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3. Piano della tesi

1.3. L’intelletto legislatore

1.3.3. Apprensione, riproduzione, ricognizione

Tuttavia il solo intelletto non è sufficiente per portare a compimento l’intera impresa fondativa: Kant assegna sì alla spontaneità dei concetti la funzione di determinare l’unità dell’esperienza, ma attraverso la connessione sintetica del molteplice fenomenico, che non è opera esclusiva dell’intelletto. L’intelletto è legislatore proprio perché coordina e unifica le funzioni delle altre facoltà nella sintesi da cui risulta l’esperienza. Come scrive Deleuze, «ciò che spetta all’intelletto non è la

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sintesi in se stessa, ma l’unità della sintesi e le espressioni di questa unità»1. Per

sviluppare questa tesi, Deleuze fa riferimento soprattutto alla Deduzione trascendentale del 1781, dove Kant individua all’interno della sintesi una triplicità di funzioni conducente a tre distinte «fonti soggettive»2. È utile richiamare qui, in modo schematico, queste tre funzioni.

I) Sintesi dell’apprensione nell’intuizione. Se è vero che il tempo, in quanto forma pura del senso interno, rappresenta la condizione per cui tutte le intuizioni vengono «ordinate, unificate e messe in rapporto»3, affinché alla sua forma venga data unità, il molteplice che essa presenta deve trascorrere e quindi essere raccolto. Kant chiama apprensione [Apprehension] la sintesi con cui il molteplice intuitivo è determinato in una successione.

II) Sintesi della riproduzione nell’immaginazione. Tuttavia non è possibile una successione senza che al contempo sia garantita una simultaneità di ogni momento precedente con i successivi. Se, ad esempio, voglio rappresentare il lasso di tempo da un’ora a un’altra, o ugualmente una qualunque unità numerica finita, devo in primo luogo rappresentarmi le molteplici rappresentazioni una dopo l’altra; ma se nel succedersi delle rappresentazioni io man mano non riproduco quelle precedenti, non potrei mai avere una rappresentazione intera. Dunque è necessario che alla sintesi dell’apprensione si colleghi la sintesi della riproduzione, che viene operata dall’immaginazione.

III) Sintesi della ricognizione nel concetto. Le due precedenti sintesi non sono però sufficienti per assicurare alle condizioni soggettive del pensiero una validità oggettiva. Affinché l’oggetto pensato abbia un’identità nel cambiamento, è necessario riferirlo ad una coscienza. Se infatti non avessimo la coscienza che ciò che pensiamo è il medesimo che pensavamo un momento prima, al molteplice della rappresentazione non potrebbe essere assicurata alcuna unità. La coscienza perciò è già presupposta come funzione unificante nell’apprensione intuitiva e nella riproduzione immaginativa: «questa coscienza una è quella che unifica il molteplice, quel che s’intuisce a poco a poco e poi anche si riproduce»4

. Soltanto perché appartiene ad una stessa coscienza, un

1 K, p. 34. 2 Ibidem. 3 CRP, p. 527. 4 Ivi, p. 529.

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molteplice rappresentato può essere a sua volta riferito ad un oggetto ed essere così compreso in un concetto. Di modo che il termine “concetto”, in definitiva, per Kant non significa altro che la coscienza di un’unità nella sintesi.

Ma che cosa intende precisamente il filosofo di Königsberg quando parla di un oggetto delle rappresentazioni? Cosa significa che vi sia un riferimento di un concetto ad un oggetto? Ricordiamo che il rapporto ad un oggetto dei concetti puri a priori è per Kant un fatto, e che nella Deduzione trascendentale si tratta precisamente di spiegare come tale fatto sia possibile. La sintesi della ricognizione ci dice che ciò che rende possibile il rapporto a priori con l’oggetto sono da un lato la coscienza, dall’altro l’oggetto stesso. Di qui la conclusione, fondamentale per la struttura riflessiva della filosofia trascendentale kantiana, che «l’unità richiesta dall’oggetto, non può esser altro che l’unità formale della coscienza nella sintesi del molteplice delle rappresentazioni»1.

L’oggetto ha un’unità esclusivamente perché noi riflettiamo su di esso l’unità soggettiva della nostra coscienza: per questa ragione l’oggettività dell’oggetto si dà inevitabilmente in connessione con la validità oggettiva dei concetti puri.

Senonché la soggettività empirica che si correla alla percezione non è sufficiente per fondare questo rapporto a priori. La struttura trascendentale della riflessione deve allora darsi tra la forma pura dell’atto di pensiero, l’Io penso, e la forma pura dell’oggetto, un qualcosa in generale = x:

L’oggetto in generale è il correlato dell’Io penso, ovvero dell’unità della coscienza, è l’espressione del Cogito, la sua oggettivazione formale. Così la vera formula (sintetica) del Cogito è: io mi penso, e pensandomi, penso l’oggetto in generale al quale riferisco la molteplicità rappresentata2.

Detto in altri termini, il concetto dell’oggetto trascendentale assicura ai nostri concetti il rapporto con gli oggetti, dunque una validità oggettiva, solo in quanto esso è il risultato della riflessione dell’Io penso3. Ed esattamente perché la sua attività è di riflessione, l’Io

1 Ibidem. 2 K, pp. 33-34.

3 Non si deve confondere il rapporto di priorità tra la validità oggettiva e l’accordo intersoggettivo o

validità comune. La connessione di un molteplice sensibile espressa da un concetto vale universalmente

per tutti i soggetti perché ha una validità oggettiva (dunque perché, attraverso le categorie, è ricondotta a

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penso può essere inteso da Kant come il fondamento della sintesi a cui si deve ricondurre non semplicemente l’uso dell’intelletto ma, più in generale, ogni esperienza nella sua possibilità1. Il «fondamento trascendentale dell’unità della coscienza nella sintesi del molteplice» è infatti anche fondamento «dei concetti degli oggetti in generale» e, di conseguenza, «di tutti gli oggetti dell’esperienza»2. L’Io penso riflette su di sé la propria attività, e in questo atto di riflettere è «forma dell’esperienza»3:

l’autocoscienza dell’identità del pensare costituisce, al contempo, l’unità di tutti i fenomeni rappresentati nei concetti.

Ma in che modo si attua la riflessione? Come viene chiarito ampiamente dalle ricerche di Heidegger, i concetti dell’intelletto non sono altro che rappresentazioni della generalità che consegue dall’atto del riflettere4: nella sintesi riflessiva che forma il

concetto non è semplicemente rappresentata una pluralità di oggetti, bensì il loro esser comune [Gemeinschaft], che li pone in rapporto astraendo dalle differenze singolari (è così che il concetto diventa a tutti gli effetti «enunciabile dei singoli oggetti»5). Tale

procedimento astrattivo-connettivo dei concetti, in forza di cui un oggetto è individuato come tale, non è altro che l’espressione del riflettersi dell’Io penso nell’oggetto in generale: le rappresentazioni non sarebbero affatto unite in una coscienza (cioè non rappresenterebbero un oggetto determinato), «senza che il molteplice che sintetizzano sia per ciò stesso riferito ad un oggetto in generale»6. Di qui si potrebbe concludere che il concetto determini il molteplice soltanto in vista della sua concordanza e della sua unificazione; ma ciò sarebbe un fraintendimento. Infatti, la determinazione concettuale oggettivamente valida e necessariamente vera non perché io possegga la medesima costituzione categoriale di ciascun altro soggetto, ma perché le categorie sono condizioni pure del conoscere fondate sull’appercezione trascendentale, che implicano, a priori, l’unità dell’oggetto trascendentale. Su questo punto si veda L.Lugarini, La logica trascendentale kantiana, Milano 1950, pp. 224-231.

1

È significativo il fatto che Kant usi il verbo pensare invece che conoscere: l’unità della coscienza espressa dall’Io penso non riguarda la sola facoltà del conoscere, ma anche quella più ampia del pensare, e per suo tramite ogni altra facoltà in quanto produttiva di rappresentazioni.

2 CRP, p. 531. 3 Ivi, p. 533.

4 Cfr. M. Heidegger, Interpretazione fenomenologica della Critica della ragion pura di Kant, tr. it. R.

Cristin., Milano 2002, p. 136. Heidegger è senz’altro uno dei punti di riferimento essenziali nell’interpretazione deleuziana di Kant. Per quanto di estremo interesse da un punto di vista sia teoretico sia storico-critico, sarebbe esorbitante rispetto ai nostri fini sviluppare qui uno specifico confronto tra le letture kantiane di Heidegger e di Deleuze. Ci limiteremo per questo a dei semplici richiami, senza pretendere di esaurire il problema.

5 Ivi, p. 144. 6 K, p. 33.

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si attua tanto nell’identità quanto nella differenza di un molteplice oggettivo: «ogni concetto contiene un molteplice sotto di sé, in quanto questo molteplice concorda, ma anche in quanto è diverso»1. Ne viene che un molteplice è oggettivo, cioè può essere rappresentato concettualmente come molteplice, soltanto se la sua differenza è derivata dal concetto che lo determina2: un molteplice, scrive Deleuze, «non potrebbe mai riferirsi ad un oggetto, se noi non disponessimo dell’oggettività come di una forma in generale»3.