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Tra lunga durata e periodizzazione

REGIONI ALPINE E PROBLEMI DI METODO

1. Tra lunga durata e periodizzazione

Le scienze sociali sono spesso partite, nelle loro analisi delle popola- zioni alpine, dalla considerazione della loro scarsa mobilità e dal- l’analisi di quanto quel rimanere ‘ferme’ abbia potuto incidere sui cambiamenti di qualità della vita quotidiana. Sintomo della prevalenza di queste domande è la frequente riflessione sulla definizione di homo Alpinus: una definizione che ha le sue radici in Strabone, secondo cui

1 Ha valore di bilancio G. Rossetti, Premessa alla ristampa, in Spazio, società, potere nel-

l’Italia dei comuni, a cura di G. Rossetti, Napoli 1993 (Europa mediterranea. Quaderni, 1)

pp. IX-X; importante punto d’arrivo in Le Alpi medievali nello sviluppo delle regioni contermini, a cura di G. M. Varanini, Napoli 2004 (Europa mediterranea. Quaderni, 17).

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Rezi, Vennoni, Leponzii e Tridentini vivevano di rapine, e lasciavano intonso qualche villaggio ai piedi dei monti solo per garantire mercato ai loro prodotti. Perché questa cattiva fama riceva una correzione oc- corre attendere il Cinquecento, quando un umanista di Zurigo, Iosia Simler, scrive con ben diversa ispirazione il De Alpibus e si impegna a celebrare la «res publica Helvetiorum»2. Un orgoglio alpino del tutto

nuovo, nato nell’antico regime, conduce a un rovesciamento di valori ben percepibile in leggende – diffuse dal Piemonte al Trentino, ispi rate al mito dei saperi tradizionali – nelle quali l’uomo dei campi appare come uno stolto che, a differenza dell’ homo silvaticus, non riesce a ricavare la cera dal siero di latte3.

A partire dagli anni Settanta, il dibattito sull’ homo Alpinus e sul suo scenario di vita è variamente attraversato da due posizioni preva- lenti. Una è quella di ispirazione deterministica di Niederer, che nel 1979 af ferma che «l’ambiente alpino modella gli uomini attraverso i loro vari tipi di attività» (ci sono i pastori puri ma sono numerosi gli agricoltori-alpigiani): nella vita alpina avrebbe un’importanza speciale la forza fisica, si realizze rebbe la massima aderenza a «metodi speri- mentati» (per la considerazione istintiva dei grandi fattori di rischio, i margini d’errore tollerato sarebbero più stretti rispetto alla pianura), il conservatorismo mentale si manifesterebbe partico larmente perché la sperimentazione risulterebbe pericolosa4. Un cattivo raccolto, in-

somma, determina nelle zone montuose una miseria immediata: l’abi- tante delle Alpi vive drammaticamente questa consapevolezza e ne è condizionato.

L’altra importante posizione è quella funzionalista di Christian Fruhauf: poco interessato agli elementi stabili del paesaggio, lo stu- dioso ri tiene decisiva non l’antropizzazione dello spazio bensì la sua «socializza zione». I paesaggi sarebbero insomma determinati dai rap- porti sociali di pro duzione5.

Lo studioso che in tempi recenti si è posto più esplicitamente la do manda «esiste l’homo Alpinus?» è Anselm Zurfluh, che risponde

2 I. Simler, De Alpibus. Commentario delle Alpi, a cura di I. Milanesi, Firenze 1990. 3 P. Sereno, Il bosco: dello spazio sociale o della natura inventata, in Gli uomini e le Alpi

– Les hommes et les Alpes (Atti del Convegno di Torino, 6-7 ottobre 1989), a cura di D.

Jalla, Torino 1991, p. 26.

4 A. Niederer, Mentalità e sensibilità, in Storia e civiltà delle Alpi. Destino umano, a cura di P. Guichonnet, Milano 1984, pp. 105-156.

5 C. Fruhauf, Forêt et société. De la forêt paysanne à la forêt capitaliste en Pays de Sault

affermati vamente assumendo una netta posizione antifunzionalista6.

Lo storico svizzero, analizzando il cantone di Uri, mette in rilievo la mancanza di rivolte politiche a partire dal 12917; l’assenza di processi

di industrializzazione che abbiano il centro nel cantone; un’adozione molto tarda, in piena età contemporanea, del controllo delle nascite (il dato interpretabile in chiave più antifunziona lista è appunto la compre- senza di ristagno economico e di progresso demo grafico). In tutto ciò Zurfluh individua un atteggiamento mentale-ideologico, dipendente in misura ridotta dalla precettistica ecclesiastica e in maggior misura collegabile con una «consapevolezza mitica della popolazione», adatta a elidere il «conflitto culturale» verticale fra ceti. Gli abitanti delle Alpi avrebbero tendenza a non rifiutare il progresso degli «oggetti», ma a ri fiutare i loro effetti ideologico-spirituali, almeno fino agli anni Sessanta del Novecento: solo l’efficacia dei mezzi di comunicazione di massa spieghe rebbe le più recenti inversioni di tendenza. È importante sottolineare che l’esistenza dell’ homo Alpinus riceve da Zurfluh, per ispirazione niedere riana, una risposta affermativa sul piano antropo- logico e non etnologico: lo studioso è ben consapevole della pluralità di popolazioni che convergono sulle Alpi – nel medioevo ciò risulta con trasparenza – e del resto lo stesso determi nismo di Niederer è geografico, climatico e ambientale, non etnico8.

Nel quadro di questo dibattito come, secondo le scienze sociali, si mani festano storicamente le strutture familiari e la sociabilità in area alpina? Secondo Robert Burns9, in studi degli anni Sessanta, le

«strutture familiari complesse» sono «uno dei tratti distintivi dell’area culturale alpina». Sulla definizione di quella «complessità» e sulla pos- sibilità di articolarne una tipo logia ha poi lavorato Viazzo, sulla base di dati del secolo XIX10: agli estremi della tipologia troviamo famiglie

nucleari nell’alto Vallese e grandi famiglie congiunte nella valle della Stura di Demonte. Solo nel Piemonte meridio nale, secondo Viazzo, 6 A. Zurfluh, Gibt es den Homo Alpinus?, II, in «Geschichte und Region – Storia e re- gione», I/2 (1992).

7 Id., La questione economica e demografica a fronte della men talità arcaica nel Cantone di

Uri (secoli XVII e XVIII), in L’autonomia e l’am ministrazione locale nell’area alpina, a cura

di P. Schiera, R. Gubert, E. Balboni, Milano 1988, pp. 185-199.

8 Si veda anche A. Niederer, Economia e forme di vita tradizionali di vita nelle Alpi, in

Storia e civiltà delle Alpi cit., pp. 9-104.

9 R. Burns, The Circum-Alpine Area: a Preliminary View, in «Anthropological Quarterly», 36 (1963).

10 P. P. Viazzo, Casa, famiglia e comunità nelle Alpi occidentali, in Gli uomini e le Alpi cit., pp. 76-89; Id., Upland Communities. Environment, Population and Social Structure in the Alps

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è applicabile il modello di Chayanov, fondato su ela sticità di risposte e ampia disponibilità di risorse: tipico in questo senso è l’abbondante ricorso al legno, materiale di costruzione leggero, che comporta per le popolazioni alpine una costante possibilità di decidere e di ridefinire i propri insediamenti. Ma il modello non funziona nel Vallese, per il quale Robert Netting11 ha messo in rilievo una «inelasticità» evidente

nella mag giore rigidità delle strutture sociali e nel minor movimento complessivo. Dal confronto fra le due realtà risulta la considerazione di Viazzo che fa giusti zia di un luogo comune dello specifico alpino: la famiglia estesa non è altro che la soluzione provvisoria in fasi di espansione demografica, non si tra duce in nuovi stabili usi di lungo periodo perché corrisponde a una «attesa» della caduta della tensione demografica.

Questo per la famiglia: e le comunità alpine, definite di solito come «corporate e chiuse» ? Nel Piemonte lato sensu preindustriale c’è mag- giore uniformità delle strutture familiari alpine e le comunità risultano più egua litarie perché si registra una quantità maggiore di elementi di uso comune; ma occorre prendere atto che in Svizzera molte comunità non sono né cor porate né chiuse. Il dibattito, come si può constatare, si fonda su dati collo cabili alla vigilia della contemporaneità: è doveroso per gli storici non dare mai per scontata, neppure su questi temi, una lunga durata non provata da riscontri precisi, ma si può ammettere che riflessioni di questo ordine sug geriscano aperture di ricerca utili anche per il medioevo e l’antico regime.

La stessa prudenza e la stessa curiosità devono animare gli sto- rici in tema di sociabilità. Esiste un modello alpino di sociabilità? Gérard Collomb risponde affermativamente ed elenca le seguenti ca- ratteristiche: maggior peso storico dell’istituzione comunitaria; forme di sociabilità legata a forme di gestione del tipo degli alpeggi; reti di relazione meno mobili rispetto alla pianura; forte peso dell’istituzione familiare e maggior tenuta dei sistemi pa rentali; maggior ‘centratura’ sul villaggio d’origine e maggior orgoglio di identità12. La comunità

alpina avrebbe insomma meccanismi regolatori e normalizzatori di lungo periodo diversi rispetto a quelli di pianura.

11 R. M. Netting, Household Dynamics in a Nineteenth Century Swiss Village, in «Journal of Family History», 4 (1979).

12 G. Collomb, Une sociabilité “alpine”? Promenade villageoise, in Gli uomini e le Alpi cit.; il maggior orgoglio identitario è stato in qualche misura verificato anche in contingenze recenti (sopra, cap. VI della parte prima).

Lo storico che si rivolga alle scienze sociali si trova dunque di fron- te a definizioni di modelli prevalenti di famiglia e di comunità e, se pur attra verso percorsi differenziati, di fronte a una risposta positiva circa l’esistenza dell’ homo Alpinus. Nel dibattito socio-antropologico a cui ho accennato al l’inizio sembra si possa individuare una prevalenza del funzionalismo nel l’analisi della dimensione sociale e del determinismo nell’analisi della di mensione economico-ambientale13. Lo storico non

può essere disinformato ri spetto a questi orientamenti di discipline di- verse, ma non può non ricomin ciare da zero: perché anche una posizio- ne seria come quella di Niederer si presta purtroppo a far convergere elementi disparati e a funzionare come contenitore di luoghi comuni. Nulla è più lontano dal lavoro dello storico di quella cultura delle pe- culiarità che ha generato il concetto di eternel mon tagnard: un insieme di stereotipi alpini senza tempo, ispirati a omogeneità e stabilità, che per le ricerche storiche in fase di impostazione potrebbe fun zionare come un vero disvalore euristico. Con parole diverse è stato proprio uno storico, Jean-François Bergier14, ad avvertirci: lo stereotipo di

comunità alpina è «seducente per lo spirito», ancorato nella tradizione etnografica, e per questo condiziona gli studi anche di coloro che ne hanno criticato il funzionalismo. Dagli stessi studiosi di Alpi passati in rassegna prima si pos sono ricavare inviti alla vigilanza: Viazzo in- dividua nelle ricerche alpine il difetto di una «lettura eccessivamente funzionalista della dimensione so ciale» e l’uso esclusivo, come punto d’osservazione, della comunità15. Collomb invita a studiare le Alpi

tenendo conto di uomini – e quindi di individui – che si muovono su una pluralità di «registri»16: per la pianura già lo facciamo, perché fare

scelte di metodo diverse solo perché saliamo di quota?

Non solo in tema alpino credo che, come abbiamo già affermato17,

lo storico debba rinunciare a fare il futurologo e non debba deri vare ‘progetti’ di tipo politico-sociale dalle sue competenze. Eppure credo che i temi della storia alpina abbiano tratto parte della loro forza pro- prio da contemplazioni soddisfatte di realtà a un tempo marginali e semplificate, ricondotte a un eternel montagnard che da un lato sfiora il 13 J. Billet, Les Congrès d’économie alpine, témoins d’une pensée éco nomique régionale alpine?, in Specificité du milieu alpin? (Actes du XI collo que franco-italien d’histoire alpine, Greno- ble, 23-25 sept. 1985), Grenoble 1986.

14 J. F. Bergier, Le trafic à travers les Alpes et les liaisons transalpines du haut moyen âge au

XVIIIe siècle, in Le Alpi e l’Europa, III: Economia e tran siti, Roma Bari 1975. 15 Viazzo, Casa, famiglia e comunità cit.

16 Collomb, Une sociabilité “alpine”? Promenade cit. 17 Sopra, parte prima, cap. II.

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luogo comune, dall’altro scoraggia una ricerca storica empirica attenta alle diversità, alle evoluzioni differenziate, all’incidenza di fattori non specifica mente alpini. Penso a Pierangelo Schiera e all’individuazione di un «conso ciativismo positivo» come vocazione delle regioni alpine, una vocazione che potrebbe trovare libero sviluppo solo attraverso l’ «autonomia» di queste re gioni entro il sistema degli stati18. Penso a

Dorfmann quando afferma che «in un mondo che sopravvive a fatica ai margini di un universo votato alla con centrazione industriale, alla tecnologia pesante, al tailorismo, lo spazio al pino può divenire il luogo di un nuovo modello di sviluppo che adotta strategie complesse d’adat- tamento alle situazioni nuove, inventando nuove reti di prestazioni di servizi, privilegiando i legami e le interazioni fra i di versi settori, che diversificano e complicano i tessuti economici e sociali»19. Ecco, io

propongo che le ricerche alpine dei medievisti e degli storici dell’an tico regime – che hanno ancora molto lavoro davanti a sé – si svolgano con la necessaria calma e senza avere obiettivi come far sbocciare la voca zione all’autonomia politica o individuare un modello di sviluppo. Lavoriamo piuttosto a confermare o a correggere una periodizzazione come quella che provvisoriamente ci ha proposta Paul Guichonnet20:

Alpi chiuse fra i secoli IX e XI, Alpi semiaperte fra i secoli XI e XIII, Alpi aperte fra il XIV e il XV (con una tendenza alla nuova chiusura fra XV e XVI).