• Non ci sono risultati.

TROPPO FEUDO: LA STORIA DEL DIRITTO E CARLO GUIDO MOR

Sugli argomenti esposti nel capitolo precedente non è facile che un cultore di storia locale si muova correttamente. Di solito, avendo co- noscenza prevalente della letteratura erudita, ha scarsa percezione dei progressi – lenti ma insesorabili – della ricerca storico-scientifica. Ciò può indurre a metter mano ad alcuni grandi classici: in particolare la storia del diritto di metà Novecento ha unito, a un’indubbia generosità nel produrre sintesi, un aggiornamento tutto interno alla disciplina, poco aperto alle novità che da Marc Bloch in poi stavano segnando profondamente la storiografia. Un esempio di alto livello, in questo senso, è l’opera di Carlo Guido Mor, spesso reperibile nelle biblioteche civiche e sicuramente efficace per la sua sistematicità.

L’effetto visivo della pagina di Mor, sia nei volumi dell’Età feudale1

sia, ancor più, nei contributi di ricerca parziale, è impressionante: una grande quantità di note sotto scarne righe di testo, semplificate, scritte con un linguaggio accattivante, colloquiale, così sviluppato non solo per differenziare i possibili lettori e mantenere un dialogo con tutti, ma anche perché c’era la volontà di dimostrare come – a una selva di contraddittori indizi derivanti dalle fonti – potesse corrispondere una linea interpretativa articolata ma tutto sommato semplice.

Le note, a loro volta, sono significative. Il dialogo con il dibattito storiografico non è fitto, o almeno non è minuzioso. Gli interlocutori ricorrenti sono pochi, scelti fra coloro che secondo l’autore hanno inciso profondamente sulle conoscenze diffuse, ed è spesso evitato il terreno del confronto con le ricerche accademiche e settoriali più

126 ANTIDOTI ALL’ABUSO DELLA STORIA

specifiche. Per contro il rapporto con i documenti è intenso e appas- sionato: una vera, abbondantissima schedatura, volta da un lato a costruire una casistica molto complessa, dall’altro a dare sfogo a una vera passione, quasi tattile, per le fonti.

La ricchezza e la contraddittorietà delle attestazioni si sviluppava, in Mor, in un dovere dell’individuazione di una tesi che potesse essere costruita tagliando via le informazioni anomale e, quando necessario, integrando con una dottrina giuridica che riempisse i vuoti e rendesse, secondo l’autore, intelligibile l’intrico del mondo medievale. Sotto questo punto di vista l’interpretazione feudale di quel mondo si pre- stava perfettamente, sia quando si collocava in continuità rispetto alla tradizione italiana degli storici del diritto, sia quando a quel quadro di riferimento Mor imprimeva al tempo stesso onnicomprensività e maggiore complessità.

Ma procediamo, adesso, in modo più analitico, partendo dal dato storiografico. Mor, nella sua opera, non risulta sensibile alle tendenze, ben affermate già nelle ricerche medievistiche francesi e tedesche del primo Novecento, a trascurare la trasmissione feudale del potere come origine delle signorie locali2. Su questo tema la medievistica italiana

si era accorpata in due filoni ben illustrati da Giovanni Tabacco3. Un

filone, che va da Del Giudice a Calisse, era orientato a non dar peso a circoscrizioni amministrative e giudiziarie di carattere pubblico, ma a consegnarci uno scenario che corrispondesse a una «somma di signorie sovrapposte feudalmente le une alle altre»4. Su questa linea la voce del-

l’Enciclopedia giuridica italiana del 1903, affidata a Ciccaglione, dove «supporre un rapporto feudale ovunque si parli di districtio» serviva a «conferire a ogni districtio, sia pur quella comitale, la più vasta base pos- sibile di possesso fondiario»5: in questo modo la distinzione fra «terra»

posseduta e «territorio» governato era ridotta al minimo6, si tendeva a

dare uniformità al paesaggio politico delle campagne ma, nel farlo, si trasponeva al secolo X un linguaggio di età posteriori.

L’altro filone è significativamente rappresentato da Besta, che nel 1912 sviluppa «l’idea di una gerarchia di funzioni, entro il regnum,

2 Wickham, Le forme del feudalesimo cit., p. 21 sgg. 3 Tabacco, Dai re ai signori cit., p. 108 sgg. 4 Op. cit., p. 113 sg.

5 Op. cit., p. 115.

6 Sull’opportunità, invece, della chiarezza su questo tema cfr. G. Sergi, La territorialità

e l’assetto giurisdizionale e amministrativo dello spazio, in Uomo e spazio nell’alto medioevo

(L Settimana del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto, 4-8 aprile 2002), Spoleto 2003, pp. 479-501.

più o meno permeate dagli istituti feudali»7. Besta colloca ordines e

gerarchie feudali prevalentemente nel secolo XII, dando peso ai Libri feudorum e affermando che è allora che il regno si feudalizza.

Queste due diverse linee interpretative in qualche modo disturba- no Mor, il cui scopo è quello di pervenire, sì, a una sintesi largamente comprensibile, ma anche in grado di dar conto dell’eterogeneità dei poteri e delle loro forme di delega. Per riuscire nell’intento concentra nell’ Età feudale, ricomponendole, fasi diverse dell’analisi di Pier Sil- verio Leicht, che invece era un articolatore, distingueva concessioni beneficiarie alle chiese (per scopi essenzialmente di amministrazione agraria) dagli sviluppi del feudo di tradizione franca, di carattere mi- litare e ben connesso alla commendazione vassallatica: così facendo Leicht evitava di ricostruire artificialmente «un sistema gerarchico di concessioni»8. Soprattutto in La curtis ed il feudo del 19039 è evidente

la variegatura delle soluzioni: tuttavia non c’è in Leicht atteggiamento polemico verso la concezione tradizionale e «la critica alle idee domi- nanti è puramente implicita nell’esposizione dei dati documentari»10.

È un atteggiamento che quasi prepara una sorta di ‘ritorno all’indietro’ nel 1939 quando, in L’introduzione del feudo nell’Italia franca e norman- na, Leicht «vede i successori di Carlo applicare via via a ogni ufficio pubblico, marca, contea, avvocazia un concetto di ‘feudo’ di cui egli ammette l’incertezza nella costruzione giuridica» ma afferma che il feudo «diviene l’istituto mercè il quale funziona tutto il meccanismo dello stato» fra il secolo IX e il X11.

In questo modo non solo, secondo la critica di Tabacco, si sug- gerisce una non opportuna reductio ad unum su scala europea, ma si perviene inesorabilmente a quell’ «anticipazione dello stato feudale al secolo X, consueta nella cultura italiana»12.

Insomma, cercando una ricomposizione – pur complessa e arti- colata – fra diverse linee interpretative della storia del diritto italiano, rimanendo insensibile alla «defeudalizzazione» in corso in altre tradi- zioni storiografiche, cercando un’ispirazione unica nella complessità del pensiero di Leicht, Mor si proponeva di ricostruire un medioevo

7 Tabacco, Dai re ai signori cit., p. 129 sg. 8 Op. cit., p. 123 sg.

9 P.S. Leicht, La curtis ed il feudo nell’Italia superiore sino al XII secolo, prima parte degli

Studi sulla proprietà fondiaria nel medioevo, 2a ed., Milano 1964. 10 Tabacco, Dai re ai signori cit., p. 124.

11 P.S. Leicht, Scritti vari di storia del diritto italiano, I, Milano, 1943, pp. 501-506; ma già, in sede di sintesi, Id., Storia del diritto italiano. Il diritto pubblico, Milano 1938, p. 169 sg.

128 ANTIDOTI ALL’ABUSO DELLA STORIA

che avesse una chiave interpretativa prevalente, forse anche – e questa è la parte apprezzabile dal punto di vista etico-intellettuale – perché l’informazione fosse adatta a raggiungere tutti coloro che addetti ai lavori non erano. Ne risultava un’Europa medievale priva di gran- di variegature regionali e nella quale non occorreva dare gran peso alle scansioni cronologiche interne. Su questa strada quello feudale diventava un vero quadro mentale di riferimento, in cui costringere manifestazioni, meccanismi e processi diversi: diversità non nascoste da Mor, a dire il vero (e ciò lo colloca in una linea di progresso ri- spetto ai predecessori) ma sistemate in una logica classificatoria. Gli ufficiali del regno risultano tutti vassalli13. Non c’è la distinzione tra la

prima età carolingia (quando non era previsto l’obbligo degli ufficiali di essere anche vassi dominici) e il maturo secolo IX14. «La creazione

di feudi non coincidenti con le circoscrizioni territoriali tradizionali» risulta essere uno sviluppo postumo (e si suggerisce quindi, di fatto, una precedente corrispondenza fra comitati, marchesati e feudi)15. I

«feudi d’ufficio» sono per Mor quelli di conti e marchesi, senza speci- ficazione territoriale. Questi ufficiali carolingi sono dunque considerati alla stregua dei fedeli di corte degli albori della storia franca, con incarichi ricompensati dallo sfruttamento beneficiario di terre fiscali. Terre fiscali «per le quali non muta affatto la natura giuridica (cioè di terra fiscale), ma solo la destinazione economica»16.

«Feudo» è nelle pagine di Mor un termine polivalente, ma non è mai privo del contenuto giurisdizionale, cioè proprio di quello che la medievistica successiva ha negato fino al medioevo maturo e alla diffusione dei «feudi di signoria»17. L’autore sostiene infatti che il bene-

ficio «può essere remuneratorio o incentivante, ma deve contenere un elemento tipicamente amministrativo, cioè la delega di tutti o di parte dei poteri sovrani di giurisdizione da esercitare o su tutto un territorio provinciale (ducato, marca) o su una sua frazione (contea, vicecomita- to) e via via sulle minori distretturazioni»18. In questo modo, in pratica,

si dà una lettura feudale sia dell’assegnazione di incarichi pubblici 13 G. Tabacco, Sperimentazioni del potere nell’alto medioevo, Torino 1993, p. 262. 14 Ganshof, Che cos’è il feudalesimo? cit., pp. 58-62.

15 Anche se in un punto di Mor, L’età feudale cit., II, p. 208, sembra che questo debba essere considerato uno sviluppo postumo.

16 Op. cit., p. 209; cfr. C. G. Mor, Prima del «castrum Gradiscae», estratto dal numero unico di «Gardis’cia» della Società Filologica Friulana, Udine 1977, p. 6.

17 Boutruche, Signoria e feudalesimo cit., I, p. 234 sgg.; II, p. 204 sgg.

18 C.G. Mor, »Feudum» un termine polivalente, estratto da »Atti dell’Accademia di Scienze Lettere e Arti di Udine», LXXV (1982), p. 3.

(anche quando si tratta invece di una delega d’ufficio senza investitura vassallatica), sia di concessioni allodiali di poteri (il caso, frequente e addirittura più normale, analizzato da Giovanni Tabacco).19

In questo quadro condizionante non ci si può stupire se uno dei più importanti «motori» della pluralizzazione politica postcarolingia, l’immunità20, fosse considerata alla stregua di una delle componenti

del rapporto feudale. Era già stato Calisse, scolaro di Schupfer, a conferire gran fortuna all’idea – che ha poi avuto molto successo nella manualistica scolastica – di un rapporto feudale costituito da tre ele- menti: vassallaggio, beneficio, immunità21. È interessante notare che

Leicht, invece, teneva distinta l’immunità22.

Mor accetta come possibile la distinzione di Leicht, ma senza discostarsi del tutto dalla linea di Calisse. Definendo l’elemento per- sonale (fidelitas), l’elemento reale (beneficium), e l’elemento giuridico (immunitas) dichiara che «questi tre elementi possono combinarsi in modo differente o vivere anche isolati» ma aggiunge che «molto di sovente l’immunità può essere sottaciuta nella collazione di un vero e proprio feudo»23. Non c’è, in questo percorso concettuale di Mor, la

sua consueta propensione alla schematizzazione divulgativa. Afferma che l’ «immunità può esister in sé e per sé, senza perciò che si possa concluder di essere in presenza di un feudo»24: e in fondo gli serve

contrapporre il sistema «feudale» a quello «immunitario» (dove solo il secondo corrisponde a un’abdicazione del potere pubblico)25. Ma è

poi interessante constatare che l’ulteriore regressione dello stato, la forma «più grave» di immunità, possa essere «avviamento al ‘feudo’ ». Può apparire strano e contraddittorio. Ma lo è meno, nella riflessione concettuale di Mor, se si considera che in questo modo dal sistema immunitario (in fondo un’eccezione all’ordinamento, che pur mostra una sua ‘tenuta’) deriva un esito d’apparato che assimila poteri locali (nati da un’eccezione), con i poteri normali dello stato (quelli sì da sempre, secondo Mor, feudali).

Per Mor l’immunità è sempre «positiva»: prevale cioè quella mag- giore, con tuitio e inquisitio. Le concessioni immunitarie di Ottone I

19 Op. cit., p. 4; Tabacco, Dai re ai signori cit., pp. 15-66. 20 Cfr. ora Rosenwein, Negotiating Space cit.

21 C. Calisse, Storia del diritto italiano, II, Firenze 1891, p. 208.

22 P.S. Leicht, Storia del diritto ilatliano. Il diritto pubblico, 3a ed. Milano 1950, pp. 126, 136.

23 Mor, L’età feudale cit., II, p. 193. 24 Op. cit., p. 194.

130 ANTIDOTI ALL’ABUSO DELLA STORIA

«non sono soltanto una legittimazione di eventuali usurpazioni vesco- vili, per affermare il principio dell’inalienabilità di diritti pubblici se non per volontà sovrana, ma rispondono al preciso scopo di rompere il potere comitale, direi quasi di annientarlo sia giuridicamente sia territorialmente, in modo da sostituirvi il feudo ecclesiastico, che per- metteva il ritorno implicito al concetto originale del feudo, personale e ricadente al ‘senior’ alla morte dell’investito». Ma il destinatario non poteva più essere «svestito», perché era «un ente perpetuo (…) la cui vita, in Italia, era indipendente dalla volontà del sovrano laico»26.

Ho sopra accennato all’inevitabilità, secondo Mor, del contenuto giurisdizionale del feudo. Il beneficio come «terra che rende», che garantisce mantenimento e anche ricchezza del fedele, quello cioè su cui più insistono Ganshof e Boutruche27, non esiste. Quindi manca

nelle pagine dello storico del diritto il concetto di «feudo di signoria», perché per lui il feudo con giurisdizione è quello normale, non è né l’eccezione, né l’esito di uno sviluppo. È solo il progressivo sganciarsi da un controllo superiore del senior a colpirlo: nel secolo XIII, secondo le sue parole, «siamo in piena dissoluzione del vero feudo, così come era stato concepito all’origine»28. Infatti «il deterioramento dei concetti

fondamentali del feudo precipita, per così dire, nel corso del secolo XIII, quando molte prestazioni in natura o in danaro si consolidano e si distribuiscono sui vari territori»29. Ecco, la degenerazione rispetto

alla concezione e alla funzione iniziale consiste nel suo sganciamento da una distribuzione del potere razionalmente voluta dall’alto.

Proprio il «feudo economico», quello che gli studiosi successivi hanno ritenuto il più tipico dell’alto medioevo, è invece per Mor esito di questa degenerazione, che dà luogo a un «feudo per distribuzione di reddito» che prevede «soltanto la facoltà di percepire il tributo»30: ed

è a questo punto, secondo lui, che di «feudo (…) non è rimasta che la parola»31. Quest’ultima affermazione, per altro verso, aiuta Mor a

fornire un contributo prezioso sul piano della polivalenza semantica e dell’abbassamento sociale del termine feudo nel tardo medioevo. In Friuli fra Tre e Quattrocento «la parola è rimasta per indicare qualun-

26 Mor, L’età feudale cit., II, p. 205: è una lettura tradizionale, cfr. Sergi, Poteri temporali

del vescovo cit. pp. 1-16.

27 Ganshof, Che cos’è il feudalesimo? cit., p. 145 sg.; Boutruche, Signoria e feudalesimo cit., I, p. 198 sgg.

28 Mor, «Feudum» cit., p. 22. 29 Op. cit., p. 31.

30 Op. cit., p. 37. 31 Op. cit., p. 38.

que rapporto sinallagmatico (il solito ‘do ut facias’), a prescindere da un vero e proprio rapporto vassallatico, dato che mancano parecchi requisiti specifici, il ‘consilium’ per esempio e la delega dei poteri giurisdizionali»32. Può sopravvivere l’impegno a un «auxilium», ma di

tipo non militare33 e risultano frequenti i casi di contratti locatizi «ma-

scherati dall’investitura feudale»34. Insomma, secondo Mor sopravvive

l’idea di fidelitas che vincola il concessionario al concedente ma ormai questi «feudi» sono da giudicare come istituti più privatistici che pub- blicistici35. E qui, pesa, di nuovo, la vecchia idea che quello feudale

fosse un sistema creato dai Carolingi per distribuire potere sotto il loro controllo: quindi «pubblico» proprio quando quelle fedeltà – in presenza di un apparato funzionariale discretamente efficiente – erano più «private» che mai36.

Merita una considerazione, da parte nostra, l’idea di periodizzazio- ne che ne deriva. Come è noto, secondo Marc Bloch è la «seconda» età feudale (solo dunque dalla fine del secolo XI) quella in cui o è normale la concessione di giurisdizione, o si inquadrano a posteriori in forma feudale poteri nati dal basso37. Gli ultimi secoli del millennio

medievale ci fanno assistere a una biforcazione: da un lato l’affermarsi del «feudum rectum et nobile», cioè il feudo «di signoria»; dall’altro la degenerazione della terminologia feudale, che è applicata anche a contratti di locazione. Si potrebbe essere tentati di inserire l’interpreta- zione di Mor in una corrente diffusa nella medievistica anche postblo- chiana del Novecento: quella tendente a trovare «sistema feudale» solo nella «seconda età feudale di Bloch» (dunque l’unica, non la seconda), perché solo là dove c’è distribuzione beneficiaria di potere si potrebbe davvero parlare di feudalesimo38. Ed è vero, come abbiamo già visto,

che Mor considera feudo solo quello con contenuti giurisdizionali: ma 32 Op. cit., p. 43.

33 Op. cit., p. 44. 34 Op. cit., p. 45.

35 Op. cit., p. 48; ciò mentre, quando c’è di mezzo l’elemento militare, secondo Mor i contratti (anche quelli delle compagnie di ventura) sono «al di fuori di ogni schema priva- tistico» anche nei secoli XIV e XV: C.G. Mor, Riflessi giuridici dei contratti di condotta delle

compagnie di ventura, in Studi in onore di Ugo Gualazzini, II, Milano 1982, p. 423.

36 Per l’Italia in particolare cfr. ora G. Albertoni, L’Italia carolingia, Roma 1997, p. 65 sgg.; sulle ormai consolidate e articolate obiezioni alla distinzione privato-pubblico cfr.

The Settlement of Disputes in Early Medieval Europe, a cura di W. Davies, P. Fouracre,

Cambridge 1986.

37 Bloch, La società feudale cit., p. 219 sgg.

38 J.-P. Poly, E. Bournazel, Il mutamento feudale. Secoli X-XII, ed. ital., Milano 1990: proprio su questa impostazione interviene in questo libro il capitolo seguente.

132 ANTIDOTI ALL’ABUSO DELLA STORIA

non aderisce affatto a una periodizzazione che collochi il feudo solo fondiario nell’alto medioevo e quello con giurisdizione nel basso. Anzi, per lui la prospettiva è rovesciata, e individua proprio nella cosiddetta seconda età feudale la perdita dei connotati giurisdizionali originari.

Il periodo di transizione (anni postcarolingi ed età ottoniana) è quello in cui il rapporto vassallatico-beneficiario servirebbe per realiz- zare una sorta di «reductio ad unum» dei rapporti di potere. Se c’erano poteri pubblici delegati per via feudale potevano diventare ereditari; ma se c’erano altri nuclei di potere locale potevano razionalizzarsi in forma feudale, con passaggio dalla signoria fondiaria con immunità al «vero e proprio feudo»39.

Questa ricerca della razionalizzazione in chiave feudale non ci fa trovare, tuttavia, pagine significative di Mor dedicate al feudo oblato, da molti ritenuto, nel basso medioevo, il modo attraverso cui si feu- dalizza anche ciò che all’origine feudale non era40. Si può trovare una

coerenza in questo accantonamento: perché dedicarsi a un istituto che non introduceva una novità, se pur formale, e determinava diffusione di quei «feudi di signoria» che per Mor erano in certo senso normali sin dall’inizio?

Ben più originale e qualitativamente alta è l’attenzione di Mor per i feudi di abitanza, studiati in particolare per il Friuli. Il documento- modello è quello del 1203, con cui il patriarca di Aquileia concede a due fratelli di S. Daniele «iure feudi» due mulini «gironum et fortili- tium (…) cum omnibus campis, advocatiis (…) ad dictum locum et gironum spectantibus»41, arricchito dalla esplicita menzione del «feu-

dum habitantiae» in un atto del 126342. L’autore non ha dubbi, e ha

ragione, sul significato politico-militare di tali concessioni: del resto c’è coerenza con l’uso del feudo come quadro di riferimento tipico di Mor, che – come in certo senso è già qui risultato – non ha dubbi sul fatto che il «regime giuridico del castello» sia «da’ tempi del feudo classico (carolingio e in parte ottoniano) (…) materia di regalia»43.

Lo scopo è la «miglior difesa» e la «costituzione di un saldo gruppo di habitatores»44, che da quel momento agiscono come castellani e

39 Mor, L’età feudale cit., II, p. 193.

40 Provero, L’Italia dei poteri locali cit., pp. 162-164.

41 C.G. Mor, I feudi di abitanza in Friuli, Udine 1975, p. 3 sg. 42 Op. cit., p. 9.

43 Op. cit., p. 8; cfr. C. G. Mor, Castelli patriarcali a difesa contro i conti di Gorizia, in «Studi goriziani», XLII (lug.-dic. 1975), pp. 85-101.

quindi, secondo l’autore, come nobili, legati da un indubbio obbligo a prestare il servizio militare a cavallo45. La funzione di promozione

sociale del feudo di abitanza sarebbe dimostrata dal fatto che non tutti erano «domini» già in precedenza46.

Fin qui viene fuori l’importanza di rapporti vassallatico-benefi- ciari di tipo collettivo, ma la materia è complessa e non mancano gli elementi contraddittori. Talora il contenuto del beneficio è mo- destissimo («anche solo un sedime (…) ma si rimedia con qualche bene fondiario in località viciniori che consenta di vivere»47) senza per

questo che venga meno, secondo Mor, la natura militare del vincolo. L’ereditarietà sembra essere una caratteristica di tutti i feudi di que- sto tipo, in particolare quando sono «de domo»48, coinvolgono cioè il

gruppo compatto di tutti gli appartenenti a una stessa casata49. Più

difficile è destreggiarsi in aspetti contraddittori della materia. Come la definizione secondo cui i «feudi di abitanza» sarebbero per lo più «feudi retti e legali senza giurisdizione (in sostanza, larvate locazioni perpetue condizionate a un servizio feudale)»50 (ma allora perché «retti

e legali?»). O come la presa d’atto, nel pieno secolo XIII, di feudi retti