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3. Piano della tesi

2.1. L’immagine del pensiero

2.1.1. Il cominciamento come cogitatio natura universalis

Se il problema del cominciamento del discorso filosofico richiede tradizionalmente l’oltrepassamento dell’adaequatio del pensiero all’oggetto attraverso la soppressione di ogni presupposto, la posizione di tale problema implica una preliminare comprensione della natura della presupposizione. Riprendendo una distinzione già hegeliana, secondo Deleuze ne esistono essenzialmente due forme: la prima oggettiva, la seconda soggettiva. Per presupposti oggettivi si devono intendere «i

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concetti esplicitamente supposti da un concetto dato»1. Per presupposti soggettivi,

invece, si deve intendere il complesso intreccio di sentimenti, credenze, abitudini, modi di vita, che è contenuto in ogni concetto e che condiziona implicitamente la possibilità di comprenderne il significato. Così, ad esempio, quando presenta la definizione del Cogito, Descartes sta presupponendo che «ognuno sappia senza concetto ciò che significa io, pensare, essere. L’io puro dell’Io penso è quindi una parvenza di cominciamento, nella misura in cui ha rinviato tutti i suoi presupposti nell’Io empirico»2. Da questo punto di vista, la forma inevitabile del cominciamento sembrerebbe essere quella del circolo. Come posso infatti cominciare davvero a pensare se, come osserva José Gil, «prima di tutto è necessario isolare le condizioni di questo cominciamento e farlo precisamente attraverso il pensiero»3? Come posso purificare il

pensiero se esso stesso è già incluso in ciò da cui intende trarsi fuori?

Per iniziare a rispondere, consideriamo più da vicino il presupposto soggettivo. La forma in cui esso si presenta è “tutti sanno, nessuno può negare”. In quanto espressione dell’auto-riconoscimento del pensiero, tale forma, invece che rovesciarla, secondo Deleuze sancisce la presupposizione come orizzonte intrascendibile di svolgimento del pensiero.

Tutti sanno, prima del concetto e in modo prefilosofico…tutti sanno cosa significa pensare ed essere…talché, quando il filosofo dice Io penso dunque sono, egli può supporre come implicitamente compreso l’universale delle sue premesse, cosa vogliono dire essere e pensare… e nessuno può negare che dubitare sia pensare, e pensare essere… Tutti sanno, nessuno può negare, è la forma della rappresentazione e il discorso del rappresentante. Quando la filosofia fonda il proprio cominciamento su presupposti impliciti o soggettivi, può fingere uno stato di purezza, in quanto non ha conservato nulla, salvo è vero l’essenziale, cioè la forma del discorso4

.

Forma del discorso che è dunque, essenzialmente, quella della rappresentazione o del riconoscimento in generale. Non si pensa che per rappresentazioni, per riconoscimenti,

1 DR, p. 169. 2 Ibidem.

3 J. Gil, L’impercettibile divenire dell’immanenza. Sulla filosofia di Deleuze, trad. it. a cura di G. Ferraro

e M. Masini, Napoli 2015, p. 29.

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poiché innanzitutto si presuppone come universalmente riconosciuto ciò che significa pensare: nel momento in cui deve liberarsi dai presupposti per cominciare in modo assoluto, è il pensiero stesso a porsi, rispetto a sé, come un che di presupposto, come un qualcosa di già esistente che soltanto può essere ri-conosciuto. Di conseguenza, l’unica idea possibile che di esso ci possiamo fare è quella di una facoltà naturalmente predisposta al vero, «in consonanza col vero sotto il duplice aspetto della buona volontà del pensatore e di una natura retta del pensiero»1. La buona volontà e la natura retta sono i due postulati attraverso i quali il senso comune si appropria del pensiero e viene elevato a suo elemento fondamentale: «il presupposto implicito della filosofia si trova nel senso comune come cogitatio natura universalis»2. Sotto tale profilo sembrerebbe

quindi che, dovendo indicare un’istanza che a rigore legittimi il cominciamento del pensiero puro, siamo in ultimo rimandati proprio al piano empirico dal quale intendevamo distaccarci.

Per Deleuze in questa circolarità ciò che viene a costituirsi è l’Immagine del pensiero, un’immagine sulla cui base, ancora prima di avere cominciato, ognuno implicitamente sa già che cosa significa pensare: si tratta di un’immagine valida di diritto, prefilosofica, in quanto non concerne semplicemente l’esercizio del pensiero, ma l’ambito stesso della sua legittimità, l’ambito che definisce ciò che esso può in quanto pensiero. «Che il pensare sia l’esercizio naturale di una facoltà, che tale facoltà abbia una natura buona e una buona volontà, ciò non può intendersi di fatto»3. Per questo occorre parlare di una sola Immagine del pensiero, di un’immagine dogmatica e ortodossa che, come è stato lucidamente annunciato da Nietzsche4, rappresenta la Morale della storia della filosofia nel suo insieme, il presupposto implicito che in profondità ne ha condizionato lo sviluppo. Da questo punto di vista diventa indifferente quale contenuto il filosofo abbia scelto per cominciare, poiché è innanzitutto la forma stessa del cominciamento da lui messo in opera a non essere altro che una riproduzione,

1 Ivi, p. 171. 2 Ivi, p. 172. 3 Ivi, p. 173.

4 Cfr. ivi, p. 172: «Quando Nietzsche s’interroga sui presupposti più generali della filosofia, dice che essi

sono essenzialmente morali, poiché solo la Morale è in grado di persuaderci che il pensiero ha una natura buona e il pensatore una buona volontà, e solo il Bene può fondare l’affinità supposta del pensiero con il Vero. Che cosa, in effetti, se non la Morale e il Bene, può dare il pensiero al vero, e il vero al pensiero…?».

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interna al pensiero, del buon senso e del senso comune naturali, cioè l’affermazione del pregiudizio come struttura insuperabile dell’atto puro del pensare.

Invero, il solo “modello” che qui risulta determinante è quello del riconoscimento, il quale «si definisce attraverso l’esercizio concorde di tutte le facoltà su un oggetto supposto lo stesso»1: articolandosi sulla base delle categorie dell’identità e dell’unità, il riconoscimento da un lato riduce le differenti operazioni delle facoltà soggettive al solo pensiero come alla facoltà dell’universale, dall’altro lato riflette tale procedimento unificante sull’oggetto, che risulta perciò un oggetto qualunque sulle cui caratteristiche ciascuno non può che concordare. Scrive Deleuze:

Un oggetto è riconosciuto quando una facoltà lo ravvisa come identico a quello di un’altra o piuttosto quando tutte le facoltà insieme riferiscono il proprio dato e si riferiscono a loro volta a una forma d’identità dell’oggetto. Contemporaneamente, il riconoscimento rivendica quindi un principio soggettivo della collaborazione delle facoltà per “tutti”, cioè un senso comune come concordia facultatum, e la forma d’identità dell’oggetto rivendica, per il filosofo, un fondamento nell’unità di un soggetto pensante di cui tutte le altre facoltà devono essere i modi. Questo è il senso del Cogito come cominciamento: esprime l’unità di tutte le facoltà nel soggetto, esprime perciò la possibilità per tutte le facoltà di riferirsi a una forma di oggetto che riflette l’identità soggettiva e conferisce un concetto filosofico al presupposto del senso comune, ed è il senso comune diventato filosofico2.

Sulla scia della genealogia nietzschiana, è l’intera storia della filosofia a essere qui chiamata in causa, nella misura in cui in essa, da Platone a Descartes, da Kant a Hegel, fino a Heidegger3, il pensiero puro è stato concepito sempre come espressione universale del vero. Ora, è precisamente imboccando questa strada, cioè quella della cogitatio natura universalis o della comprensione del vero secondo un principio di duplice armonia (armonia tra le facoltà nel soggetto e armonia tra il soggetto e l’oggetto), che, dice Deleuze,

1 Ivi, p. 174. 2 Ibidem.

3 Su Hegel e Heidegger, cfr. in particolare CCF, p. 88: «Hegel e Heidegger restano storicisti nella misura

in cui pongono la storia come una forma di interiorità nella quale il concetto sviluppa o disvela progressivamente il suo destino».

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la filosofia non ha più alcun mezzo per realizzare il proprio progetto che era di romper e con la doxa. Senza dubbio, la filosofia rifiuta ogni doxa particolare, non accetta alcuna proposizione particolare del buon senso o del senso comune, e non riconosce nulla in particolare, ma conserva della doxa l’essenziale, vale a dire la forma1.

Finché la risposta alla domanda su che cosa significa pensare sarà data a partire dal presupposto implicito del riconoscimento, finché dunque pensare vorrà dire ricondurre un molteplice dato alla forma dello Stesso, ossia rapportare un oggetto qualunque a un soggetto universale, fino a quel momento gli elementi del pensiero puro saranno necessariamente il buon senso e il senso comune. Il senso comune, come «norma dell’identità, dal punto di vista dell’Io puro e della forma dell’oggetto qualunque»; il buon senso, come «norma di partizione, dal punto di vista dell’io empirico e degli oggetti qualificati»2. Senonché, in questo modo, invece che affermarsi come

rovesciamento della doxa, la filosofia finirà sempre, invariabilmente, per esserne la razionalizzazione o l’innalzamento a istanza universale.

È inevitabile, allora, che una filosofia davvero priva di presupposti, anziché fondarsi sull’Immagine dogmatica del pensiero, dovrà partire «da una critica radicale dell’immagine e dei “postulati” che implica»3. Questa critica non potrà naturalmente

essere il discorso di qualcuno che rappresenta e che rappresentando si appropria del discorso, non potrà cioè soggiacere ancora al modello del riconoscimento; essa apparterrà piuttosto «a qualcuno che non si lascia rappresentare, ma che non vuole nemmeno rappresentare alcunché: non un particolare provvisto di buona volontà e di

1 DR, p. 175.

2 Ibidem. Detto in altri termini, il buon senso costituisce l’operatività del senso comune:«è il buon senso

a determinare l’apporto delle facoltà in ciascun caso, mentre il senso comune apporta la forma dello Stesso»; in tal modo il buon senso e il senso comune si completano andando a costituire «le due metà della doxa» (ibidem). Deleuze qui si richiama al famoso incipit del Discorso sul metodo, nel quale Descartes, definendo il buon senso come «la facoltà di giudicare bene e di distinguere il vero dal falso», e quindi identificandolo con la stessa ragione o lume naturale, afferma che esso «è tra tutte le cose quella meglio distribuita», così che «la diversità delle nostre opinioni non dipende dal fatto che gli uni siano più ragionevoli degli altri, ma semplicemente dal fatto che conduciamo i nostri pensieri per vie diverse, e non consideriamo le stesse cose. Non è sufficiente infatti essere dotati di un buon ingegno, ma l’importante è saperlo applicare bene». Com’è noto, è precisamente all’applicazione del buon senso che si rivolge il metodo cartesiano. Cfr. R. Descartes, Discorso sul metodo, trad. it. a cura di M. Renzoni, Milano 1993, p. 5.

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pensiero naturale, ma un singolare pieno di cattiva volontà, che non perviene a pensare né nella natura né nel concetto»1. Non si tratterà più, infatti, di cominciare a pensare dalla forma dello Stesso, da un’armonia presupposta o da ciò che è riconosciuto. Al contrario, si tratterà di farsi carico nel pensiero dell’incontro con qualcosa di tanto nuovo da risultare irriconoscibile, qualcosa che, facendo violenza al pensiero, mostri il pensiero stesso non come da sempre esistito, ma allo stato nascente, come cominciante per la prima volta. Soltanto in tale impossibilità iniziale di riconoscersi il pensiero potrà essere rigorosamente privo di presupposti, potrà cominciare semplicemente a partire da sé, nell’assolutezza della propria novità2.