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USO E ABUSO DELLA STORIA: UN ESEMPIO POLITICO

Uso e abuso della storia non è un titolo originale: è volutamente identico a quello del libro di un grande storico dell’antichità, Moses Finley, che ha insegnato a tutti che è l’ uso in sé della storia a essere un abuso e che, d’altra parte, il potere non ha mai mancato di ricorrere alla storia proprio per strumentalizzarla1. È stato e continua a essere facile

dimostrarlo analizzando i manuali scolastici, soprattutto quelli di paesi che in passato sono stati in conflitto tra loro e forniscono agli studenti versioni opposte delle vicende belliche2. A un livello più sofisticato si

trova uso arbitrario della storia nell’attribuire origini etniche alle na- zioni: lo negano gli storici più recenti, come Eric Hobsbawm, Walter Pohl e Patrick Geary, mentre si sforzano di trovarle alcuni sociologi, come Anthony Smith3.

L’opinione comune, e in particolare quella dei politici, è di norma orientata a condividere l’atteggiamento degli scienziati sociali attenti solo al presente, degli storici locali e non quello degli storici profes- sionali: perché studiare la storia se non ‘serve’? Alcune culture, come quella indù e quella ebraica tradizionale4 sono esplicite nel condan-

nare la pratica della ricerca sul passato, giudicata alla stregua di un 1 M. Finley, Uso e abuso della storia. Il significato, lo studio e la comprensione del passato, trad. it. Torino 1981; molti esempi sulla contemporaneità in Gallerano, Le verità della storia cit.; P. Vidal-Naquet, Prefazione, in E. Kleiman, A. Shapira, Brutti ricordi. Il dibattito in

Israele sulle espulsioni di palestinesi nel 1848-1949, Forlì 2007, p. 5, afferma «fortunatamente

esistono anche i libri di storia, nel senso che questo termine ha per gli storici di mestiere»; contro la concezione «utilitaristica» della storia parti di P. Bevilacqua, L’utilità della storia.

Il passato e gli altri mondi possibili, 3a ed., Roma 2007. 2 Ferro, Uso sociale e insegnamento della storia cit.

3 Non tutti: cfr. sopra n. 10 del cap. I e n. 10-12 del cap. V.

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gioco ozioso se non serve al presente. La cultura europea occidentale è invece più ingannevole: perché per lo più predica la ricerca storica disinteressata, ma non la pratica. La distorce, la finanzia per piegarla a interessi politici, scarta le risposte inattese. Inutile richiamare la dif- ferenza fra storia e memoria5 perché anche i più illuminati operatori

culturali desiderano di solito lavorare sull’ ‘utilità’ della storia a fini identitari e, più in generale, per conservare la presunta memoria di nazioni, gruppi, comunità.

Ho già insistito sul fatto che le strumentalizzazioni del passato lon- tano sono forse meno dolorose di quelle del passato più recente, ma non meno pericolose politicamente di quelle della storia contempora- nea. Ogni comunità tende a scegliere, nel passato, un periodo mitico in cui era dominante e in cui limitava libertà altrui6. Ecco perché il

concetto stesso di identità è da giudicare approssimativo e poco stori- co; ed ecco perché la storiografia professionale diffida dell’erudizione volta a celebrare ‘radici’ e ‘glorie patrie’, mossa da amore per una terra e non per la verità. Abbiamo già visto che occorre essere pronti ad analizzare «identità variabili» e a interrogarsi su quali ragioni spieghino la prevalenza, oggi, di radici che si richiamano a una fase storica piut- tosto che a un’altra7. Così, anche quando si realizza su un territorio

una sorprendente solidarietà sociale – come nella lotta contro il treno ad alta velocità in valle di Susa – è meglio richiamarsi al presente e non a una speciale identità della valle di Susa, la cui mobilitazione è giusta e riuscita per molte buone ragioni e non perché condotta da una “rasa nostran-a” (razza nostrana) come purtroppo avviene di leggere.

Sotto l’urgenza del presente e dei suoi grandi problemi avviene che lo storico si interroghi circa l’utilità del suo lavoro: ebbene, come minimo l’utilità deriva proprio da tutte quelle strumentalizzazioni, perché è compito dell’esperto smascherarle e, spesso, fare della pratica della smentita la propria stessa professione. E io non posso che essere grato agli oltre mille anti-TAV in lotta che a Venaus, la sera del 29 novembre 2005, hanno ascoltato, in un silenzio interessato e ricco di tensione, le mie parole di professionista della smentita8.

5 M. Halbwachs, La memoria collettiva, a cura di P. Jedlowski, trad. it. Torino 1987; P. Nora, Entre mémoire et historie, Paris 1984; J. Fentress, C. Wickham, Social Memory, Oxford 1992; J. Le Goff, Storia e memoria, Torino 1992, pp. 347-398; Secoli XI e XII:

l’invenzione della memoria (Atti del Seminario internazionale di Montepulciano, 27-29 apr.

2006), a cura di S. Allegria, F. Cenni, Montepulciano 2006. 6 Sopra, testo successivo alla n. 9 del cap. V.

7 Sopra, testo successivo alla n. 12 del cap. V.

Pericoli di distorsione, se pur minori, si presentano anche nel- la ricerca storica, mentre progredisce sul piano tecnico-esegetico. È vero che le domande dello storico nascono almeno in parte dalla sua esperienza del presente, ma se si cede alle deformazioni prospettiche (interpretando fasi del passato come preannunci di quelle successive) si rischia di concepire lo storico come scienziato anche del futuro: la storia non è lineare, i rapporti causa-effetto cambiano, i tanto popolari «corsi e ricorsi» della storia non esistono.

Ecco, da quest’ultima considerazione voglio partire per denunciare alcuni degli abusi della storia che sono compiuti dai politici anche su un tema particolare come l’alta velocità ferroviaria. È un esempio significativo, perché la grande informazione9 non ha mai mancato

di fingere competenze storiche nello stravolgere per finalità propagan- distiche la formula della sempiterna «vocazione stradale» della valle. Sindaco di Torino, presidenti della Provincia e della Regione sanno bene di toccare la sensibilità popolare per la storia (fondata sull’igno- ranza), quando affermano che, se Cavour avesse ragionato come gli attuali oppositori dell’alta velocità, non sarebbe mai stato favorevole al traforo del Frejus. Ma è giusto confrontare un dibattito parlamentare del 1857 e un’opera conclusa nel 1871 con un progetto di oltre un secolo dopo? Attenzione: un secolo che ha cambiato radicalmente la società dal punto di vista dell’industrializzazione, degli assetti sociali, delle conoscenze. Un piccolo ma terribile esempio: allora si ignorava che l’amianto facesse male, oggi si sa. Non foss’altro che per questo si può capire come allora non ci si ponessero problemi ambientali che oggi non solo sono legittimi, ma addirittura doverosi. Ma, più in gene- rale, è privo di senso confrontare decisioni prese alla vigilia della più sconvolgente accelerazione industriale della storia con altre decisioni – ritenute ingiustamente simili – che sarebbero da assumere adesso, quando il contesto è non solo cambiato, ma addirittura completamente diverso: confrontabile con la fine del secolo XX, non certo con l’antico regime e con i primi passi dell’industrializzazione.

Il contesto: chi si richiama seriamente alla storia non può ignorar- lo, così come non lo ignorano gli storici. Chi lo fa sta giocando con carte false. Il traforo del Frejus, con un percorso di 12 chilometri, ridusse i tempi di viaggio da Parigi a Torino del 70%: da 86 ore (oltre 3 giorni e mezzo) a 22 ore (poco meno di un giorno). Il traforo ora 9 A. G. Calafati, Dove sono le ragioni del si? La “Tav in Val di Susa” nella società della

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proposto, con un percorso oltre i 50 chilometri e una spesa impres- sionante, riduce invece quel tempo in misura ridottissima10.

Quando Georges Duby pregava di non chiedere agli storici di fare previsioni11, si comportava da intellettuale rigoroso. Quando i politici,

invece, prefigurano il futuro come pura prosecuzione del recente pas- sato (nel senso del cosiddetto «sviluppo») si rivelano veri conservatori, non riescono a immaginare cambiamenti ma soltanto prosecuzioni senza scosse e senza riforme: e, di là dai giudizi politici, mostrano di ignorare che contro la linearità del procedere storico è ormai schie- rata tutta la ricerca seria. Ma è improbabile che lo ignorino davvero: sfruttano invece, a fini propagandistici, quella cultura storica volgare che purtroppo accomuna ambienti diversi della società, usano la storia e abusano delle sue presunte e vecchie convinzioni. L’appello, a un tempo culturale e politico, è semplice: i nostri rappresentanti prendano le loro decisioni, le sottopongano ai momenti di controllo democratico, ma lascino stare il passato.

La valle di Susa ha già pagato prezzi molto alti alla già ricordata formula, attinta alla storia, di «vocazione stradale». Persino chi come me si è occupato di vie di comunicazione nel lontanissimo medioevo è stato sottoposto a pressioni pesanti e crescenti. La via Francigena che io studiavo alla fine degli anni Settanta interessava soltanto agli specialisti; fino a quando imprenditori, politici e giornalisti pensarono di far fruttare il concetto di vocazione stradale: di qui un gran numero di richieste (sempre respinte) perché si scrivessero libri, interventi e dossier utili a dare una giustificazione storica a progetti del presente. I progetti erano da accettare perché «ineludibili», la valle di Susa pa- gava certi prezzi perché li aveva sempre pagati, e, in più, una certa pubblicistica storica di basso livello aveva il compito di mettere fra parentesi i danni ed esaltare i vantaggi che da quella «vocazione» erano nel passato derivati.

Ma com’è possibile avere un così scarso senso dei cambiamenti veri della storia? Com’è possibile non pensare che l’uso propagandi- stico del passato è in realtà fragilissimo di fronte a un esame critico? Semplice: non si attinge alla storia, ma al senso comune storiografico, che non è mai stato alimentato dagli storici bensì dagli strumentaliz-

10 Rinvio ai saggi di M. Revelli, L. Gallino, A. Tartaglia, A. Debernardi, in Travolti

dall’alta voracità, a cura di C. Cancelli, G. Sergi, M. Zucchetti, Roma 2006.

11 Sopra, n. 2 del cap. IV; J. K. J. Thomson, Decline in History. The European Experience, Cambridge 1998.

zatori della storia. In quel senso comune non ci sono che scarsissimi frammenti di verità sul passato, bensì ciò che l’uso/abuso della storia da parte dei potenti ha reso opinione diffusa: con i manuali scolastici, con informazioni giornalistiche, con i discorsi da «storico della dome- nica» (è una definizione che Philippe Ariès ha applicato a se stesso, ma con un civettuolo eccesso di modestia12) di troppa della nostra

cultura e della nostra politica.

Si pensi alla nozione stessa di «viaggio». Molti dei viaggi di cui ci si occupa nella storia erano compiuti a piedi, a dorso di mulo, con traini a cavallo. Viaggio è il cammino dei pellegrini come il volo degli aerei: due realtà inconfrontabili. Le vie di comunicazione nella storia possono essere strade (le viae stratae, cioè lastricate, del mondo ro- mano), ma anche i sentieri o i percorsi sterrati del medioevo. Percor- si che non cambiano nome, spesso si chiamano egualmente ‘strade’ perché le parole hanno una loro autonomia e chi le usa dimentica il loro significato originario.

Intorno all’anno Mille dal Moncenisio a Torino c’erano decine di ospizi e luoghi di sosta13. Ha senso confrontare il viaggio di allora

con quello di oggi? Gli abitanti di una regione attraversata dal viaggio non devono fare in modo ben diverso il calcolo dei vantaggi e degli svantaggi? Eppure oggi c’è chi parla solo dei vantaggi che la valle di Susa ha sempre ricevuto dal fatto di essere un’area di transito: dimen- ticando ad arte che un treno ad alta velocità non produce percorso con soste entro l’area interessata, ma soltanto attraversamento dan- noso; arrivando a sostenere, in questa prospettiva d’inganno (si può sorridere, ma è tragico che qualcuno pensi di dirlo e qualcun altro di pubblicarlo), che alle «patate di Mocchie» si sarebbero aperti, grazie al TAV, mercati lucrosi. È disonesto: si dica a chi produce quelle ottime patate che dovrà – esattamente come ora – venderle localmente oppure portarle in un centro di grande distribuzione (o cambiare mestiere), e non si suggerisca, neppure per un attimo, l’immagine di un TAV che si ferma per caricare cassette.

La propaganda non si ferma mai nell’uso delle parole, non teme la smentita se arriva dopo qualche giorno. E quando attinge le parole dalla storia14 attribuisce loro una vernice di maggiore attendibilità e,

12 Ph. Ariès, Uno storico della domenica, trad. it. Bari 1992.

13 G. Sergi, Potere e territorio lungo la strada di Francia. Da Chambéry a Torino fra X e

XIII secolo, Napoli 1981.

14 Sull’azione del «pensare» un fatto storico con l’inevitabile immediato peso della «paro- la» che lo rappresenta cfr. L. Canfora, Analogia e storia. L’uso politico dei paradigmi storici,

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magari, di maggiore durata. Ma le parole stesse, come abbiamo visto, hanno una loro storia e una potenzialità d’inganno. Ad esempio non è detto che nuovo sia sempre positivo e antico sempre negativo: questa equivalenza (smentita da tante constatazioni del presente) è stata spes- so, nel passato, addirittura rovesciata15; di sicuro non è scontata.

In qualche caso le parole ingannano perché sono state neutraliz- zate, perché non se ne percepisce fino in fondo il significato pieno. Si pensi a competitivo (quel carattere che sembra diventato un obbligo della società contemporanea: bisogna essere in grado di «competere»; uno stato, una regione, un’industria e addirittura una piccola comunità devono essere «competitive»). È una parola abusata (che non avrei voluto ascoltare decine di volte in una sede impropria come una re- cente inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Torino), nefasta ma anche, appunto, neutralizzata: quanti ricordano davvero che in una competizione non c’è solo chi vince ma anche chi perde? Perché occuparsi solo di competizione e non di regole del gioco? Perché tutte le speranze nel futuro devono essere riposte nel vincere rispetto a qualcun altro? Perché ricordarsi soltanto che se si vince si starà meglio, e trascurare che altri staranno peggio? Perché augurar- selo? Non lo si può certo domandare ai libri di storia, visto che il più grande storico del Novecento, Marc Bloch, e molti altri dopo di lui ci hanno insegnato a occuparci anche dei vinti16. Non solo: Bloch

come altri eccellenti studiosi (penso al recente libro di Jared Diamond, Collasso17) ci hanno insegnato che la storia si è normalmente trovata

davanti a qualche bivio, e spesso le soluzioni perdenti sarebbero state le migliori. Perché la storia intelligente si fa con i se, come abbiamo già visto18: la frase «la storia non si fa con i se» è cara a una saggezza

popolare sbagliata, saggezza che davvero popolare non è perché fa parte di quel senso comune instillato dal potere e su cui il potere specula, accanitamente, da sempre.

Milano 1982; più in generale P. Bourdieu, La parola e il potere, trad. it. Napoli 1988; J. Rancière, Le parole della storia, trad. it. Milano 1994.

15 Le Goff, Storia e memoria cit., pp. 133-224.

16 M. Bloch, Storici e storia, trad. it. Torino 1997; quanto questa opzione incida sul piano anche metodologico emerge bene in R. Koselleck, L’expérience de l’histoire, Paris 1997.

17 J. Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, trad. it. Torino 2005; cfr. A. Chua, Day of Empire: How Hyperpowers Rise to Global Dominance and Why They

Fall, New York 2007.