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L’INTEGRAZIONE FRENATA FRA GOTI E LATIN

I filologi fanno da sempre giustamente ricorso alla storia come a una scienza ausiliaria d’inquadramento delle loro ricerche. Ebbene, da qualche anno a questa parte si stanno imbattendo nei tormenti degli storici in tema di incontro latino-germanico1. Gli usi e abusi del passato

presuntivamente etnico delle nazioni fanno della storia altomedievale un campo su cui si esercita vieppiù la critica sistematica del modello essenzialista e biologico delle identità etniche2. Si nega, ovviamente,

che l’identità etnica abbia un’origine e poi esista per sempre, e si insiste sul fatto che quell’identità viene continuamente riprodotta, modifica- ta, recuperata attraverso numerose pratiche umane. L’applicazione di questo assunto alla storia dei Goti e più in generale all’alto medioevo deve molto alla cosiddetta «scuola di Vienna» (da Erwig Wolfram a Walter Pohl), a Patrick Geary e alle ricerche più recenti fra quelle di Stefano Gasparri3.

1 Appunto l’indicatore linguistico è messo in discussione da P. J. Geary, Il mito delle

nazioni. Le origini medievali dell’Europa, trad. it. Roma 2009, p. 43 sgg.

2 In parte ancora presente in A. D. Smith, L’origine etnica delle nazioni, trad. it. Bologna 1992; si veda ora, su vari problemi identitari, Europa in costruzione. La forza delle identità,

la ricerca di unità (secoli IX-XIII), a cura di G. Cracco, J. Le Goff, H. Keller, G. Ortalli,

Bologna 2006 (Atti della XLVI Settimana di studio del Centro per gli studi storici italo- germanici di Trento, 15-19 settembre 2003).

3 Oltre alla grande sintesi di H. Wolfram, Storia dei Goti, trad. it. Roma 1985, si segnala alla nostra attenzione Id., Origo. Ricerca dell’origine e identità in età altomedioevale, a cura di G. Albertoni, Trento 2008. Ricordo poi, limitandomi all’essenziale, le opere di W. Pohl,

Le origini etniche dell’Europa. Barbari e Romani tra antichità e medioevo, Roma 2000; Geary, Il mito delle nazioni cit.; S. Gasparri, Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni fra antichità e medioevo, Roma 1996, Id., Popoli etnie e regni nell’Europa medievale, in Svolte epocali a confronto. Origini e confini della civiltà occidentale, Pordenone 2000 (Europa e Regione, 47),

pp. 23-48, e, consultabile per ora nel sito «Reti medievali», Id., Culture barbariche, modelli

162 ANTIDOTI ALL’ABUSO DELLA STORIA

Per studiare i problemi di lunga durata delle identità etniche si presta molto bene il periodo tra la tarda antichità e l’alto medioe- vo: periodo di crisi d’identità, di cambio accelerato, dell’apparire di nuovi popoli e dello sparire di altri. Gli ‘ingredienti’ individuati dalle retroguardie delle storie nazionali nelle loro ricostruzioni erano attinti da fonti troppo diverse: la Germania di Tacito scritta intorno al 100 d.C., le leggi dei regni altomedievali, e le saghe nordiche trasmesse nel secoli XII e XIII. Si tratta di fonti che era ardito mettere in pa- rallelo. Diamo la parola a Pohl: «deve far riflettere che lo stesso nome Germani si perde dal momento in cui i popoli germanici entrarono nel territorio romano. L’alto medioevo non definiva come germanici i ceti dominanti dei regni dei Goti o dei Longobardi; solo i Franchi erano identificati qualche volta con i Germani dei secoli passati (ma esclusivamente). Non c’è da stupirsi, perché i Germani (nella nostra accezione del termine) del quinto o sesto secolo parlavano o lingue germaniche o il latino; erano pagani, ariani o cattolici; portavano nomi germanici, ma anche cristiani o latini; erano vestiti come i Romani o come barbari; combattevano nella maniera tradizionale, come cavalieri della steppa o come soldati romani; potevano comportarsi come bar- bari, come Romani educati o come Cristiani pii. Infine, non avevano nessun senso di solidarietà fra di loro, e non agivano mai insieme, anzi spesso erano rivali e nemici più feroci. Designarli tutti con un termine collettivo non aveva dunque molto senso per i contemporanei. Solo la filologia moderna ha scoperto un criterio oggettivo, la lingua, per identificarli»4.

È dubbio, tuttavia, che i contemporanei avessero consapevolezza della comunanza linguistica. Isidoro di Siviglia definiva le popolazioni germaniche come «variae armis, discolores habitu, linguis dissonae»5.

Solo Paolo Diacono nota che Longobardi, Bavaresi e Sassoni parla- vano la stessa lingua, e solo il dominio unitario costruito dall’impero carolingio creò le condizioni perché la comunanza fosse avvertita6.

4 La citazione è tratta da W. Pohl, Alla ricerca delle origini etniche: problemi d’identità fra

antichità e medioevo, seminario tenuto a Roma nel maggio 2003, e che risponde alle linee

di fondo di Id., Le origini cit.

5 Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini (Ethimologiarum libri, sive origines), a cura di Angelo Valastro Canale, Torino 2004, IX, 2, 97.

6 «Eiusdem linguae homines»: Pauli Historia Langobardorum, a cura di O. Holder-Egger, Hannover 1878 (MGH, Scriptores in usum scholarum), p. 81, I, 27. Sull’utilità di questo autore per confronti di civiltà cfr. Paolo Diacono. Uno scrittore fra tradizione longobarda e

rinnovamento carolingio (Atti del convegno internazionale di studi), a cura di P. Chiesa,

È anche arduo proporre una percezione bipolare del rapporto Romani-barbari. La stessa Italia romana è teatro, secondo Andrea Giardina, di una «identità incompiuta»7. E se Geary può efficacemente

affermare che il concetto di Germani è stata la più riuscita inven- zione della cultura romana8, fa bene Pohl a ricordarci che nell’Italia

altomedievale ‘Romani’ poteva significare persone diverse: gli abitanti della città, del ducato di Roma, i sudditi dell’esarcato bizantino o la popolazione indigena nei territori longobardi. La definizione serviva anche per distinguere i tempi lontani dell’impero, tempus Romanorum, dal tempus Langobardorum più recente.

Se si prendono in esame soltanto le operazioni storiografiche na- zionali compiute nell’Ottocento9 risulta che nei ragionamenti prevale

la pars destruens. Se si affrontano, invece, problemi di etnogenesi ben calati nell’alto medioevo, emerge un’interessante pars costruens, perché è evidente che per Goti, Franchi o Longobardi il problema si pone in termini assai diversi dalle identità soprattutto regionali e tribali della prima età imperiale. Queste ultime erano «comunità d’insediamento in un’area limitata» e da ciò discendeva che identità e alterità fossero «esperienze immediate, quasi della vita quotidiana»10. Attingendo le

categorie a Jan Assmann possiamo distinguere le «strutture etniche di base» dalle «forme di incremento» 11 e, quando erano in azione queste

ultime, dovevano entrare in azione delle «Kohärenzfiktionen» (finzio- ni di coerenza): elementi costitutivi di queste finzioni sono, secondo Assmann, le «figure di memoria fondamentali», che si possono far corrispondere alla «tradition» di Reinhard Wenskus e al «mythomoteur» di Anthony D. Smith12.

È compito degli storici quello di introdurre, in questa classificazio- ne, una variabile concreta e importante come la connessione stabile, durante l’ «incremento» e anche durante la possibile dispersione, tra

XIV congresso internazionale di studi sull’alto medioevo) in particolare G. Gandino, La

dialettica tra il passato e il presente nelle opere di Paolo Diacono, pp. 67-97.

7 A. Giardina, L’Italia romana. Storie di una identità incompiuta, Roma Bari 1997. 8 Geary, Il mito delle nazioni cit.

9 D. Mertens, La strumentalizzazione della Germania di Tacito da parte degli umanisti

tedeschi, in «Quaderni catanesi di studi antichi e medievali», n.s., III (2004), pp. 239-330,

ha recentemente dimostrato che l’equivalenza diretta Germani-Tedeschi nasce non nel- l’Ottocento nazionalista, bensì nel secolo XVI.

10 Pohl, Alla ricerca cit.

11 J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà

antiche, Torino 1997, pp. 102-107.

12 R. Wenskus, Stammesbildung und Verfassung. Das Werden der fruhmittelalterlichen gentes, Koln Graz 1961; Smith, Le origini cit., p. 69 sgg.

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le grandi famiglie dominanti, che mantengono contatti anche quan- do disseminano i loro radicamenti e che si imparentano fra loro con strategie matrimoniali. È compito degli storici non eludere, pur all’in- terno dell’indagine sulla gradualità del rapporto popoli-territorio, una questione fondamentale nello studio dell’etnogenesi: qual è il punto di accensione di una definizione di popolo? E una prospettiva di indagine che, se non appiattita sulla limitazione della storiografia novecentesca – tutta orientata all’individuazione dei miti d’origine – non deve essere abbandonata. È, infine, compito degli storici giudicare le singole fasi in contesti territoriali dati, quando un ceto dominante – più o meno identificabile con la definizione di una natio – costruisce schemi socio- istituzionali e modelli di convivenza.

Per questo scrivevo, all’inizio di questo capitolo, di «tormenti» degli storici. Perché alla doverosa dissoluzione di categorie superate non può seguire un semplice rovesciamento, in cui qualunque incontro fra popoli sia inserito in una prospettiva di pura diluizione. Perché è significativo l’itinerario personale di uno studioso come Gasparri, che con apprezzabile onestà intellettuale passa dallo sviluppo della nozione di Cultura tradizionale dei Longobardi (del 1983) al ben di- verso Prima delle nazioni (del 1996). Perché non si può non tener conto del fatto che i dati archeologici stanno dando luogo a una interessante dialettica fra gli archeologi più tradizionalisti e gli storici più innovativi13. Perché non è forse il caso di spingersi fino a negare

l’opportunità stessa della nozione di incontro latino-germanico (o meglio latino-barbarico).

L’uso storico dei dati archeologici è in profondo rinnovamento, soprattutto a proposito di Longobardi. Si riconosce che non ha base scientifica la contrapposizione dei Germani alti e dolicocefali ai Roma- ni tarchiati e brachicefali. Si riconosce che un corredo funerario con oggetti di fattura longobarda non consente di identificare necessaria- mente un ‘longobardo di stirpe’. Non solo perché oggetti tipicamente longobardi erano addirittura, nel corso del secolo VII, fabbricati a Roma, ma soprattutto perché «i corredi non erano lo specchio passivo della società dei vivi» e il «funerale (…) era il momento nel quale si esplicava al massimo grado la competizione sociale all’interno di una determinata comunità»14. Sono constatazioni e riflessioni convincenti,

13 Ne è testimonianza A. A. Settia, Una fara a Collegno, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino”, CIII (2005), pp. 263-276.

soprattutto per combattere l’illusione che a una etnicità fisica se ne possa comunque contrapporre una culturale ben identificabile.

Tuttavia sembra emergere una contraddizione quando si afferma che «non a caso i corredi longobardi diventarono molto più ricchi in Italia, dove la contrapposizione fra le nuove élites barbariche e quelle romano-bizantine fu, nei primi tempi, particolarmente dura, e dove la stessa lotta per il potere all’interno del nuovo regno fondato dai Lon- gobardi rimase particolarmente vivace nel corso di tutto il VII secolo (e anche oltre)», perché evidentemente si riconosce l’identificabilità di due diverse élites prima di un incontro-fusione pienamente realizzato nel secolo VIII. Insomma, il tema è delicato, non deve essere risolto con una semplice ‘impossibilità della distinzione’ e occorre dare il giusto peso ai dati cronologici, con la gradualità di incontri che in ogni caso comportano il riconoscimento di entità sociali riconoscibili come protagoniste in fieri dell’avvicinamento.

In questa luce sono convinto che di incontro latino-germanico (o almeno latino-barbarico) si possa ancora parlare, almeno per ragioni euristiche e senza caricare di elementi ‘dati’ e stabili le due componen- ti. Sono convinto che il peso conferito da Giovanni Tabacco all’editto di Astolfo del 750 sia in gran parte da confermare15. È l’editto in cui

si stabilisce che il diritto-dovere del combattimento non spetti più soltanto ai Longobardi ma si debba procedere per censo, coinvolgen- do negotiatores che più probabilmente appartenevano alle popolazioni italiche da generazioni. Certo, è vero, l’editto non era fondante di una nuova pratica sociale; certo, si può supporre che la norma prendesse atto di un procedere ormai normale nel secolo VIII: ma ciò non toglie importanza a un momento in cui la simbiosi non è più soltanto in cor- so, ma è ratificata. Soprattutto, giudicare la definizione «Longobardi» del secolo VIII come semplice indicatore del ceto dominante appare prodotto di una semplificazione storiografica, meno ingenua di quella ‘etnica’ del passato ma non per questo meno schematica.

Proviamo, su questa linea prudente16, a operare qualche confronto

nella logica di un incontro latino-germanico non cancellato nella sua dinamica e nelle tappe della sua compiuta realizzazione. Se anche dal 15 G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture del po tere nel medioevo italiano, Torino 1979, p. 131 sg.; si veda ora S. Gasparri, Il popolo-esercito degli arimanni. Gli studi longobardi di

Giovanni Tabacco, in Giovanni Tabacco e l’esegesi del passato, Torino 2006 (Quaderni del-

l’Accademia delle Scienze di Torino, 14), pp. 21-36.

16 Divulgata in C. Azzara, G. Sergi, Invasione o migrazione? I Longobardi in Italia, Torino 2006 («Piccole storie» del Festival Storia, 2).

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campo revisionista si riconosce che nelle fonti proprio i Franchi erano più frequentemente designati come Germani»17 dobbiamo poi dare una

valutazione attenta della rapidità con cui – in Gallia prima, in Italia poi – i loro ceti dominanti pervengono non a un semplice accostamento ma a una compiuta simbiosi con quelli di riconoscibile cultura latina. Patrick Geary stesso – pur fra i più antietnici – riconosce nella politica del naming la volontà di accelerata fusione tra famiglie aristocratiche di diversa origine18. Ma ad altri due fattori sembra opportuno dar peso

nell’attribuire ai Franchi un’attitudine (o almeno un orientamento) speciale verso un’integrazione completa, senza tracce di divisione di compiti e di collocazione sociale.

Il primo fattore, certamente il più discutibile, è l’orientamento im- mediato verso le aggregazioni progressive di formazioni tribali diverse, via via inserite – senza mantenimento di definizioni volte a distinguerle – sotto l’etichetta complessiva ed elastica di Franchi19: un’etichetta che

anche la storiografia più tradizionale riconosceva come meno ispirata di altre a criteri di etnicità. Le aree centromeridionali della Gallia, l’incontro in esse con un’aristocrazia galloromana non incline allo scontro, si sono in questo senso rivelate un incubatore perfetto della simbiosi.

Il secondo fattore, che è invece un carattere distintivo indubbio, è la conversione diretta dal politeismo al cristianesimo ‘romano’, operata da Clodoveo nel secolo VI. L’assoluta comunanza di pratiche religiose, e quindi le carriere ecclesiastiche aperte a qualunque famiglia aristo- cratica, è stata un potente acceleratore di integrazione, aprendo anche la strada, per simmetria, alle carriere militari di esponenti galloromani: esattamente ciò che è mancato fra i Goti, e su cui torneremo.

In nessun altro ambito di civiltà come in quello franco la que- stione religiosa si è posta con una semplicità altrettanto chiara. È da osservare che il tema dell’arianesimo non si presenta così schematico come un tempo si credeva. Di nuovo l’Italia longobarda si è prestata a correzioni importanti, perché non è verificabile una netta contrap- posizione fra Longobardi ariani e Latini cattolici. Si crede oggi a una

17 Pohl, Alle origini cit.

18 P. Geary, Aristocracy in Provence. The Rhône Basin at the Dawn of the Carolingian Age, Stuttgart 1985 (Monographien zur Geschichte des Mittelalters, 31).

19 G. Sergi, L’idea di medioevo. Fra storia e senso comune, 2a ed. ampliata, Roma 2005, pp. 39-42 (cfr. anche L. Leciejewicz, La nuova forma del mondo. La nascita della civiltà

europea medievale, trad. it. Bologna 2004, p. 122 sgg.), tesi non condivisa da C. Azzara, Le invasioni barbariche, Bologna 1999, p. 146.

forte permanenza del politeismo, a un transito blando e non capillare all’arianesimo, a una conversione progressiva – pur con provvisorie ma significative inversioni di rotta – al cattolicesimo dagli anni di Teodo- linda in poi. Risulta tuttavia confermato, sia pur in un quadro meno contrappositivo e meno schematico, il travaglio religioso testimoniato dalle lettere di Gregorio Magno, un travaglio del tutto estraneo al mondo franco.

Molto più netta era stata, sotto questo aspetto, la situazione dei regni goti: la coincidenza fra arianesimo e appartenenza al popolo gotico era cosciente e totale20, la Bibbia tradotta da Ulfila era un

elemento di orgoglio per il clero ariano, e ovviamente questa compo- nente identitaria era un decisivo fattore di alterità rispetto ai cattolici in Aquitania, nella penisola iberica, nella penisola italiana.

Le ricerche di Erwig Wolfram hanno fatto dei Goti il caso più significativo, il campione più ricco per l’etnogenesi altomedievale e per l’elaborazione metodologica21. Giordane nei suoi Getica, non si sa

quanto ripresi dall’Historia di Cassiodoro, si propone di costruire una preistoria del popolo di re Teodorico, con una doppia provenienza dalla Scandinavia e dalla Scizia. Inoltre, contaminando sistematica- mente cultura scritta e cultura orale, si sforza di inserire le origini dei Goti nell’alveo della classicità. Entrambi vogliono presentare i Goti come custodi della civilitas, ma due osservazioni sono da fare: non c’è volontà di richiamarsi a un’unitaria identità germanica e, inoltre, la cultura gota si inserisce nella classicità, non vi si identifica22. In

Cassiodoro sembra esserci il teleologismo di chi cerca il ‘prima’ per parlare del suo presente. In Giordane la volontà di valorizzare la Scizia come luogo di separazione fra Ostrogoti e Visigoti23. Soprattutto in

Giordane si intrecciano elementi di integrazione e altri di distinzione 20 S. C. Fanning, Lombard Arianism Reconsidered, in «Speculum», LVI (1981), pp. 241- 258.

21 Sopra, n. 2.

22 Sui rapporti fra parti dei loro testi cfr. F. Giunta, In margine alla nuova edizione dei

Getica di Iordanes, in «Faventia», 10 (1988), pp. 77-79; G. Polara, Virgilio facilita la con- vinvenza fra popoli diversi. Dal Cassiodoro dell’Historia Gothorum a quello delle Institutiones,

in «Incontri triestini di Filologia classica», 5 (2005-2006), pp. 121-132; occorre ora tener conto di W. Goffart, Jordanes’s Getica and the Disputed Authenticity of Gothic Origins from

Scandinavia, in «Speculum», 80 (2005), pp. 379-393.

23 Quello delle origini scandinave è uno stereotipo largamente ricorrente (Azzara, Sergi,

Invasione cit., pp. 35-39) e Wolfram, Storia dei Goti cit, p. 73 sgg. sostiene provocatoria-

mente che la Scandinavia ha esportato tradizioni sacre ben più che popoli in armi. Cfr. ora R. Canosa, Etnogenesi normanne e identità variabili. Il retroterra culturale dei Normanni

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nei confronti della cultura romana. Sono gli esiti colti (l’inserimento- distinzione rispetto alla cultura romana e la fierezza non germanica ma specificamente gota) di quanto affermato da Pohl sulla loro mobilità precedente: «i Goti attraversarono gran parte dell’Europa, non in veste di contadini alla ricerca di terra da coltivare, ma come guerrieri che aspiravano ad una sistemazione prestigiosa nell’esercito romano» (per questo dunque combattevano contro i barbari rivali).24

L’insistenza del medesimo studioso sulla contiguità con i Geti di Scizia e il passo «un contemporaneo (…) avrebbe associato almeno i Goti, che nel loro soggiorno sulle sponde del Mar Nero avevano preso molti modi di vita dai popoli delle steppe, appunto con gli ‘Sciti’ » 25

dimostrano che anche per gli storici più impegnati nella pars destruens rimane, forte, il problema del punto (geografico e cronologico) di ac- censione di una definizione di popolo. E, inoltre, che anche quando si riconosca l’inconsistenza della generale definizione ‘Germani’, si può arrivare ad affermare che il successo maggiore di Teoderico era stato l’unione di delega imperiale e di legittimazione barbarica. Questa è la sintesi ostrogota, meno duratura ma simile a quella realizzata altrove dai Visigoti.

La legittimazione sentita come utile e necessaria può non essere ‘germanica’ ma è indubbiamente militare, si richiama a una tradizio- ne di popolo diversa da quella romana. Non è necessario aderire alle revisioni più recenti per condurre un discorso autonomo sui Goti: la categoria dei popoli «gotici» è usata da Procopio per indicare i ‘non del tutto germanici’ e per sottolineare l’origine orientale di Gepidi, Vanda- li, Rugi e Alani. Ma non si può essere radicali in quelle revisioni se si prende atto che, secondo la testimonianza di Cassiodoro, dal secolo VII solo gli aristocratici definibili come ‘Goti’ potevano diventare re26.

Walter Pohl ci spiega che «gotico» è «nome collettivo che ha valore come soggetto ordinatore» e ci aiuta a districarci fra il decostruzioni- smo radicale di Patrick Amory, che si avvicina a dimostrare che non c’era autodefinizione e tutto è prodotto della finzione dell’ideologia etnografica27 e l’interpretazione, pur recente e da lui preferita, di Pe-

24 W. Pohl, Invasori e invasi, in Le invasioni barbariche nel meridione dell’Impero: Visigoti,

Vandali, Ostrogoti, a cura di P. Delogu, Soveria Mannelli 2001 (Atti del Convegno di

Cosenza, 24-26 luglio 1998), pp. 7-22. 25 Pohl, Invasori cit., p. 8 sg. 26 Op. cit., p. 16.

27 L. cit.; P. Amory, People and Identity in Ostrogothic Italy, 489-554, Cambridge 1997, forte di una base consistente di indagine prosopografica.

ter Heather, che inserisce nella definizione tutti i guerrieri goti liberi nel regno di Teoderico, in senso pieno28. Questa seconda lettura, in

ogni caso, non è da confondere con l’idea di una casta privilegiata di liberi armati possessori di terre, simile alla concezione – superata già dalle ricerche di Tabacco – degli arimanni longobardi intesi come