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3. Piano della tesi

2.1. L’immagine del pensiero

2.1.2. Ambivalenza di Kant

2.1.2.3. Hölderlin: fuori dai cardini del tempo

Per ragioni che esporremo a breve, secondo Deleuze l’idea del tempo come forma vuota e come incrinatura dell’Io viene messa in luce da Kant senza tuttavia essere sviluppata coerentemente e fino in fondo: resta prevalente, in Kant, l’esigenza di superare, di ricomporre l’incrinatura in vista di una fondazione puramente attiva dell’Io,

1 A questo riguardo il riferimento esplicito di Deleuze è M. Heidegger, Kant e il problema della

metafisica, trad. it. di M.E. Reina, rivista da V. Verra, Roma-Bari 1981, § 34, pp. 162-168. Heidegger

attribuisce all’autoaffezione pura in cui consiste il senso interno una funzione fondante rispetto alla «struttura trascendentale originaria del se-stesso finito in quanto tale» (ivi, p. 164). Il soggetto kantiano è finito precisamente in quanto caratterizzato dall’intima trascendenza risultante dall’autoaffezione, il cui movimento, definito da Heidegger come un «muovere da sé, dirigendosi a..., per tornare su di sé» (ibidem), non costituisce affatto una forma di temporalità ascrivibile alla successione empirica, ma la condizione stessa in base alla quale qualcosa come una temporalità empirica risulta possibile: «se il tempo, come autoaffezione pura, fa sorgere il puro succedersi della serie di “adesso”, questo suo derivato, percepito per sé solo nell’abituale “computo del tempo”, non può assolutamente soddisfare all’esigenza di una piena determinazione della sua essenza» (ivi, pp. 166-167). Il tempo puro è infatti per Heidegger a- temporale, e come tale corrispondente alla stabilità e permanenza assicurata all’Io dal proprio continuo riferirsi a sé. Come si può facilmente cogliere dalla nostra esposizione, Deleuze riprende in sostanza la concezione heideggeriana dell’autoaffezione articolandola però sotto il profilo dell’intensità e accentuando l’importanza del legame tra trascendenza soggettiva e vuotezza formale del tempo. Per uno studio approfondito del rapporto tra i due filosofi, rimandiamo a G. Rae, Ontology in Heidegger and

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tanto in ambito speculativo quanto, soprattutto, in ambito morale. Da questo punto di vista, il compimento delle intuizioni lasciate da lui in sospeso lo si può trovare in Hölderlin; per Deleuze è proprio il poeta di Lauffen, molto più che Fichte o Hegel, il vero continuatore della rivoluzione critica.

Prendiamo spunto dalle analisi che, nel corso di Vincennes del 1978, Deleuze dedica ai frammenti di Hölderlin sulla tragedia greca (si tratta degli stessi riferimenti presenti, in forma meno ampia, in Differenza e ripetizione). Sulla base dell’interpretazione hölderliniana, Deleuze stabilisce un confronto tra Eschilo e Sofocle, intendendo con ciò dare rilievo al contrapporsi di due concezioni del tempo: quella di un tempo ciclico, “cardinale”, cioè determinato come misura del movimento, e quella di un tempo lineare, privo di contenuti, che si svincola dalla subordinazione al movimento e si afferma come puro ordine, valido in sé e per sé.

La prima concezione la s’incontra nella tragedia eschilea, la quale si articola in tre momenti fondamentali, formanti nel loro complesso un circolo: a un’iniziale idea di limitazione, giustizia, attribuzione fissa delle parti o dei ruoli, fa seguito una rottura, un eccesso, che a sua volta innesca un gesto regolatore, una restaurazione dell’ordine infranto. Facendo riferimento all’Orestea, scrive Deleuze:

Il momento del limite è il grande Agamennone, è la bellezza della limitazione regale. Poi c’è la trasgressione del limite, cioè l’atto della dismisura: è Clitemnestra, assassina di Agamennone. Poi c’è la lunga riparazione; e il ciclo tragico è proprio tale ciclo della limitazione, della trasgressione e della riparazione. La riparazione è Oreste che vendicherà Agamennone. Ci sarà restaurazione dell’equilibrio del limite che è stato per un momento oltrepassato1.

Deleuze fa notare la coincidenza tra inizio e fine: allorché Clitemnestra si macchia dell’assassinio del marito, il suo destino è già scritto, la riparazione è già divenuta anánke: «come dice il testo stesso di Eschilo, nel momento in cui Agamennone rientra nel palazzo e sta per essere assassinato da Clitemnestra, tutto è già compiuto»2. Il tempo è dunque circolare, è “ricurvo” su se stesso. In tutto ciò, sostiene Deleuze, Eschilo non fa che riprodurre a livello della rappresentazione tragica «la grande idea che attraversa

1 FCT, p. 78. 2 Ibidem.

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tutta la filosofia antica: il tempo come immagine dell’eternità»1. L’eternità è

innanzitutto quella degli astri, i cui spostamenti si dispiegano per sfere concentriche che riproducono a livelli gerarchicamente differenti un cerchio, figura del movimento perfetto (Deleuze fa qui riferimento in particolare ai movimenti degli otto pianeti di cui parla il Timeo platonico); così che l’anno del mondo, cioè il momento nel quale tutti gli spostamenti relativi ritornano alla loro posizione iniziale, costituirà il cerchio dei cerchi che realizza il ripristino della giustizia, la riparazione dell’ordine originale. Se il tempo dunque si dispone in circolo, ciò dipende essenzialmente dal fatto che lo s’intende come movimento della natura (come «numero del movimento secondo il prima e il poi»2, secondo la celebre formula di Aristotele), movimento a prescindere dal quale esso né sarebbe concepibile né tantomeno esisterebbe.

Ora, con la tragedia di Sofocle e in particolare con la figura di Edipo, come Hölderlin mirabilmente intuisce, vi è a questo riguardo un radicale cambiamento di prospettiva: il nucleo della dinamica tragica non è più l’oltrepassamento e la restaurazione del limite, ma la sua sottrazione. Il limite diviene cioè tensione infinitamente ripetuta, nella quale non siamo rinviati né a una colpa esattamente individuabile né a un riequilibrio di cui sia possibile avere previsione: il castigo di Edipo è appunto il continuo differimento del momento del riscatto3, che giungerà solo con la morte. Per questo la temporalità cessa di essere assoggettata alla forma circolare, per farsi linea retta. Richiamando la formula hölderliniana, scrive Deleuze:

In Edipo l’inizio e la fine non rimano più. E la rima è precisamene l’arco in cui il tempo si curva, in modo tale che inizio e fine rimino tra loro: c’è stata riparazione dell’ingiustizia. In Edipo il tempo è divenuto una linea retta che è la linea stessa su cui va errando Edipo. Non sarà più data riparazione se non nella forma radicale della morte. Edipo è in un perpetuo rinvio, percorre la propria linea retta del tempo. In altri termini, è attraversato da una linea retta che lo trascina. Verso dove? Verso niente4.

1 Ivi, p. 76.

2 Aristotele, Fisica, XI, 219 b2, trad. it. a cura di M. Zanatta, Torino 1999, p. 243.

3 Cfr. FCT, p. 78: «Nel caso di Edipo non si può più dire che siamo nell’orizzonte di chi trasgredisce il

limite, di chi si sottrae al limite. Nel caso di Edipo, è il limite che si sottrae».

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Secondo Deleuze è nella scoperta di questa temporalità lineare “che non porta a niente”, che risiederebbe tutta la modernità attribuita da Hölderlin a Sofocle. Hölderlin infatti intende il disporsi del tempo in linea retta come il risultato di una cesura, la quale «distribuisce un prima e un dopo non simmetrici»1, un inizio e una fine che non rimano tra loro. Se vi è connessione tra le estasi del tempo, essa non dipende per nulla da un ordine empiricamente determinabile, da un meccanismo o da una successione, ma è il risultato di un evento che, producendosi in «un istante zero»2, le dispone in modo ineguale. Sia nell’Edipo re sia nell’Antigone la cesura è rappresentata per Hölderlin dai discorsi di Tiresia: essi coincidono con l’irrompere sconvolgente del divino che, trascinando la vita umana «in un altro mondo, nella sfera eccentrica dei morti»3,

interrompe la normale scansione temporale per mettere in moto una distribuzione del tempo in cui «la successione del calcolo e il ritmo vengono divisi»4. A una tale temporalità improvvisa, che costituisce il culmine stesso del “trasporto” drammatico, corrisponde una sospensione autoriflessiva della funzione significante: la parola non significa più alcunché, ma si esibisce come pura parola [reine Wort], cioè come parola che, non potendo più portare oltre l’ordinaria capacità rappresentativa (per la quale appunto vi è un succedersi di rappresentazioni concatenate), non rappresenta altro che il proprio stesso, semplice, rappresentare5; è l’elemento fondamentale della forma tragica, che nel frammento intitolato Il significato della tragedia Hölderlin definisce anche come il paradosso del segno in sé, il quale è «insignificante, senza effetto»6. Tanto il tempo quanto il segno cadono dunque nel vuoto, e sono posti uguali a zero.

1 Ibidem. 2 Ibidem.

3 F. Hölderlin, Note a Sofocle, in Scritti di estetica, trad. it. di R. Ruschi, Milano 2004, p. 136. 4 Ibidem.

5 «Il trasporto tragico è dunque propriamente vuoto, ed è il più privo di vincoli. Per questo motivo, nella

ritmica successione delle rappresentazioni in cui il trasporto si rappresenta, diviene necessario ciò che

nella metrica si chiama cesura, la pura parola, l’interruzione controritmica, così da fronteggiare il

trascinante alternarsi delle rappresentazioni giunto al suo culmine, in modo tale che in seguito appaia non più l’alternanza della rappresentazione, ma la rappresentazione stessa» (ibidem). Lo sciogliersi del ritmo dal calcolo è appunto l’emergere del controritmo come cesura, come istante eccentrico che rende possibile nella sua vuotezza il trapassare e il reciproco collegarsi dei contenuti rappresentati. È chiaro qui il sovrapporsi di una considerazione tecnica sulla struttura metrica del dramma a una riflessione sulla natura stessa del tempo umano. Su questo e più in generale sulla nozione hölderliniana di cesura, cfr. E. Forcellino, Hölderlin e la filosofia. L’uno in se stesso diviso, Napoli 2004, pp. 149-152.

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Ora, esattamente «questa forma del tempo è quella propria della coscienza moderna, in opposizione alla coscienza antica del tempo»1. Per Deleuze con essa si realizza il completo proscioglimento del ritmo temporale dall’ordine numerato del movimento: ciò che diviene è il tempo stesso, invece che qualcosa al suo interno.

Il tempo non si rapporta più al movimento che misura, ma il movimento al tempo che lo condiziona. […] Il tempo diventa quindi unilineare e rettilineo, non più nel senso in cui misurerebbe un movimento derivato, ma in sé e per sé, in quanto impone a ogni movimento possibile la successione delle sue determinazioni. È una rettificazione del tempo. Il tempo cessa di essere curvato da un Dio che lo fa dipendere dal movimento. Cessa d’essere cardinale e diviene ordinale, puro ordine del tempo vuoto2

.

The time is out of joint, il tempo è fuori dai cardini. Evocando l’espressione dell’Amleto shakespeariano, Deleuze arriva a definire la struttura stessa del tempo vuoto, di cui la cesura costituisce l’operazione fondamentale.

Il cardine, cardo, indica la subordinazione del tempo ai punti, propriamente cardinali attraverso i quali passano i movimenti periodici che esso misura. Finché il tempo resta nei suoi cardini, è subordinato al movimento estensivo: ne é misura, intervallo o numero3.

Ora, l’uscire del tempo dai propri cardini non è altro che il risultato dell’accadere della cesura, dell’evento incalcolabile che, interrompendone il flusso regolato sui contenuti empirici, dà luogo in esso a uno sconvolgimento a partire dal quale il prima e il poi si distribuiscono in modo letteralmente innaturale. Il passato, il presente e il futuro smettono di articolare il tempo secondo una successione simmetrica, per diventare le dimensioni diseguali e sproporzionate del suo stesso improvviso mutare, dimensioni che dunque esprimono lo svolgersi non più di contenuti dati nella forma del tempo, bensì del tempo stesso come forma vuota. È così che, distribuendosi asimmetricamente sui due lati dell’evento-cesura, il tempo rimuove da sé qualunque naturalità, e si afferma

1 Ibidem. 2 CC, p. 44. 3 Ivi, p. 43.

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come tempo essenzialmente umano, «tempo della città e nient’altro»1: puro ordine del

tempo.

Deleuze sottolinea come per Hölderlin questo tempo sia anche quello in cui Dio e l’uomo divengono reciprocamente infedeli: allorché la temporalità ciclica è dissolta, è dissolto pure il rapporto che univa il divino e l’umano in uno scambio armonico, garantito dai momenti cardinali in cui il corso del tempo faceva ritorno su di sé. Scrive Hölderlin:

Ai confini estremi della sofferenza, non sussistono che le condizioni del tempo e dello spazio. Qui l’uomo dimentica se stesso, essendo egli totalmente calato nel momento; il Dio dimentica se stesso, non essendo altro che tempo; entrambi sono infedeli: il tempo poiché in un simile momento si rovescia in modo categorico e fa sì che in esso inizio e fine non si accordino in alcun modo; l’uomo perché in un simile momento deve seguire il capovolgimento categorico e di conseguenza nel seguito non può in alcun modo somigliare a ciò che era all’inizio2

.

Il tempo non è più subordinato ai propri contenuti, ma tutto si subordina al tempo come a una pura forma. Conseguentemente, rileva Deleuze, sia l’uomo sia Dio sono trasfigurati nella loro essenza: da una parte la vita dell’uomo non segue più i cicli della natura, ma è proiettata in un tempo lineare, del tutto immanente, di cui essa costituisce la cesura; dall’altra parte Dio non è più il padrone del tempo, non svolge più la funzione demiurgica del piegare, lavorare, indirizzare il tempo secondo le leggi cosmiche, poiché è divenuto lui stesso tempo. Questa trasfigurazione ha come esito la reciproca infedeltà di Dio e dell’uomo: Dio è infedele all’uomo in quanto divinità senza volto, forma vuota che non si mostra all’esperienza umana se non come assenza, l’uomo è infedele a Dio in quanto incapace di sollevarsi sopra la puntualità dell’istante e quindi di comprendere in modo unitario l’inizio e la fine del proprio agire. Così l’uomo scopre di essere essenzialmente incapace di riconoscersi: “egli non è più ciò che era all’inizio”, la sua esistenza non è altro che questo infinito sviarsi da sé. Ed è proprio perché non riconosce se stesso, ossia perché, non riuscendo ad attribuirsi alcuna identità, continuamente si

1 Ivi, p. 45.

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dimentica chi è, che l’uomo non è di conseguenza nemmeno in grado di riconoscere Dio1.

Secondo Deleuze, in ciò consiste il duplice senso che Hölderlin attribuisce al capovolgimento categorico [kategorische Umkehr]: «Dio si volge via dall’uomo che a sua volta si volge via da Dio. È per questo che Edipo è detto da Sofocle “átheos”, che non vuol dire “ateo”, ma “colui che è separato da Dio”»2. L’uomo e Dio continuano

quindi a comunicare, tuttavia tale comunicazione ha come risultato il prodursi di un’assoluta lontananza o di un’infedeltà a causa della quale appaiono entrambi svuotati (si tratta infatti una comunicazione che avviene nel completo silenzio del segno = 0): l’uomo è coscienza vuota del vuoto tempo che è Dio.

2.1.2.4. L’Io penso come principio più generale della rappresentazione: