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3. Piano della tesi

2.1. L’immagine del pensiero

2.1.2. Ambivalenza di Kant

2.1.2.2. Dalle quantità intensive alla forma vuota del tempo

Il riferimento di Deleuze è qui all’Analitica dei principi della prima Critica, e in particolare alla nozione di quantità intensiva, tematizzata da Kant nelle pagine sulle Anticipazioni della percezione. Deleuze mostra come proprio l’intensità sia la speciale forma quantitativa correlata al limite interno e dunque necessaria per spiegare lo scindersi dell’Io. L’intensità introduce infatti l’idea di una differenza tra determinazioni sensibili sussistenti solo come gradi di una variazione infinita che ne costituisce la negazione o il grado zero, dove il grado zero è il limite o la differenza in sé in funzione di cui i singoli gradi traggono il loro valore. In tal senso, in ogni sensazione determinata estensivamente si danno infiniti gradi che variano intensivamente dallo zero fino alla stessa sensazione che compare a livello dell’estensione: «quale che sia il dato nello spazio e nel tempo, ciò che è dato nello spazio e nel tempo è una quantità estensiva, ma possiede anche un grado, cioè è una quantità intensiva»3.

Ora, che cosa distingue le quantità estensive dalle quantità intensive? L’interpretazione deleuziana di questa distinzione fa leva soprattutto sul concetto di molteplicità e sul criterio dell’esteriorità e dell’interiorità delle parti. Deleuze comincia

1 Ibidem.

2 CC, p. 47. Per Kant, scrive Deleuze, «l’Io [Je] non è un concetto, ma la rappresentazione che

accompagna ogni concetto; e l’Io [Moi] non è un oggetto, ma ciò a cui tutti gli oggetti si rapportano come alla variazione continua dei suoi stati successivi e alla modulazione infinita dei suoi gradi di coscienza» (ibidem).

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considerando le quantità estensive: esse si definiscono secondo Kant come quantità nelle quali «la rappresentazione delle parti rende possibile la rappresentazioni del tutto (e perciò la precede)»1. Poiché le singole parti sono già date, per ricavare l’unità occorre sintetizzarle in successione, l’una dopo l’altra; è proprio in questo modo che si comprende, per esempio, lo scorrere del tempo secondo l’ordine del prima e del poi: rappresentandomi una quantità estensiva, scrive Kant, «io penso soltanto il passaggio da un istante all’altro, per cui tutte le parti del tempo e la loro addizione danno infine una determinata quantità temporale»2. Un secondo, un altro secondo, un altro secondo, ecc.: ecco un minuto. Vediamo bene dunque l’esteriorità delle parti, che vengono apprese successivamente e così totalizzate. La totalizzazione risulta dalle parti, le quali sono già in se stesse delle unità determinate di estensione, cioè delle invariabili che possiedono un valore non solo all’interno del rapporto, ma anche indipendentemente da esso. Da qui la strutturale misurabilità di tutte le intuizioni date nello spazio e nel tempo mediante parametri fissi, costituenti un’assiomatica: ogni fenomeno, per essere intuito, deve essere collocato estensionalmente nello spazio e nel tempo, e in quanto tale unificato secondo una successione addizionale di punti e di istanti determinati e discreti. Allorché viene compresa nell’intuizione [Anschauung], tuttavia, una certa quantità estensiva implica sempre in se stessa anche una quantità intensiva, la quale esprime la sensazione [Empfindung] come materia che, riempiendo la forma intuitiva, attribuisce al fenomeno una realtà [realitas phaenomenon]3. Deleuze chiarisce la nozione d’intensità a partire da due caratteri fondamentali. Il primo di essi è quello dell’istantaneità: «l’apprensione di una quantità intensiva è istantanea, cioè la sua unità non deriva più dalla somma delle sue parti successive»4. Questo spiega perché ad una stessa quantità estensiva possano corrispondere quantità intensive o gradi differenti: considerata nella sua quantità intensiva, ogni sensazione occupa solo un istante, solo un punto. Essa non è

1 CRP, p. 150. 2 Ibidem.

3 Sul rapporto tra sensazione e intuizione, anche in riferimento a Deleuze, cfr. T. Tuppini, Kant.

Sensazione, realtà, intensità, Milano 2005, pp. 21-30. L’autore in modo convincente rileva come la

sensazione, in forza della sua preliminarietà rispetto all’intuizione, dia luogo ad un sapere il quale, senza ancora sfociare in forme oggettuali attraverso una funzione determinante, fa piuttosto capo a «quel soggettivo della nostra rappresentazione nel cui regime di fenomenalità viene barrata ogni possibilità di riferimento intenzionale-conoscitivo» (ivi, p. 22). È precisamente tale forma di sapere non determinante a trovare espressione nella quantità intensiva.

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quindi sintesi estrinseca di un molteplice successivo, ma sintesi interna, sintesi cioè tra parti che esistono solamente dentro il rapporto che esprimono.

Quando dico “ci sono trenta gradi”, il calore corrispondente a trenta gradi non è la somma di tre volte dieci gradi, un calore di trenta gradi non è la somma di tre calori di dieci gradi; è solo al livello delle quantità estensive che 30 è 10+10+10. In altri termini, le regole dell’addizione e della sottrazione non valgono per le quantità intensive1

.

Contrariamente a quanto avviene nelle quantità estensive, nelle quantità intensive è la stessa totalizzazione a produrre le parti, così che ciascuna parte appresa in una determinata intensità non esisterà mai come quantità già data e valida di per sé, ma solo in funzione delle altre parti, come variabile del rapporto.

È proprio tale reciproca inseparabilità delle parti a costituire secondo Deleuze il secondo carattere fondamentale attribuito da Kant alle quantità intensive: «nella misura in cui ciò che è dato possiede una quantità intensiva, cioè un grado, io lo colgo in rapporto al suo prodursi a partire da zero, o in rapporto al suo estinguersi»2. Ora, dire che il grado zero è presente in ciascun grado come principio della sua produzione e del suo annullamento significa dire che ciascun grado implicherà al proprio interno gli infiniti gradi compresi tra sé e il grado zero. La quantità intensiva si viene pertanto a definire come una molteplicità virtuale o di compenetrazione, nella quale si passa dall’uno all’altro termine senza soluzione di continuità, cioè come un’unità che, divenendo in se stessa molteplice, dà luogo a un’infinità di gradi, ciascuno dei quali implica in sé l’infinità di tutti gli altri. «Quantità di questo genere si possono chiamare anche fluenti [fließende]» o continue, nel senso che «in esse non c’è parte che sia la più piccola possibile (cioè una parte semplice)»3. In proposito, nota giustamente Tommaso

Tuppini:

Ogni grado dell’intenso è […] un grado di tensione che ripete in sé le intensità circostanti. Ecco dunque che l’apprensione di un grado intensivo qualsiasi diventa l’apprensione di una molteplicità o, si potrebbe anche dire, di una molteplicità di una molteplicità, di un

1 Ibidem. 2 Ibidem.

3 CRP, pp. 154-155. Non che le quantità estensive non siano continue e rifiutino la divisione infinita; ma

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insieme di molteplicità non sistematizzabile. Infatti per ciascun grado implicato nel grado appreso, si ripete la moltiplicazione dei gradi implicitamente esposti nel primo1.

In altri termini, dacché una quantità intensiva si definisce come una tensione infinita al grado zero, tale tensione si ripeterà infinitamente per tutti i gradi intermedi compresi tra il grado della quantità considerata e il grado zero. Il grado zero si configura in tal senso come il vero e proprio principio dell’indiscernibilità tra i gradi: ogni grado contrae o ripete in sé l’infinità dei gradi con cui entra in rapporto, perché innanzitutto ripete in ciascuno l’approssimazione allo zero. L’unità della quantità intensiva consiste esattamente in una tale moltiplicazione infinita dei gradi intermedi. Il che secondo Deleuze spiega, del resto, perché l’approssimazione allo zero venga posta da Kant alla base non semplicemente della diminuzione, bensì anche della crescita di una qualsiasi sensazione. Scrive Deleuze:

Kant ha dato rilievo al principio dell’intensità definendolo una grandezza appresa nell’istante: ne concludeva che la pluralità contenuta in questa grandezza poteva essere rappresentata solo attraverso la sua approssimazione alla negazione = 0. Pertanto, anche quando la sensazione tende verso un livello superiore o più alto, può farcelo provare solo approssimando questo livello superiore a zero, ossia attraverso una caduta. Quale che sia la sensazione, la sua realtà intensiva è comunque quella di una discesa in profondità più o meno “grande”2

.

Nella caduta, dunque, ciascun grado «scopre in se stesso la condizione della variabilità come elemento costitutivo»3. Ciò comporta che, se il grado di una sensazione

costituisce per Kant, come abbiamo ricordato, la realtà del fenomeno, si dovrà dire che tale realtà può avere una consistenza solo in quanto si approssima allo zero, cioè in quanto tende alla propria dissoluzione: noi possiamo conoscere nell’esperienza qualcosa

1 T. Tuppini, La funzione estetica: alcuni aspetti della lettura deleuziana di Kant, in “Semiotica ed

ermeneutica”, a cura di C. Sini, n. 60, 2003, p. 210. Il riferimento di Tuppini è, in particolare, a Prol., §26, nota 9, p. 307 (citato nel testo in altra ed.): «I gradi sono la grandezza del fondamento di una intuizione, e possono essere valutati come grandezze solo mediante il rapporto da 1 a 0, in quanto che ciascuna di esse può, in un certo tempo, attraverso infiniti gradi intermedi giungere fino a scomparire, ovvero dal nulla crescere, attraverso infiniti momenti di accrescimento, fino a una sensazione determinata».

2 FB, p. 153.

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di realmente determinato essenzialmente perché cogliamo la realtà sensibile, di cui si compone ciascuna intuizione, nel suo rapporto a un’insensibilità di fondo, a un limite che l’attraversa condizionandone lo sviluppo.

Tale limite, precisa Deleuze, non potrà mai diventare un contenuto della coscienza empiricamente determinato: esso è presente alla coscienza come un’assenza, come una x irrappresentabile che gradualmente la svuota dall’interno.

Qui la questione non è affatto di sapere che ci siano uno spazio e un tempo vuoti; la questione è di sapere che, ad ogni modo, c’è una coscienza vuota dello spazio e del tempo, essendo la coscienza determinata da e in funzione del grado zero in quanto principio della produzione di ogni reale nello spazio e nel tempo1.

Per Kant dall’esperienza noi non possiamo ricavare alcuna rappresentazione oggettiva di uno spazio e di un tempo vuoti, giacché ogni punto dello spazio e ogni istante del tempo sono riempiti dalla realtà intensa di una sensazione che, per quanto piccola, sarà sempre maggiore di zero. Eppure, perché ci sia possibile rappresentare oggettivamente qualcosa, deve anche poter essere possibile, egli ammette, «un passaggio graduale dalla coscienza empirica alla pura, dove il reale della coscienza empirica sparisce e rimane una coscienza meramente formale (a priori) del molteplice dello spazio e del tempo»2.

Soltanto a una tale forma vuota della coscienza corrisponde l’intuizione pura = 0 come principio a partire da cui è prodotta la realtà intensiva del fenomeno. Il che significa in altre parole che, senza l’infinito ripetersi del grado zero in ogni grado determinato del reale, non solo non potremmo attribuire alcuna differenziazione qualitativa all’esperienza, ma non potremmo nemmeno distinguere (e così rapportare) dentro di noi una ricettività e una spontaneità, una coscienza empirica e una coscienza pura. Insomma: un’esistenza e un pensiero. Dopo un lungo giro, siamo così ritornati al paradosso del senso interno.

Abbiamo visto in precedenza che, secondo Deleuze, la chiave di tutta la rivoluzione kantiana risiede nell’operare una interiorizzazione del rapporto soggetto- oggetto, e soprattutto nell’intendere una tale interiorizzazione come tempo: proprio perché è essenzialmente temporale, il rapporto tra soggetto e oggetto non è più

1 FCT, p. 82. 2 CRP, p. 153.

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un’adaequatio tra sostanze esteriori l’una all’altra, bensì un graduale passaggio, una modulazione tra due forme dello stesso soggetto. Non si tratta quindi di riprodurre dentro il soggetto un rapporto tra termini esterni; si tratta invece di mostrare che, se tale rapporto appare come interno al soggetto, ciò avviene perché sono innanzitutto gli stessi termini di cui esso si compone a essere reciprocamente interiori, ossia decisi in rapporto al tempo. Questa interiorità, che si produce nella scissione temporale, definisce l’unità del soggetto: sebbene l’Io incessantemente debba farsi Altro, sebbene debba sdoppiarsi per poter determinare la propria esistenza, in tutto ciò esso continua a rimanere riferito a se stesso, così che non vi sarà mai istante nel tempo in cui il suo muovere da sé non sia insieme anche un ritornare a sé.

Deve risultare evidente come la temporalità connessa a questo rapporto di autoriferimento dell’Io respinga una qualsiasi collocazione estensiva. L’interiorità del soggetto non è infatti qualcosa che, seguendo un ordine di successione, compare nel tempo in un determinato momento per scomparire poi in un altro, non è in altre parole un contenuto dato empiricamente nel tempo, ma è la forma stessa di tale darsi, semplice presentazione del tempo o intuizione = 0. Rispetto alle determinazioni empiriche vi è perciò un’anteriorità formale in cui originariamente convergono soggetto e tempo: secondo Deleuze è a livello di quest’anteriorità che in Kant il tempo assume il significato specifico di autoaffezione pura del soggetto e il soggetto quello d’incessante temporalizzazione1.

Senonché, dire che il soggetto si costituisce nella sua struttura come tempo (da cui appunto la spaccatura tra spontaneità e ricettività) impone di definire non solo il tempo come forma d’interiorità o senso interno, bensì ugualmente lo spazio come forma di esteriorità o senso esterno. Scrive infatti Deleuze:

Forma d’interiorità non significa semplicemente che il tempo è interno allo spirito, poiché lo spazio non lo è di meno. Forma di esteriorità non significa neppure che lo spazio supponga “altro”, poiché è lo spazio, al contrario, che rende possibile ogni rappresentazione di oggetti in quanto altri o esterni. Ma significa che l’esteriorità implica

1 La pura forma dell’intuizione, «poiché non rappresenta nulla se qualcosa non è posto nell’animo, non

può essere che il modo in cui l’animo è affetto [affiziert] dalla propria attività, ossia dal porre la sua rappresentazione, quindi da se stesso; null’altro è dunque che un senso interno, quanto alla sua forma» (CRP, p. 119; abbiamo qui fatto riferimento alla tr. it. a cura di P. Chiodi, Torino 1977).

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tanta immanenza (poiché lo spazio resta interno al mio spirito) quanta è la trascendenza implicata dall’interiorità (poiché il mio spirito rispetto al tempo si trova rappresentato come altro da me)1.

Nella misura in cui il tempo è la condizione sotto la quale l’esistenza dell’Io è determinabile, una tale condizione comporta che l’Io, in tanto esiste, in quanto si scinde in se stesso; di conseguenza, qualunque rapporto dell’Io con altro da sé sarà compreso, essenzialmente, come un rapporto interno all’Io avente come base il tempo. È per questo motivo che, una volta posto il tempo come forma del senso interno, anche lo spazio diverrà interno al soggetto come forma della sua esteriorità2

.

Del discorso kantiano sul senso interno a Deleuze importa sottolineare in particolare il seguente aspetto: non è l’interiorità dell’Io che costituisce la forma del tempo, è al contrario il tempo che costituisce la forma d’interiorità dell’Io. La sottolineatura di questo capovolgimento è di grande importanza, giacché si tratta con esso di mettere a fuoco il liberarsi del tempo, come forma vuota, dal vincolo contenutistico. Il puro tempo non è contenuto, né contiene alcunché. In questo senso, scrive Deleuze:

Non è il tempo che è interno a noi, o almeno non particolarmente; siamo noi che siamo interni al tempo, e a questo titolo sempre separati per opera sua da ciò che ci determina attraverso l’affezione del tempo. L’interiorità ci scava, ci sdoppia senza sosta, benché l’unità permanga3

.

Vediamo bene a questo punto «la complementarietà»4 che Deleuze si sforza di tracciare

tra forma vuota del tempo e intensità = 0. È infatti sempre lo stesso x, lo stesso limite immanente che si mostra, dal punto di vista della sensazione, nel grado zero dell’intensità (insensibilità fondamentale del sentire) e dal punto di vista del pensiero, nella cesura operata dal tempo vuoto (impensabilità fondamentale del pensare). Sia il grado zero sia il tempo vuoto ci riportano in altri termini alla torsione su se stesso che

1 CC, pp. 47-48.

2 Cfr. FCT, p. 74: «Lo spazio è la forma dell’esteriorità. Questo non vuol dire che venga dall’esterno, ma

che tutto ciò che appare nello spazio appare come esterno a colui che lo coglie».

3 CC, p. 48.

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l’Io deve compiere per poter determinare il proprio essere: una torsione indubbiamente paradossale, giacché per suo tramite il soggetto viene destinato agli specifici esercizi delle facoltà se non al prezzo di un completo svuotamento. Proprio perché è nella sua medesima struttura tempo, il soggetto kantiano mostra secondo Deleuze il paradosso di un Io che è Altro, ma che è Altro prima di tutto a se stesso e dentro se stesso, dunque di un Io che, essendogli costitutivamente preclusa una posizione di centralità, afferma fino agli esiti più estremi la propria finitudine1.

Sicché davvero, sostiene a più riprese Deleuze, ciò che importa non è l’impossibilità che vi siano a livello empirico uno spazio e un tempo vuoti, come viene d’altra parte enfatizzato da Kant nelle pagine sulle Anticipazioni della percezione; ciò che importa è, semmai, il fatto che, qualunque siano il grado di realtà e l’istante del tempo considerati, noi dovremo necessariamente porre, come condizione trascendentale del loro determinarsi, un grado zero d’intensità e un tempo vuoto ad esso corrispondente.