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Excursus I Le obiezioni di Maimon a Kant come modello per la critica

3. Piano della tesi

2.1. L’immagine del pensiero

2.1.2. Ambivalenza di Kant

2.1.2.5. Excursus I Le obiezioni di Maimon a Kant come modello per la critica

È stata segnalata a più riprese, e giustamente, la centralità del pensiero di Salomon Maimon nel contesto dell’articolazione deleuziana del problema del trascendentale2.

1 D. Cantone, Cinema, tempo e soggetto. Il sublime kantiano secondo Deleuze, Milano 2008, p. 68. 2 Cfr. in questo senso B. Lord, Kant and Spinozism. Transcendental Idealism and Immanence from Jacobi

to Deleuze, London 2010, pp. 105-154; D.W. Smith, Genesis and Difference: Deleuze, Maimon and the post-Kantian reading of Leibniz, in S. van Tuinen (ed.), Deleuze and The Fold: A Critical Reader,

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Maimon in effetti è il primo, tra i filosofi post-kantiani, a muovere a Kant l’accusa di formalismo astratto, accusa secondo la quale, una volta posti l’intelletto e la sensibilità come fonti originariamente separate della conoscenza, è impossibile una loro ricongiunzione se non a livello ipotetico. Oltrepassare questo dualismo significa per Maimon oltrepassare una concezione del trascendentale, com’è quella sviluppata da Kant, legata al punto di vista del condizionamento e dell’esperienza possibile, in favore di un “metodo genetico” in grado di determinare dall’interno il rapporto tra i principi formali e i dati sensibili1. In tal senso la filosofia trascendentale di Maimon può essere suddivisa in linea generale, da un lato, in una pars destruens, volta a mettere in rilievo le difficoltà implicate dalla pura formalità dei principi sintetici a priori, e nella fattispecie a contestare le premesse da cui procede la Deduzione trascendentale, dall’altro lato, in una pars costruens, relativa invece alla ricerca delle condizioni genetiche dell’esperienza reale, condizioni che Maimon stabilisce avvalendosi di una teoria dei differenziali della coscienza (o più esattamente di un inconscio differenziale) e della complementare posizione di un intelletto infinito creatore.

Ora, benché attraverso uno snodo argomentativo diverso, le obiezioni di Deleuze al circolo del condizionamento non fanno che riproporre i temi essenziali della critica maimoniana, giungendo ai medesimi risultati: Kant non sarebbe in grado di liberarsi dalla forma presupposizionale, limitandosi a stabilire rispetto ai dati empirici condizioni esterne e soltanto ipotetiche e così finendo per rendere inintelligibile il concretizzarsi del loro rapporto. Diversamente, Deleuze non condivide che in parte gli esiti costruttivi del pensiero di Maimon, nella misura in cui riprende e rielabora la nozione di differenziale come regola genetica dell’oggetto, ma respinge la dottrina dogmatica e razionalista dell’intelletto infinito, utile a Maimon per postulare l’unità originaria della sensibilità e dell’intelletto. Ci soffermeremo in seguito sulle analogie e le divergenze tra Maimon e Deleuze in merito alla costruzione del metodo genetico. A conclusione e completamento dell’analisi delle critiche di Deleuze a Kant, che abbiamo sin qui London 2010, pp. 132-154; D. Voss, Conditions of thought: Deleuze and Transcendental Ideas, Edinburgh 2013, pp. 92-125; S. Palazzo, Trascendentale e temporalità …, cit., pp. 77-124.

1 È soprattutto relativamente a questo aspetto che Deleuze ne ravvisa la grandezza; cfr. DR, p. 226: «La

genialità di Maimon sta nel mostrare quanto il punto di vista del condizionamento sia insufficiente per una filosofia trascendentale». Tra gli scritti di Maimon, il riferimento esclusivo di Deleuze è il Saggio di

filosofia trascendentale del 1790, letto tramite l’importante studio di M. Gueroult, La philosophie transcendantale de Salomon Maïmon, Paris 1929.

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condotto, in questo excursus intendiamo piuttosto fornire un’esposizione degli argomenti maggiori della pars destruens del discorso maimoniano.

È nota l’importanza che per Kant riveste la fondazione della validità oggettiva dei principi della scienza, al fine di salvare quest’ultima dalla delegittimazione scettica di Hume; il metodo critico deve dimostrare la necessità di tali principi come condizione di possibilità senza di cui l’esperienza scientifica non sarebbe possibile. Il punto di partenza di Kant è il seguente: è un fatto che, nelle scienze matematiche e fisiche, noi operiamo con giudizi sintetici a priori; sulla base di questo fatto, del fatto cioè che esiste un’esperienza scientifica e dunque esistono giudizi d’esperienza, Kant risale alle leggi che la determinano necessariamente come tale. Ora, per Maimon questo procedimento è illegittimo: Kant, è vero, arriva a dimostrare che l’esperienza è impossibile senza la loro presupposizione; tuttavia, domanda Maimon, su che poggia la possibilità di porre questi stessi principi, se non sulla presupposizione della realtà di un’esperienza rispetto alla quale essi trovano applicazione? Il circolo sembra inevitabile: la deduzione dei concetti puri a priori è condizionata dall’esserci dell’esperienza, ma l’esperienza è, a sua volta, legittimata dall’esserci dei concetti puri1.

In tal senso, la deduzione kantiana si configura per Maimon nei termini di una petitio principii che presuppone la realtà dei giudizi di cui solo posteriormente dimostra il diritto. Ciò si mostra con evidenza nell’argomento contro la derivazione empirica alla quale Hume ricorre per spiegare l’esistenza dei concetti. Questa derivazione, scrive Kant, «non può conciliarsi con l’esistenza effettiva delle conoscenze scientifiche a priori, che noi pur possediamo, cioè della matematica pura e della fisica generale, e viene perciò confutata dal fatto»2. Ed è esattamente sul fondamento di tale fatto che per Kant segue la possibilità di dedurre la validità oggettiva delle conoscenze a priori. Ma fino a quando non oltrepassiamo il fatto, in sé dubitabile, dimostrandone la realtà, l’argomento trascendentale, che lo presuppone, sarà privo di quella oggettività che Kant vuole invece attribuirgli, e avrà solo una validità formale. Se noi possediamo dei giudizi d’esperienza, allora essi hanno una validità oggettiva. Tuttavia, chiede Maimon, li possediamo? Prima di attribuire alle sintesi a priori una validità oggettiva presupponendone la realtà, appare necessario mettere fuori dubbio la realtà stessa del

1 Cfr. S.H. Bergman, The philosophy of Solomon Maimon, Jerusalem 1967, p. 70. 2 CRP, p. 108.

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loro uso, «ossia rispondere non alla questione di sapere se possiamo utilizzarli a buon diritto – il che sarebbe rispondere alla questione quid juris – ma a quella di sapere se il fatto che noi li utilizziamo per gli oggetti effettivamente reali è indubitabile»1.

Dunque per Maimon il vero punto debole della concezione kantiana non si pone tanto sotto il profilo formale del diritto, quanto sotto quello reale del fatto. «La critica della ragione ha sollevato la questione: quid juris?, e cioè: con quale diritto noi possiamo applicare agli oggetti empirici concetti e giudizi puri a priori? E l’ha risolta mostrando che dobbiamo adoperarli come condizioni della possibilità dell’esperienza in generale»; tuttavia lascia insoluta «la questione: quid facti?, e cioè: adoperiamo realmente per gli oggetti empirici questi concetti e giudizi a priori, o no?»2. Ora, perché

Kant non sviluppa la quaestio facti?

La critica kantiana dimostra che le sintesi a priori sono possibili, ne dimostra il diritto. Tuttavia il fondamento da cui viene tratto questo diritto è fattuale. È un fatto, afferma infatti Kant, che nelle scienze matematiche e fisiche noi operiamo con concetti e giudizi sintetici a priori. Partiamo dal fatto che esiste un’esperienza in cui sono operative tali sintesi; da qui ne deduciamo il diritto. È chiaro che se Kant problematizzasse tale fatto, non avrebbe nemmeno la possibilità di dedurne il diritto. In altre parole: non pone la quaestio facti perché è proprio dal fatto che trae la certezza che vi siano sintesi a priori. Se venisse meno la certezza empirica che operiamo con sintesi a priori, non potrebbe in alcun modo stabilire una loro validità oggettiva. Senonché questa mancata soluzione della quaestio facti implica retroattivamente l’insufficienza della risposta data alla stessa quaestio juris.

Da questo punto di vista Maimon ritiene che le obiezioni rivolte da Hume a chi assume l’esperienza come principio della conoscenza non sono affatto superate dalla Critica: certamente adoperiamo dei concetti a priori nell’esperienza, ma il nesso che stabiliamo per loro tramite è reale? Come trasformare l’ipotesi dell’esperienza (che in quanto fatto è dubitabile) in verità? Il diritto ci mostra solo la necessità formale

1 Tph, p. 72.

2 S. Maimon, Versuch einer neuen Logik oder Theorie des Denkens, Berlin-Leipzig 1794; rist. anast. in

Gesammelte Werke, Band V, Herausgegeben von V. Verra, Hildesheim 1965-1970, p. 381; citato e

tradotto da P. Carabellese, Il problema della filosofia da Kant a Fichte (1781-1801), Palermo 1929, p. 145.

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dell’esperienza, la sua forma possibile, tuttavia deve rifarsi ancora alla sua presupposizione, alla sua fattualità, per dimostrarne l’esistenza1. Scrive Maimon:

Kant pone come fondamento degli oggetti l’esperienza (ossia l’uso dei giudizi sintetici che esprime necessità e validità universale) e dimostra la realtà dei concetti e giudizi partendo dal fatto che sono condizioni dell’esperienza. La loro realtà è perciò ipotetica. Così che se con Hume io negassi il fatto che abbiamo giudizi d’esperienza che esprimono necessità e validità universale e spiegassi questi come una semplice operazione associativa di concetti, conseguentemente non potrei concedere che vi è una scienza della natura in senso stretto. La nostra conoscenza della natura risulterebbe infatti del tutto priva di certezza, e consisterebbe solo di ipotesi e assunzioni2.

Maimon dice non che il diritto dedotto da Kant è falso, ma che è di per sé irreale, cioè valido soltanto ipoteticamente. In tal senso la Critica della ragion pura fornisce una soluzione formalistica alla questione riguardante l’accordo tra le categorie e i contenuti empirici: se è vero che il diritto impedisce di affermare l’impossibilità puramente formale dell’esperienza, d’altro canto resta fermo che quest’ultima potrà sempre essere negata in re3.

Riassumendo, Maimon sostiene che Kant non riesce a dedurre (contro Hume) la possibilità di un’esperienza, ma la presuppone e dimostra soltanto la possibilità della validità oggettiva delle leggi che la condizionano. I principi a priori sono indotti da Kant dalla fattualità dell’esperienza scientifica, piuttosto che essere quest’ultima dedotta

1 Su questo punto, cfr. F. Moiso, La filosofia di Salomone Maimon, Milano 1972, pp. 86-87: «Kant si

ritiene pago presentano un piano per noi universalizzante, quello dell’esperienza possibile, come ambito cui riferire le conoscenze per ottenere loro una connotazione di valore, e si limita poi a decidere della costruzione degli oggetti secondo forme (le categorie) che sono in effetti nulla più che una derivazione di principi puramente logici. L’oggetto cui esse si riferiscono non differisce per nulla dall’oggetto logico, perché è del tutto indeterminato quanto al suo contenuto, ma ad esso è solo aggiunta una delimitazione soggettiva, discendente dalla posizione della nostra facoltà conoscitiva come termine di riferimento fattuale».

2 S. Maimon, Streifereien im Gebiete der Philosophie, Berlin 1793; rist. an. in Gesammelte Werke, Band

IV, cit., pp. 203-204; citato da S.H. Bergman, The philosophy of Solomon Maimon, cit., p. 81.

3 Cfr. Tph, p. 186: «Kant assume come fatto fuori di dubbio che vi siano giudizi d’esperienza (che

esprimono necessità). In questo modo prova la loro validità oggettiva, mostrando che senza di essi l’esperienza sarebbe impossibile. Dunque l’esperienza è possibile: una volta che la si è presupposta, essa risulta reale e così pure questi concetti, che in essa trovano una realtà oggettiva. Tuttavia, io dubito di questo stesso fatto, cioè del fatto che vi siano giudizi d’esperienza; ne consegue che seguendo questa strada io non posso provare la loro validità oggettiva, ma solo la possibilità della validità oggettiva».

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dai primi. Si produce perciò il circolo del condizionamento: il diritto dei principi puri a priori è condizionato nella sua realtà dall’esserci di un’esperienza, ma l’esperienza, a sua volta, è giustificata dall’esserci di tali principi. Con la conseguenza che la dimensione trascendentale dei principi a priori, per avere una realtà, procede e deriva da quella empirica, invece che la dimensione empirica da quella trascendentale.

In tutto ciò, come già abbiamo accennato, il punto maggiormente problematico che Maimon rileva in Kant è il formalismo del riferimento categoriale. Nella prospettiva kantiana un concetto puro a priori si riferisce infatti agli oggetti in generale, a prescindere da qualsiasi loro determinazione empirica: proprio per questo esso può essere applicato ad ogni oggetto possibile. Ma esattamente a causa di questa generalità, non è d’altra parte possibile stabilire a quali contenuti sensibili dati nell’esperienza attuale esso si riferisca. Per riprendere le parole di Jules Vuillemin, secondo Maimon

dal momento che il mio intelletto non costruisce organicamente l’oggetto e non rivela che esteriormente il suo rapporto con l’intuizione sensibile, io non posso sapere se la relazione costituita dalla costruzione […] possiede qualcosa che non sia una mera apparenza di verità1.

Finché non sciogliamo la quaestio facti, siamo pertanto obbligati ad attenerci alla posizione di Hume: ciò che nell’esperienza appare con evidenza è soltanto una serie di connessioni contingenti tra i dati sensibili. L’esito scettico dell’argomentazione di Maimon giunge così a capovolgere negativamente il circolo kantiano del condizionamento: non vi è nulla nel concetto a priori che ci dica quando esso si applica all’esperienza; e all’inverso: non vi è nulla nell’esperienza che ci dica quando un concetto a priori viene ad essa applicato2.

L’esempio più calzante è sviluppato da Maimon in riferimento al nesso di causalità su cui si basano i giudizi fisici. Secondo Kant, un rapporto causale si dà quando l’intelletto riscontra tra due intuizioni una successione temporale necessaria, tale

1 J. Vuillemin, L’héritage kantien et la revolution copernicienne. Fichte – Cohen – Heidegger, Paris

1954, p. 45.

2 Questo doppio rovesciamento scettico è sottolineato da F.C. Beiser, The Fate of Reason. German

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che quando si presenta la causa, necessariamente segue l’effetto1. In tal senso, ogni

relazione tra una certa causa ed un certo effetto, della quale nell’esperienza, ossia a posteriori, stabiliamo la necessità, dovrebbe essere resa possibile dal concetto a priori di causa, ma non viceversa. Eppure, secondo Maimon, per dimostrare la realizzazione del concetto di causa, Kant non fa davvero riferimento a un procedimento a priori. Egli ci dice che il rapporto di una data intuizione A con una data intuizione B è valido oggettivamente in quanto il concetto di causa sussume le due intuizioni sotto una legge. Tuttavia, obietta Maimon, come sapere quali intuizioni sussumere sotto la categoria di causa? Ogni fenomeno ha sì necessariamente a priori una causa, ma a priori qualunque dato empirico potrà essere la causa, e qualunque altro l’effetto. Come dimostrare, dunque, il realizzarsi della categoria? Essendo il piano trascendentale puramente formale e perciò potenzialmente relativo a ogni oggetto, non solo non è possibile intendere a priori come avvenga il riferimento dei concetti ai dati intuitivi, ma non è nemmeno possibile intenderlo a posteriori, nel fatto stesso2.

È questo il duplice affondo scettico che conduce Maimon a negare tout court l’esistenza di un’esperienza, intesa kantianamente come insieme organico di fenomeni regolato da leggi universali3. Prendendo le mosse dall’insufficiente risposta data da

Kant alla quaestio facti l’argomento di Maimon si retroflette a livello trascendentale, mettendo in discussione la stessa capacità delle categorie di dare forma alla materia. Vediamo bene qui l’affinità delle obiezioni di Maimon e di Deleuze: secondo entrambi, «data la validità oggettiva delle categorie come condizioni dell’esperienza possibile,

1 Come nota Gueroult, dal punto di vista del giudizio, ciò si esprime nella seguente formula ipotetica: il

soggetto o causa (A) risulta indeterminato in sé e nei confronti del predicato, mentre il predicato o effetto (B) risulta indeterminato in sé, ma determinato in rapporto al soggetto; di conseguenza, nel momento in cui A sarà determinato in un modo qualsiasi, ne risulterà ipso facto una determinazione di B. In breve, il giudizio diviene reale e valido oggettivamente quando l’intelletto scorge che, posta l’intuizione A, necessariamente segue l’intuizione B. Cfr. M. Gueroult, La philosophie transcendantale de Salomon

Maïmon, cit., p. 22.

2 In tal senso, allorché formuliamo dei giudizi d’esperienza, tutto ciò che esprimiamo sono connessioni

valide nominalmente o in via ipotetica, ma problematiche sotto il profilo dell’oggettività. Cfr. Tph, p. 38: «Come per tutti i concetti ammessi arbitrariamente, anche nei concetti di causa ed effetto l’essentia

nominalis è determinata, ma la loro essentia realis resta problematica finché non è presentata

nell’intuizione».

3 Su questo punto, si veda S.H. Bergman, The philosophy of Solomon Maimon, cit., pp. 69-92, e nella

fattispecie p. 71: «I principi sui quali l’“esperienza” è basata sarebbero veri se potessero provare che vi è “esperienza”, ovvero un’esperienza ordinata e sussunta sotto leggi valide scientificamente. Ma proprio questo fatto, che vi sia un’esperienza scientifica, non è provato da Kant, cosicché l’intera struttura del suo pensiero rimane come un castello nell’aria».

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Kant deve dimostrare che esse sono anche condizioni dell’esperienza reale»1, se è vero

che l’istanza alla base della filosofia trascendentale è non semplicemente quella di pensare oggetti logici attraverso le forme a priori, bensì quella di determinare l’applicazione di queste ultime agli oggetti empirici. L’impossibilità di una tale determinazione comporta l’inevitabile appiattimento del trascendentale sull’empirico: in actu signato, Kant si limita a richiamare il fatto che le categorie sono necessariamente anteriori alle determinazioni sensibili, poiché rendono possibili queste ultime secondo la forma; ma, in actu exercito, tale anteriorità egli non potrà che porla retroattivamente, ricalcandola cioè sulla stessa materia dei dati di senso2.

Come già abbiamo accennato, sia per Maimon sia per Deleuze la fuoriuscita da questa impasse, che riduce il trascendentale a raddoppiamento illusorio dell’empirico, consiste nel rifiutare l’istanza kantiana dell’esteriorità delle condizioni per risalire, internamente al dato, fino alla determinazione di un principio genetico il quale sappia comprendere il costituirsi non soltanto del dato, bensì anche, in maniera reciproca, delle medesime condizioni in virtù delle quali il dato è dato. Non si tratterà più, dunque, di presupporre l’intelletto e la sensibilità come facoltà precostituite rispetto alla loro relazione empirica; al contrario, si tratterà d’intendere tale relazione come la loro stessa origine: origine contemporanea dell’esperienza e delle facoltà che, relazionandosi all’interno di essa, la condizionano.

A partire da qui, tuttavia, Maimon e Deleuze si allontanano, e non di poco. Da una parte, infatti, Maimon abbraccia una prospettiva razionalistica incentrata sull’infinitizzazione del carattere spontaneo dell’intelletto, il quale risulta in questo senso capace di porre se stesso producendo insieme la forma e la materia dell’oggetto, e dunque capace altresì di ricomprendere e unificare al proprio interno la stessa sensibilità (che appare come sua forma degradata). Dall’altra parte, Deleuze, recuperando le

1 D. Voss, Maimon and Deleuze: the viewpoint of internal genesis and the concept of differentials, in

“Parrhesia”, 11/2011, pp. 62-74.

2 La circolarità implicita in questo movimento retrogrado è segnalata, in merito ai giudizi fisici, da G.

Valpione, Il concetto di “trascendentale” nel Versuch di S. Maimon, in G. Rametta (a cura di),

Metamorfosi del trascendentale II. Da Maimon alla filosofia contemporanea, Padova 2012, p. 16. Per

poter stabilire in modo oggettivo un nesso causale tra due intuizioni, scrive Valpione, «è come se Kant presupponesse che, nonostante ciò che viene detto nell’Estetica trascendentale, la materia delle percezioni contenga dentro di sé una relazione (necessaria) con la materia di un’altra percezione, in modo tale da obbligare l’applicazione di un determinato concetto. Ma questo è inammissibile restando all’interno del pensiero kantiano. Così, quest’ultimo si trova di fronte a una causalità inevitabile, poiché è costretto a presupporre ciò che è dovrebbe dimostrare».

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tematiche kantiane del senso interno e del sublime, in maniera opposta mantiene fermi tanto l’originario carattere passivo quanto la differenza tra le facoltà, ed anzi giunge ad affermare proprio il contrasto e la disarmonia di queste ultime come genesi trascendentale e unità intrinseca dell’esperienza.