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3. Piano della tesi

1.5. Il rapporto libero e indeterminato tra le facoltà nella Critica del Giudizio

1.5.5. Il ruolo del Giudizio nel sistema delle facoltà

In tutto ciò, per Deleuze è di massima importanza mettere in chiaro la centralità che il Giudizio viene ad assumere nell’interpretazione della filosofia critica in quanto sistema delle facoltà. Come abbiamo potuto accennare in precedenza, questa centralità si mostra in particolare nella funzione riflettente del giudizio. La distinzione tra giudizi determinanti e giudizi riflettenti deriva dal tipo di accordo che in essi si esprime. «Il giudizio è detto determinante, quando esprime l’accordo delle facoltà sotto una facoltà essa stessa determinante, quando determina, cioè, un oggetto conformemente a una facoltà posta come legislatrice»1; così i giudizi teoretici esprimono l’accordo tra le facoltà determinato sotto la legislazione dell’intelletto, i giudizi pratici quello determinato sotto la legislazione della ragione. Diversamente, il giudizio riflettente non si ricollega ad alcuna facoltà legislatrice: l’accordo che esso esprime è libero e indeterminato, è un accordo “senza concetto” che può essere soltanto “sentito” attraverso la facoltà superiore del sentimento. Da questo punto di vista si può vedere bene che

in verità, il giudizio determinante e il giudizio riflettente non possono considerarsi come due specie dello stesso genere. Il giudizio riflettente libera e manifesta un fondo che restava nascosto nell’altro. Ma già l’altro non era giudizio che in virtù di questo fondo vivente. Altrimenti non si potrebbe comprendere come la Critica del Giudizio possa intitolarsi così, per quanto tratti solo del giudizio riflettente2.

Il fatto che ogni accordo determinato possa formarsi solo sulla base di un accordo libero e indeterminato spiega questa ricomprensione della funzione determinante del giudizio all’interno di quella riflettente. Così l’accordo libero e indeterminato rende manifesto il

1 Ivi, p. 100. 2 Ivi, p. 102.

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ruolo originale ricoperto dal Giudizio in vista della costituzione di una sistematica delle facoltà: «esso non consiste mai in una sola facoltà, ma nel loro accordo: o in un accordo già determinato da quella che fra di loro ha un ruolo legislatore o, più in profondità, in un libero accordo indeterminato»1. Se la facoltà di giudizio non può in senso proprio definirsi in relazione a una facoltà legiferante, è esattamente a causa della sua natura intermedia, che la caratterizza come l’elemento chiave per l’instaurarsi in generale di una relazione tra le facoltà. Per questo Kant non assegna ad essa uno spazio definito nel sistema dottrinale della ragion pura (diviso in filosofia speculativa e filosofia morale), pur accordandole un ruolo essenziale in sede critica per la costituzione del sistema stesso.

Dall’interpretazione di Deleuze si evince come il Giudizio consista per intero di questa autoriflessione critica della Ragione, la quale ridefinisce di continuo i domini delle facoltà legiferanti, le indirizza al punto di concentrazione, al focus soprasensibile che, attivandole, rende in prima battuta possibile una loro articolazione sistematica. Al di sotto delle forme determinate dell’accordo, la terza Critica scopre dunque l’accordo libero e indeterminato come il fondamento che prima rimaneva semplicemente nascosto, presupposto. Tale è la tesi fondamentale di Deleuze: «la Critica del Giudizio non si attiene al punto di vista del condizionamento quale appariva nelle altre Critiche: essa ci fa entrare nella Genesi»2. L’affermarsi di questa dimensione genetica raggiunge nel sentimento del sublime il momento decisivo: esso presenta un accordo tra le facoltà che non solo non è più gerarchico, come quello considerato nelle prime due Critiche, ma non è più nemmeno armonico, come succede nel sentimento del bello. «L’emancipazione della dissonanza, l’accordo discordante è la grande scoperta della Critica del Giudizio»3. A livello del sublime Kant arriva in effetti a tematizzare un rapporto fondato sulla differenza in sé, un’unità dinamica tra facoltà che si affermano in quanto tali non a partire dal principio di una sottomissione, ma in virtù del puro differire delle loro singolarità.

1 Ivi, p. 103. 2 ID, p. 84. 3 CC, p. 50.

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Capitolo secondo

AL DI LÀ DELLA RAPPRESENTAZIONE

Se per un verso le considerazioni svolte nel precedente capitolo hanno avuto il compito di ricostruire nel suo intento sistematico l’interpretazione deleuziana del criticismo, per altro verso esse ci hanno preliminarmente messo in contatto con alcuni snodi concettuali che si mostreranno determinanti nel configurarsi della stessa filosofia di Deleuze come filosofia dell’immanenza assoluta o empirismo trascendentale. In questo senso, la dottrina delle facoltà già è apparsa nella sua condizione di orizzonte ultimo entro cui, a rigore, deve essere posto il problema del trascendentale. Abbiamo visto infatti che, per Deleuze, si comprende appieno la portata rivoluzionaria del progetto kantiano soltanto sulla base dei rapporti reciproci tra le facoltà, che le tre Critiche prendono sistematicamente in esame a differenti livelli. La critica immanente, la ragione vista come solo giudice delle proprie operazioni è il principio che guida lo sviluppo del metodo trascendentale; ma questo sviluppo non trova compimento se non adottando un punto di vista genetico in grado di spiegare dall’interno il costituirsi dell’esercizio specifico di ciascuna facoltà.

Sapere della genesi e a un tempo genesi del sapere, la Critica si pone più di ogni altro il compito di portare la filosofia davanti al problema radicale del proprio cominciamento. Del resto, l’esigenza più profonda resa manifesta dal metodo trascendentale non è forse quella di volgere lo sguardo, insieme, al contenuto del discorso e alle operazioni che sono messe in atto discorrendo, eliminando così tutti i presupposti che soggiacciono non interrogati al di sotto del domandare? Ossia, non è forse quella di mettere in discussione l’immagine predeterminata che il pensiero possiede di se stesso, l’immagine di cosa significa pensare? Compresa in tal modo, la fondamentale impresa di demistificazione del dato in cui consiste l’istanza critica non può esimersi secondo Deleuze dall’essere altresì attività creativa che si pone, rispetto all’esperienza, come condizione interna all’atto del suo realizzarsi.

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Sotto questo aspetto, tuttavia, l’opera di Kant rivela tutta la sua insufficienza. Kant infatti, intendendo determinare la semplice possibilità dell’esperienza, giunge ad affermare condizioni che sono poste sempre, inevitabilmente, all’esterno di ciò che condizionano. Proprio questa esteriorità costituisce il punto focale dell’articolata critica mossa da Deleuze al filosofo di Königsberg, la quale verrà presa in esame nella prima parte del presente capitolo. Avendo sullo sfondo l’interpretazione deleuziana del “sistema delle Critiche”, si tratterà innanzitutto di mostrare come un tale sistema (nonostante la centralità giocata in esso dal giudizio riflettente e nella fattispecie dal momento del sublime) venga a costituirsi in ultima istanza come un sistema della rappresentazione. Vedremo che per rappresentazione Deleuze intende ogni conoscenza fondata sulla proiezione dell’identità del soggetto pensante su di un oggetto in generale; questo schema proiettivo si specificherà come la stessa funzione che, unificando tutte le facoltà all’interno del soggetto, fa sì che esso sia un soggetto uno e identico. Nostro obiettivo duplice sarà, da un lato, quello di mostrare come e perché l’orizzonte della rappresentazione implichi necessariamente una esteriorità tra le condizioni e il condizionato, dall’altro, di conseguenza, quello di evidenziare l’impossibilità, finché si resti entro tale orizzonte, di giungere a un cominciamento davvero privo di presupposti. Alla luce di ciò, nella seconda parte del capitolo, si tratterà di ripercorrere il cammino tracciato da Deleuze al fine di fuoriuscire dall’impasse menzionata. Un cammino la cui svolta sarà indicata nell’esercizio discordante tra le facoltà come espressione di una totale immanenza del trascendentale all’empirico.