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3. Piano della tesi

1.5. Il rapporto libero e indeterminato tra le facoltà nella Critica del Giudizio

1.5.4. L’esibizione delle Idee nella Natura

1 CG, Nota generale all’esposizione dei giudizi riflettenti estetici, p. 121. 2 K, p. 90.

3 Come suggerisce Gianni Carchia, questi due aspetti della destinazione sono tra loro strutturalmente

connessi: la preparazione alla moralità si dà a conoscere attraverso il sublime dinamico soltanto dopo che il sublime matematico ha mostrato all’uomo la disarticolazione delle sue capacità speculative e lo ha proiettato al di sopra del mondo sensibile. In questo modo, sottolinea Carchia, «lo spazio che separa il primo sublime dal secondo è lo stesso che misura la distanza fra la dialettica trascendentale delle idee nella prima Critica e la loro affermazione pratica nella seconda». Cfr. G. Carchia, Kant e la verità

dell’apparenza, Torino 2006, p 70.

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Il sentimento del sublime ci ha posto di fronte a un puro rapporto soggettivo tra le facoltà: il riferimento al mondo esterno si dà in esso immediatamente, attraverso una proiezione del nostro stato d’animo, e questa proiezione stabilisce un contatto con ciò che in natura eccede la dimensione della forma (informità e deformità). Anche il sentimento del bello esprime un rapporto tutto interno al soggetto, tuttavia esso non si produce che in corrispondenza della riflessione di forme oggettive.

Per quanto indifferenti noi siamo all’esistenza dell’oggetto, non di meno c’è un oggetto rispetto a cui, in occasione di cui proviamo la libera armonia tra il nostro intelletto e la nostra immaginazione1.

Da questo punto di vista, il bello pone un problema più complesso rispetto a quello che poneva il sublime; infatti, non si tratta in esso di considerare semplicemente un accordo tra le facoltà, ma il prodursi concomitante di due accordi: il primo interno, tra le sole facoltà del soggetto, e il secondo esterno, tra le stesse facoltà che si accordano e la natura. Ecco perché a proposito del bello si manifesta la necessità di una vera e propria deduzione. Si tratta di un’importante ripartizione che scandisce il giudizio di gusto: il sublime può mostrarci una genesi immediata dell’accordo poiché riflette la natura negativamente, come una grandezza o una potenza che, eccedendo i nostri limiti, ci rimanda solo agli effetti che essa suscita nel nostro animo; per quanto riguarda il giudizio sul sublime non c’è dunque bisogno di una deduzione, o meglio, la sua esposizione è essa stessa già una deduzione. Il bello, invece, ci mostra la natura secondo una proprietà positiva, ossia in quanto capace di «produrre degli oggetti che si riflettono formalmente nell’immaginazione»2; coinvolgendo un duplice ordine, soggettivo e

oggettivo, la genesi dell’accordo non può avvenire che in virtù di una mediazione: per questo il giudizio sul bello ci richiede di dedurre un principio a priori il quale (sebbene solo soggettivamente) ne legittimi l’universalità3.

1 Ivi, p. 77. 2 Ibidem.

3 Una tale deduzione si pone il compito legittimare la pretesa del giudizio di gusto che, scrive Kant, «il

piacere di uno possa essere prescritto come regola agli altri» (CG, cit., § 31, p. 136). Tutta la difficoltà del caso consiste nel non cadere né, da una parte, in una prova su base empirica (empirismo della critica del gusto), per la quale «l’oggetto del nostro piacere non sarebbe distinto dal piacevole» (ivi, § 58, p. 210), né, dall’altra, in una dimostrazione razionalistica che, riconducendo la singolarità e soggettività del

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Naturalmente non possiamo intendere tale deduzione né nei termini di una sottomissione necessaria, né tantomeno in quelli di un accordo finale o teleologico: «se ci fosse sottomissione necessaria, il giudizio di gusto sarebbe autonomo e legislatore; se ci fosse finalità reale oggettiva, il giudizio di gusto smetterebbe di essere autonomo»1. Per spiegare il connettersi di due piani, quello della natura e quello delle facoltà del soggetto, caratterizzati da legislazioni eterogenee e indipendenti, si dovrà allora parlare di un accordo contingente e senza scopo2. Se è vero infatti che «la natura obbedisce soltanto alle sue leggi meccaniche, mentre le nostre facoltà obbediscono alle nostre leggi specifiche»3, nondimeno nel bello, tra questi poli contrapposti, si rende visibile un accordo; il nocciolo del problema consiste, appunto, nel comprendere su che base esso possa prodursi. Del discorso kantiano a Deleuze importa sottolineare nella fattispecie questo punto:

L’idea dell’accordo senza scopo tra la natura e le nostre facoltà definisce un interesse della ragione, un interesse razionale legato al bello. È chiaro che questo interesse non è un interesse per il bello in quanto tale, e che è del tutto diverso dal giudizio estetico. Altrimenti, tutta la Critica del Giudizio sarebbe contraddittoria: infatti, il piacere del bello è interamente disinteressato, e il giudizio estetico esprime l’accordo tra l’immaginazione e l’intelletto senza intervento da parte della ragione4

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giudizio di gusto all’universalità logica dei concetti (razionalismo della critica del gusto), renderebbe indistinguibile il sentimento estetico suscitato dal bello da quello morale correlato al buono. Infatti, scrive Kant, poiché «in tal caso non si ha un giudizio di conoscenza, né teoretico, che abbia a fondamento il concetto d’una natura in generale, fornito dall’intelletto, né pratico (puro), fondato sull’idea della libertà, fornita a priori dalla ragione, e poiché per conseguenza, non è da legittimare a priori la validità di un giudizio che rappresenti ciò che una cosa è, o ciò che si deve fare per produrla, allora si dovrà dimostrare semplicemente, per il Giudizio in genere la validità universale di un giudizio singolare, il quale esprime la finalità soggettiva di una rappresentazione empirica della forma d’un oggetto, per spiegare, così, come sia possibile che qualcosa piaccia puramente nel giudizio» (ivi, § 31, p. 136).

1 ID, p. 77.

2 La contingenza e l’assenza di scopo non sono altro che gli aspetti che nell’accordo esterno (rapporto tra

le facoltà del soggetto e la natura) corrispondono alla libertà e indeterminatezza dell’accordo interno (rapporto reciproco tra le facoltà). Cfr. ivi, p. 72: «Sotto due aspetti la Critica del Giudizio ci introduce in un elemento nuovo, che sembra essere l’elemento di fondo: un accordo contingente degli oggetti sensibili con tutte le facoltà nel loro insieme, al posto di una sottomissione necessaria una sola di queste facoltà; un’armonia libera e indeterminata tra le facoltà, al posto di un’armonia determinata sotto il presidio di una di esse».

3 Ivi, p. 77. 4 Ivi, p. 78

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Si tratta dunque di un interesse che riguarda non direttamente il bello, ma l’attitudine della natura a produrre forme belle. Entriamo più nello specifico: per Kant, nel momento stesso in cui proviamo un piacere disinteressato di fronte alle forme belle, sulla base dell’accordo tra l’immaginazione e l’intelletto, la ragione ci spinge anche ad avere un interesse verso l’accordo che si produce esternamente tra la natura in quanto capace di produrre forme belle e il nostro animo in quanto capace di rifletterle attraverso il giudizio. Ora, è proprio un tale interesse “metaestetico”, connesso alla sfera soggettiva e tuttavia al contempo esterno ad essa, rivolto ad un accordo privo di condizionamento, a costituire secondo Deleuze il principio per una genesi del senso del bello nella sua universalità o validità comune.

In quanto questo accordo è esterno all’accordo tra le facoltà e in quanto definisce soltanto l’occasione in cui le nostre facoltà si accordano, l’interesse legato al bello non fa parte del giudizio estetico. Pertanto, può servire senza contraddizione da principio di genesi per l’accordo a priori tra le facoltà in questo giudizio1.

Per capire bene questo passaggio, dobbiamo spostare lo sguardo dal polo soggettivo del sentimento del bello a quello dell’oggetto che lo induce. Sarà allora facile vedere perché l’interesse razionale legato al bello attenga a tutte quelle determinazioni (come colori e suoni) che non rientrano come tali nella riflessione formale: esso si rivolge non «alla forma bella in quanto tale, ma alla materia usata dalla natura per produrre oggetti capaci di riflettersi formalmente»2. Il colore dei fiori, il suono del canto degli uccelli,

l’eleganza della conformazione di piante e animali sono esempi tra gli altri di libere materie che, offrendosi in un accordo contingente, «non si riferiscono semplicemente a dei concetti determinati dell’intelletto. Essi vanno oltre l’intelletto, “danno occasione a pensare” molto più di quel che è contenuto nel concetto»3. È infatti la ragione che qui

entra in scena, esibendo le sue Idee nella natura sensibile attraverso un procedimento che, insieme, libera l’immaginazione e rende indeterminato l’intelletto.

Questa esibizione non è chiaramente assimilabile a quella schematica che mira all’attestazione della realtà oggettiva dei concetti. Poiché infatti alle Idee razionali non

1 Ibidem. 2 K, p. 91. 3 ID, p. 79.

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possiamo fare corrispondere alcuna intuizione adeguata, la loro esibizione può esserci data solo simbolicamente o per analogia, cioè in quanto facciamo ricorso a una rappresentazione indiretta che ha in comune con l’intuizione la “forma della riflessione”, ma non il contenuto. Così, allorché veniamo a contatto con la materia dell’oggetto bello, l’interesse razionale ci induce a operare quella che Kant, nel § 59 della Critica del Giudizio, definisce una «traslazione della riflessione su un oggetto dell’intuizione a un concetto del tutto diverso, al quale forse non potrà mai corrispondere direttamente un’intuizione»1. In altri termini, l’attenzione deve essere

portata non al “che cosa”, bensì al “come”: tra l’Idea e l’oggetto sensibile può instaurarsi un rapporto analogico perché essi possiedono la medesima regola di riflessione, sebbene non vi sia nulla a collegarle sotto il profilo della determinazione oggettiva. Con le parole di Deleuze:

Nei suoni, nei colori, nelle materie libere, la Ragione scopre altrettante presentazioni delle sue Idee. Per esempio, non ci accontentiamo di sussumere il colore sotto un concetto dell’intelletto, ma lo mettiamo in rapporto anche con un concetto del tutto diverso (Idea della ragione), che non ha di per sé un oggetto di intuizione, ma che determina il suo oggetto per analogia con l’oggetto di intuizione corrispondente al primo concetto. […] Il giglio bianco non è più semplicemente rapportato ai concetti di colore e di fiore, ma risveglia l’Idea di pura innocenza, il cui oggetto, mai dato, è un analogo riflessivo del bianco del fiore di giglio2.

Da ciò si comprende in che modo l’interesse metaestetico della ragione possa costituire il principio dell’accordo tra le facoltà nel sentimento del bello. Nell’esibizione simbolica delle Idee, continua infatti Deleuze, sono contemporaneamente e reciprocamente messe in atto dall’intervento della ragione sia la capacità riflessiva dell’immaginazione sia l’indeterminazione dell’intelletto: «da una parte, i concetti dell’intelletto si ritrovano allargati all’infinito, in modo illimitato; dall’altra, l’immaginazione si ritrova liberata dalla costrizione dei concetti determinati dell’intelletto, che essa subiva ancora nello schematismo»3. L’accordo tra

1 CG, § 59, p. 217; traduzione modificata. 2 ID, p. 79.

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l’immaginazione e l’intelletto cessa quindi di essere semplicemente presupposto per essere «in qualche modo animato, vivificato, generato»1 dall’interesse razionale legato al bello. Come nel sublime, anche in questo caso la genesi testimonia dell’unità soprasensibile delle facoltà sotto la forma della destinazione morale. Solo che, mentre la testimonianza che ci procurava il sublime era diretta e negativa, quella che ora ci procura l’interesse metaestetico è indiretta e positiva. Nel bello noi scorgiamo infatti un simbolo del bene: esso «ci dispone a essere morali, ci destina alla moralità»2.

Facciamo un breve riepilogo. Abbiamo visto che, nel sentimento del bello, l’accordo tra le facoltà, per quanto libero e indeterminato, non è in grado di trovare in sé un principio valido per la propria genesi. Diversamente dal sublime, che presenta una genesi immediata, e che quindi porta a coincidere l’esposizione e la deduzione, nel bello la genesi è mediata, e l’esposizione distinta dalla deduzione: l’accordo richiede, cioè, un principio esterno a se stesso. Questo principio è costituito dall’interesse che la ragione (cioè una terza facoltà rispetto alle facoltà coinvolte nell’accordo) prova per le libere materie usate dalla natura nella produzione delle forme belle: si tratta di un interesse che non definisce una «sottomissione necessaria di questa natura a una delle nostre facoltà, ma solamente il suo accordo contingente con tutte le nostre facoltà contemporaneamente»3: all’interno di tale accordo, nel momento in cui la materia diventa oggetto di una simbolizzazione da parte delle Idee, la ragione libera l’immaginazione e rende indeterminato l’uso dell’intelletto. Così, essa fa convergere le facoltà verso l’unità indeterminata soprasensibile che, in quanto centro dell’animo, ne costituisce l’origine e la destinazione trascendentale.

Sia il sentimento del bello sia il sentimento del sublime ci riportano dunque all’unità indeterminata, ma tale unità si presenta diversamente a seconda che noi la consideriamo dal punto di vista dell’uno o dell’altro sentimento4. Si tratta di una

1 K, p. 94. 2 Ivi, p. 95. 3 Ivi, p. 92.

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Da questo punto di vista, alle genesi del sublime e del bello naturale deve aggiungersi per Deleuze la genesi del bello artistico, che trova nel Genio il proprio principio. «Come l’interesse razionale è l’istanza per la quale la natura dà la regola al giudizio, così il genio è la disposizione soggettiva per la quale la natura dà le regole all’arte» (ID, p. 81). In entrambi i casi, il rapporto con la natura è visto come occasione di una presentazione sensibile delle Idee: sia l’interesse razionale per il bello sia il Genio sono principi metaestetici, esterni rispetto all’oggetto bello in quanto tale e tuttavia indispensabili alla percezione della sua bellezza. Ma nel caso del bello naturale l’interesse razionale non riguardava che l’attitudine materiale della natura a produrre oggetti belli; nel caso del bello artistico, invece, è il Genio

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differenza di profondità: se nella genesi del bello vi è già un soggetto, e si tratta di capire come quest’ultimo si rapporti all’oggetto attraverso il piacere, nella genesi del sublime l’attenzione si concentra sui processi passivi che nel sentimento precedono l’essersi già costituito di qualcosa come un soggetto. Da questo punto di vista, il sublime non ci colloca, come invece fa il bello, nell’esercizio armonioso e proporzionato della rappresentazione, avente come presupposto fondamentale il riconoscimento di sé; al contrario, esso ci pone a fronte di un esercizio paradossale o, per dirla con Deleuze, di un esercizio “trascendente” che corrisponde alla radicale disarticolazione di quelle capacità rappresentative che consentono al soggetto di riconoscersi come un che d’identico, come uno Stesso: nel momento in cui le facoltà trascendono i limiti del loro esercizio ordinario e accedono alla dimensione del disordine, della costrizione, dell’inatteso, il soggetto a cui esse sono riferite trascende la propria identità e scopre in sé un Altro, una “mostruosa” Differenza irriducibile al piano della rappresentazione. Così, mentre il bello fa apparire l’unità indeterminata come un stesso ad apportare «una materia attraverso cui il soggetto che esso ispira realizza delle opere belle» (ibidem). Di qui tutta la distanza che intercorre tra le Idee razionali e le Idee estetiche di cui si serve il Genio nella sua inventiva: mentre l’Idea razionale oltrepassa ogni intuizione perché contiene in sé qualcosa d’inesprimibile immediatamente sul piano fenomenico, «l’Idea estetica oltrepassa ogni concetto, perché crea una natura altra da quella che ci è data: un’altra natura, nella quale i fenomeni sarebbero veri eventi spirituali e gli eventi dello spirito determinazioni naturali immediate» (K, p. 97). In questo modo, l’Idea estetica non è che il completamento dell’Idea razionale: «esprime ciò che vi è di inesprimibile in questa» (ibidem). Infatti, nell’intuizione creatrice del Genio troviamo sempre qualcosa che, pur apparendo sotto l’aspetto materiale assolutamente irriproducibile nel concetto (è l’evenemenzialità, l’unicità sorprendente tipica dell’opera di genio), sotto l’aspetto formale «può diventare un esempio per tutti: ispira imitatori, suscita spettatori, genera ovunque il libero accordo indeterminato tra l’immaginazione e l’intelletto che costituisce il gusto» (ID, p. 83). Come il bello in natura, anche il bello artistico presenta dunque un principio che assicura la genesi dell’accordo tra le facoltà; tuttavia, laddove l’interesse legato al bello naturale riguardava ogni spettatore, «il genio è il dono dell’artista creatore, ed è innanzitutto nell’artista che l’immaginazione si libera e che l’intelletto si allarga» (ivi, p. 82). Per questo secondo Deleuze si dovrebbe intendere l’universalità espressa dal Genio non nei termini di una soggettività universale, bensì in quelli di una «intersoggettività eccezionale» (ibidem). In tal senso il Genio è ciò che vivifica, stimola e rinnova il gusto, senza tuttavia identificarsi ad esso; infatti, una volta che il Genio ha creato l’opera d’arte, spetta non allo stesso Genio, bensì al giudizio estetico l’onere di riconoscere ciò che vi è di bello in questa seconda natura. Perciò Kant afferma che «il gusto, come il giudizio in generale, è la disciplina (o l’educazione) del genio» (CG, § 49, p. 180). In altre parole, l’eccezionalità del Genio rende possibile attraverso il gusto la comunicabilità dell’accordo tra l’immaginazione e l’intelletto nelle arti: «il genio è un appello lanciato a un altro genio; ma, tra i due, il gusto diviene una sorta di termine medio che, se l’altro genio non è ancora nato, permette di attendere» (K, pp. 97-98). Nell’invenzione artistica il Genio genera l’accordo estetico tra l’immaginazione e l’intelletto, senza però che questo accordo sia immediatamente universalizzabile: l’operazione del gusto sarà allora quella di interpretare, assimilare, rendere fruibile in una cultura l’atto intempestivo e singolarissimo del Genio. Ma è da ascrivere soltanto al Genio la riconduzione vivente dell’arte all’orizzonte trascendentale in cui tutte le facoltà trovano la loro unità soprasensibile.

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fondo dell’animo a cui tutte le facoltà convergono pacificamente, il sublime fa sorgere in tale unità un inquietante senza-fondo, porta alla luce l’estrema potenza delle facoltà come un dissidio in cui l’armonia, la regolarità, e la stessa forma attiva dell’esercizio sono fatte esplodere.