudo di signoria» bassomedievale, spesso definito nelle fonti feudum rectum et nobile) contenevano esplicitamente il diritto di esercitare signoria sugli abitanti: esattamente come prima, ma questa volta in forma ufficiale4. Il principe era dunque il senior e il signore locale (dominus

2 Ago, La feudalità in età moderna cit.; Albertoni, Provero, Il feudalesimo cit.; Cartografia

del Monferrato. Geografia, spazi interni e confini in un piccolo Stato italiano tra Medioevo e Ottocento, a cura di A. B. Raviola, Milano 2007; Lo spazio sabaudo. Intersezioni, frontiere e confini in età moderna, a cura di Ead., Milano 2007.

3 Tabacco, Il feu dalesimo cit.; Sergi, L’idea di medioevo cit.

loci) era il vassus, in un rapporto che riproduceva antichi usi franchi, quando tuttavia avere terre beneficiarie-feudali non implicava affatto l’esercizio di giurisdizione, ma solo ricchezza fondiaria.

I nuovi feudatari per qualche tempo sono potenti come quando erano signori territoriali di banno, poi, a poco a poco, la loro nuova condizione di vassalli li conduce a un restringimento dei loro diritti: poiché questi sono oggetto di costante contrattazione, nel ridefinirsi di generazione in generazione delle fedeltà vassallatiche, i principi man- tengono progressivamente per sé le prerogative maggiori (la giustizia «alta», per le cause più importanti, il diritto di convocare all’esercito, i pedaggi più importanti e le tasse di protezione più remunerative), mentre agli ex-signori ormai feudatari rimangono diritti minori. A questi diritti minori si applica spesso la definizione «bannalità»: con ricorso, per ironia della storia del lessico, proprio al termine che, secoli prima, indicava il potere più importante di tutti. Il fatto è che i secoli centrali del medioevo avevano fatto prevalere, nella mentalità collet- tiva, una corrispondenza fra poteri «bannali» e poteri «signorili locali». Quando questi secondi si svuotano e si impoveriscono, l’aggettivo «bannale» rimane a essi legato. Le bannalità sono ormai considerate diritti ‘di poco conto’ e, in campo politico, cominciano ad affermarsi il sostantivo «banalità» e l’aggettivo «banale» nell’accezione odierna: cose ‘da poco’, appunto, diritti ovvi e non prestigiosi, pur sempre da combattere o cancellare, ma non di grande importanza. Da qui l’idea di «banale» si espande a tutti gli altri settori del vivere sociale, ed è una bella prova di quanto si possa dedurre, talora, dalla storia di una parola5.

Nell’esempio specifico qui scelto, S. Antonino di Susa, è dunque nella transizione verso questi poteri locali più flebili (e feudalmente vincolati verso l’alto) che dobbiamo collocare il potere su S. Antonino dei Calcagno prima e dei Pullini poi. Sulla transizione, s’è detto, non alla fine del processo di depotenziamento: proventi rilevanti ci sono ancora, il prestigio sociale rimane molto alto. Ma spetta agli storici dell’età moderna il compito di illuminare il peso locale di questi veri feudatari. Il medievista deve risalire al periodo precedente, e fornire alcuni elementi di inquadramento di una valle di Susa ‘veramente’ medievale, da non immaginare anacronisticamente in modo simile a quando S. Antonino era ormai un feudo di cui i Savoia potevano 5 G. Sergi, Villaggi e curtes come basi economico-sociali per lo sviluppo del banno, in Curtis

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disporre, facendo i propri interessi e limitandosi a rispettare alcuni delicati equilibri locali.

Quali erano stati, dal secolo X in poi, gli elementi caratterizzanti la media valle di Susa dal punto di vista dell’esercizio dei poteri?

Dalla metà del secolo X alla fine del secolo XI, negli anni de- gli imperatori Ottoni e dei loro successori, il potere in valle era dei marchesi di Torino6, tutti appartenenti alla medesima dinastia (gli

Arduinici, neppure parenti del famoso re Arduino d’Ivrea). Questi marchesi, che possedevano un castello a Susa ma governavano da Torino, capoluogo della marca, avevano una specie di doppia perso- nalità istituzionale: erano ufficiali regi sostituibili (e alcuni documenti provano questa possibilità) ma, al tempo stesso, agivano da grande dinastia ereditaria, in grado di controllare alcune zone (la valle di Susa fra queste) per l’abbondanza delle loro presenze fondiarie e per una ben strutturata egemonia signorile. Poteri signorili con altri titolari si stavano formando sotto il loro superiore controllo: sia di domini laici sia di enti religiosi. In particolare proprio fino a Vaie si estendeva la signoria politica di un’abbazia, quella di S. Giusto di Susa, che era legata ai marchesi che l’avevano fondata e che poteva essere conside- rata un vero ‘monastero di famiglia’. Da Vaie verso sud-est diventava forte la presenza signorile (prestigiosa ma circoscritta) degli abati di S. Michele e poi, proseguendo verso la valle, si imponeva progressi- vamente un mosaico di signorie locali.

Dalla fine del secolo XI la marca torinese si sfaldò e in valle di Susa subentrarono i Savoia, di nuovo mescolando poteri ufficiali (erano conti del regno transalpino di Borgogna) e intraprendenza dinastica7:

non solo, infatti, potevano rivendicare l’eredità patrimoniale di una parte dei beni arduinici, ma vi aggiungevano anche il ruolo di prote- zione-controllo dell’abbazia di S. Giusto di Susa, che avevano ereditata dai marchesi e che ben funzionava come centro di organizzazione del consenso. Nel secolo XII fino ad Avigliana arrivava il potere sabaudo, fronteggiato in pianura dal principato temporale del vescovo di Torino, che aveva il suo caposaldo occidentale nel castello di Rivoli8. Questa

6 G. Sergi, I confini del potere. Marche e signorie fra due regni medievali, Torino 1995, pp. 56-188; Id., Il secolo XI: Torino in una circoscrizione-principato, in Storia di Torino cit., I, pp. 427-463.

7 Id., La Valle di Susa medievale: area di strada, di confine, di affermazione politica, in Valle

di Susa. Tesori d’arte, Torino 2005, pp. 37-44.

8 G. Castelnuovo, Il territorio, in Storia di Torino cit., I, pp. 696-714; M. Saracco, Rivoli

medievale. Identità comunitarie tra vescovi e Savoia, Savigliano 2003; D. Pedroni, Ambiva- lenza funzionariale e signorile nel Duecento: i «domini» di Moncucco, avvocati della chiesa di

ripartizione riguardava l’alta giustizia e i poteri maggiori: il livello infe- riore, quello dei domini loci, brulicava sempre più di ripartizioni e nuove affermazioni, con protagonisti (dai visconti di Baratonia ai signori di Caselette, dai signori di Chiusa al permanente potere di S. Michele9)

che accettavano di essere inquadrati, dall’alto, dai due grandi principi territoriali in concorrenza, i vescovi e i Savoia. La selva di giurisdizioni diverse e intrecciate che si riscontra nella zona di Vaie, S. Antonino e S. Ambrogio è molto istruttiva circa la complessa ‘normalità’ del secolo XIII10: solo sulla strada principale, sul percorso della via Francigena,

è indiscusso il potere esclusivo dei conti di Savoia.

Nuove fondazioni religiose, come la certosa di Monte Benedetto, diventarono potenti e ricche sulle pendici montuose della media val- le, ma con connotati in parte nuovi: puntavano molto sulle rendite dell’agricoltura e della pastorizia, controllavano i contadini delle loro terre, mentre si preoccupavano meno di essere ‘signori’ e di esigere tasse di origine pubblica su intere compagini di sudditi11.

Nel 1280 i Savoia arrivarono a Torino e, da quel momento, si può dire conclusa la competizione con il vescovo e il comune torinese12.

I principi organizzavano la loro dominazione ricorrendo a veri funzio- nari (i castellani, titolari di solito per una annualità delle «castellanie», vere nuove circoscrizioni del principato) che, risiedendo per la nostra area nei castelli di Susa e di Avigliana presiedevano alla giustizia, or- ganizzavano gli armati, riscuotevano tasse e pedaggi, dirimevano le liti

Torino e castellani di Rivoli, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», CIII (2005),

pp. 39-150.

9 Quadro generale in G. Sergi, Potere e territorio lungo la strada di Francia. Da Chambéry a

Torino fra X e XIII secolo, Napoli 1981; esempi specifici in A. Tarpino, Tradizione pubblica e radicamento signorile nello sviluppo familiare dei visconti di Baratonia, in «Bollettino storico-

bibliografico subalpino», LXXIX (1981), pp. 5-66; S. Pozzati, Dinastizzazione breve in un

passaggio istituzionale: i signori di Reano (secoli XI-XIII), in «Bollettino» cit., CIII (2005),

pp. 513-552; G. Sergi, L’aristocrazia della preghiera. Politica e scelte religiose nel medioevo

italiano, Roma 1994, pp. 31-54, 73-120; E. Donà, Decano abate di S. Michele della Chiusa,

in «Bollettino» cit., XCIII (1995), pp. 671-694. I livelli diversi di giurisdizione si vedono bene in S. Bani, Un’identità comunitaria sotto molti padroni: Bardonecchia nella storia, Bar- donecchia 1998.

10 P. Cancian, Principato e «dominatus loci»: una ridefinizione giudiziaria dei loro rapporti

alla fine del secolo XIII, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», CII (2004), pp.

223-284.

11 Guida alla certosa di Monte Benedetto e al Parco dell’Orsiera-Rocciavré, Torino 1995;

Certose di montagna, certose di pianura. Contesti territoriali e sviluppo monastico (Atti del Con-

vegno internazionale di Villar Focchiardo, Susa, Avigliana, Collegno, 13-16 luglio 2000), a cura di S. Chiaberto, Borgone di Susa 2002.

12 G. Casiraghi, Vescovi e città nel Duecento, in Storia di Torino cit., I, p. 683 sgg; E. Artifoni, Il gioco politico-diplomatico dall’autonomia al comune non libero, ibid., p. 696.

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e, in più, amministravano anche i beni privati della famiglia sabauda (non a caso i conti delle castellanie, con la registrazione delle entrate e delle uscite, sono tra le fonti più preziose per la storia medievale valsusina)13.

Questo quadro ci consente di schematizzare quante e quali cate- gorie di potenti (genericamente potenti) si trovino nella valle di Susa bassomedievale: 1) i principi di Savoia, titolari dei poteri superiori; 2) i castellani, funzionari sabaudi sostituibili; 3) i signori territoriali ‘di banno’ o domini loci, castellani anch’essi ma in altro senso (non funzionariale ma ereditario), inclusi nel controllo del principato ma con forte peso sui loro sudditi; 4) gli enti religiosi con poteri signorili del tutto assimilabili a quelli dei domini laici; 5) i grandi possessori fondiari (laici e religiosi) che non esercitano poteri signorili ma che ovviamente gravano sulla vita dei coloni che coltivano le loro terre.

Con il tempo, come abbiamo spiegato in precedenza, i signori territoriali laici (già inquadrati per ragioni ‘pubbliche’ nel principato sabaudo), accettarono di essere soggetti ai principi anche in forma privata, diventando loro vassalli: attraverso il giuramento di fedeltà rinforzavano (con il consenso superiore) la continuità della loro loca- le influenza, sottraendola a possibili contestazioni (e solo per questo poi, soprattutto nell’età moderna, sono noti come «feudatari»). Abati e priori titolari di signorie locali di egual natura di quelle laiche non giuravano invece fedeltà, non erano vassalli, ma esercitavano i mede- simi poteri ed erano egualmente inseriti – se pur con qualche mag- giore spazio di formale immunitas – nella rete di governo dei principi: ne sono prova i conflitti per cui, ad esempio, gli abitanti di Giaveno contestano il potere signorile dell’abate di S. Michele reclamando l’autorità diretta del castellano sabaudo di Avigliana14.

Consideriamo insieme le cinque categorie di potenti sopra indivi- duate, e osserviamole dalla prospettiva degli abitanti della valle. Tutti sapevano che in alto (una sorta di istanza superiore a cui si poteva anche fare ricorso cercando il suo arbitrato) c’erano i principi sabaudi rappresentati dai loro delegati, i castellani. Ogni famiglia contadina

13 A. Barbero, Il ducato di Savoia. Amministrazione e corte di uno stato franco-italiano, Roma Bari 2002; G. Castelnuovo, Principati regionali e organizzazione del territorio nelle Alpi

occidentali: l’esempio sabaudo, in L’organizzazione del territorio in Italia e in Germania: secoli XIII-XIV, a cura di G. Chittolini, D. Willoweit, Bologna 1994, pp. 81-92; C. Guilleré,

J.-L. Gaulin, Des rouleaux et des hommes: premières recherches sur les comptes de châtellenie

savoyard, in «Études savoisiennes», 1 (1992), pp. 51-108.

aveva poi sopra di sé un potere signorile locale (laico o religioso) a cui doveva obbedienza e alcune tasse per il solo fatto che abitava in un certo luogo, e quegli obblighi vigevano anche per chi fosse piccolo proprietario e non coltivasse terra altrui. C’era anche il caso (piuttosto frequente) che una famiglia contadina avesse in conduzione la terra di un grande possessore (e quindi a questo pagasse l’affitto della terra e fornisse prestazioni lavorative obbligatorie) ma si trovasse a risiedere in un territorio governato (governato, non posseduto) da un altro dominus, a cui doveva versare i diritti signorili, tasse di protezione, di mantenimento di fortificazioni, strade, armati ecc. che sono, per lo più, il prolungamento tardomedievale degli antichi regàlia, cioè i diritti pubblici degli ufficiali regi.

Indubbiamente è un quadro molto meno semplice di quello che si immagina quando si suppone che un grande ‘feudatario’ medievale non sia altro che un latifondista che ha ricevuto da un senior pubblico, re o principe, un feudo territoriale compatto su cui esercitare non solo lo sfruttamento economico ma anche il potere15. Questo deve

indurci, nel leggere documenti della fine del medioevo o della prima età moderna, a prestare grande e differenziata attenzione ai diversi diritti, obblighi e pagamenti che vi sono citati.

Mettiamo subito in una categoria a parte le decime. La decima del raccolto era dovuta – come fosse il pagamento di un servizio – a chi garantiva il funzionamento della chiesa in cui si andava a messa, in cui ci si sposava, si battezzavano i figli, in cui si celebravano le esequie. Quando la chiesa era normalmente inserita nell’ordinamen- to per pievi16 (sia prima sia durante l’articolazione in parrocchie) la

decima era riscossa dal pievano e finiva, in parte, nelle casse vesco- vili. Per la nostra sensibilità questa sembra essere la sola condizione normale: ma non era così allora. Sin dall’alto medioevo molte chiese erano «propriae» (private)17: aperte a tutti e da non confondere con la

nozione moderna di «cappella privata», servivano a garantire una capil- lare distribuzione dei servizi religiosi, potevano essere di una famiglia signorile, di un monastero (che di per sé non avrebbe dovuto avere incombenze ecclesiastico-pastorali, le aveva solo se possedeva chiese), addirittura alcune chiese erano private perché erano di una sede vesco-

15 Questa, come si è visto, è l’immagine divulgata (ma adatta solo alla Polonia dei Sei- cento) dal libro di Kula, Teoria economica cit.

16 G. Casiraghi, Le strutture della diocesi, il capitolo cattedrale, la cura d’anime, in Storia

di Torino cit., I, pp. 521-535.

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vile (fornivano cioè proventi al patrimonio della mensa episcopale, al di fuori e in più rispetto alla normale amministrazione della diocesi). Poiché un abitante della valle di Susa doveva pagare la decima alla sua chiesa, colui che la percepiva era il titolare di quella chiesa, che poteva essere diverso sia dal pievano sia dal signore del luogo: e, soprattutto, dobbiamo ricordare che la direzione che le decime prendevano può dirci ben poco sulla geografia politica locale.

Sono poi da considerare le tasse18: sia quelle che esistevano dal-

l’età carolingia (albergaria, fodro, pedaggi o telònei, e vari diritti d’uso come pontaticum, piscagium, aquaticum, boscagium ecc.) che erano state fatte proprie dal nuovo titolare signorile del banno un tempo regio; sia le tasse di protezione (taglia o questus, soprattutto) che il signore aveva creato perché così si faceva pagare (per famiglia, focaticum, o per singolo individuo, testaticum) il mantenimento di fortificazioni e masnade e si vedeva riconosciuto nella sua autorità; sia, infine, alcuni ‘monopòli’, cioè l’obbligo di usare mulini, forni, frantoi signorili con pagamento di un corrispettivo per lo più in natura, cioè nelle stesse materie prime (cereali, pani, olive, noci) che venivano elaborate. Ta- lora il dominus chiedeva anche a tutti i sudditi del suo territorio delle prestazioni d’opera di interesse collettivo: restaurare strade, mura del castello, argini.

Diversi dalle tasse e con un percettore che può essere un altro (cioè il locale possessore fondiario) sono i canoni fondiari, cioè i versamenti con cui le famiglie contadine pagavano quello che, semplificando, si può definire l’affitto della terra che coltivavano. Questi canoni avevano varie definizioni (censi, livelli, enfiteusi, precàrie) e l’erudizione storica di un tempo le confondeva, con grande facilità, con le tasse, commet- tendo un errore grave che non aiutava a capire la vita delle campagne e i rapporti di forza che in esse vigevano. Si tendeva (e talora ancora si tende) a considerare i pagamenti tutti insieme, creando confusione fra possesso della terra ed esercizio della signoria. Allo stesso modo le corvées (le prestazioni d’opera che il contadino doveva sulle terre del padrone che aveva dato a lui dei campi in gestione) sono frequente- mente intese come tasse o come imposizioni signorili, quando in realtà erano un modo per pagare ‘in lavoro’ una parte dell’affitto.

Nell’età moderna lo Stato, nazionale o regionale, avocò sempre più a sé i diritti maggiori (fossero essi di origine pubblica o inizialmente 18 Provero, L’Italia dei poteri locali cit.; G. Pasquali, La condizione degli uomini, in Uomini