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3. Piano della tesi

2.2. La disarmonia tra le facoltà

2.2.4. Esercizio disgiunto delle facoltà ed empirismo trascendentale

A più riprese Deleuze fa riferimento al paradosso dell’incontro come a quello di una costrizione essenziale che libera dalle costrizioni, di una forza necessitante che, rompendo l’esercizio collaborativo e armonico sancito dal senso comune, fa trovare a ciascuna facoltà la propria peculiare necessità, il proprium a partire dal quale essa si costituisce. Ma è la stessa distruzione del senso comune a essere realizzata da ogni facoltà in modo singolare, mettendo in opera un esercizio congiunto in cui l’unica forma di comunicazione è la divergenza reciproca. Afferma Deleuze:

1 Questa distinzione tra esercizio trascendente della memoria come posizione della domanda ed esercizio

trascendente del pensiero come sua elaborazione problematica, la traiamo da L.R. Bryant, Difference and

Giveness…, cit., pp. 135-136.

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Dal sentiendum al cogitandum, si è dispiegata la violenza di ciò che costringe a pensare. Ogni facoltà è uscita dai suoi cardini. Ma cosa sono i cardini, se non la forma del senso comune che fa ruotare e convergere tutte le facoltà? Ciascuna, da parte sua e nel proprio ordine, ha spezzato la forma del senso comune che la tratteneva nell’elemento empirico della doxa, per raggiungere l’ennesima potenza come l’elemento del paradosso nell’esercizio trascendente. In luogo della convergenza di tutte le facoltà, che contribuiscono allo sforzo comune di riconoscere un oggetto, si assiste a uno sforzo divergente, in quanto ciascuna è posta in presenza di ciò che le è “proprio” in ciò che la riguarda essenzialmente1.

Il passo rivela, in maniera esemplare, quale sia la strategia adottata da Deleuze al fine di rovesciare l’assimilazione filosofica del senso comune. Tale strategia consiste, da un lato, nel riportare l’origine delle facoltà alla straordinarietà sconvolgente di un evento che costringe ciascuna di esse a concentrarsi su nulla che non sia il proprio stesso esercizio; dall’altro, per conseguenza, nel mostrare come in questo modo il rapporto tra le facoltà cessi di essere organizzato armoniosamente attorno a un centro comune, per diventare al contrario espressione della loro massima distanza ed estraneità.

Da questo punto di vista si coglie bene tutta l’importanza che per Deleuze è necessario accordare ai rapporti tra le facoltà: se è possibile affermare, retrocedendo al livello genetico, che le funzioni ricognitive del soggetto sono sospese, ossia che il soggetto non identifica più l’oggetto, ciò dipende dal fatto che sono innanzitutto le facoltà del soggetto a non concordare più tra loro. Tuttavia è lo stesso parlare di facoltà di un soggetto a risultare qui problematico. Infatti, come viene rilevato da Levi R. Bryant, una volta arrivato a rintracciare nell’esercizio divergente il momento in cui viene spezzata la forma dello Stesso in quanto forma della rappresentazione, con ogni evidenza Deleuze non solo non sta riferendo più le facoltà all’identità di un oggetto, ma non le sta riferendo nemmeno, e a maggior ragione, all’identità di un soggetto; così che le facoltà dovranno essere intese alla stregua di tendenze autenticamente ontologiche, tendenze pre-individuali e impersonali, rispetto alle quali il soggetto altro non è che un precipitato empirico: non a caso Deleuze parla di “essere del sensibile”, “essere della memoria”, “essere del pensiero”, piuttosto che, semplicemente, di sensibilità, di

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memoria e di pensiero1. Di qui l’affermazione deleuziana secondo cui «ogni facoltà, ivi

compreso il pensiero, non ha altra avventura se non quella dell’involontario, mentre l’uso volontario resta immerso nell’empirico»2. Non si sceglie davvero di pensare, di

ricordare, di sentire, proprio perché queste diverse facoltà, nella loro accezione trascendentale, non sono affatto funzioni che si possono ricondurre alla buona volontà di un Io ad esse presupposto, non sono cioè diversi aspetti dell’unica super-facoltà del volere di cui il soggetto avrebbe il pieno arbitrio.

Sotto questo profilo, Differenza e ripetizione non fa che riprendere e sviluppare gli esiti a cui Deleuze era già giunto nel 1964 con Marcel Proust e i segni. L’asse portante dell’interpretazione deleuziana di Proust è, in effetti, l’idea secondo la quale la Recherche, rivolta solo secondariamente alla tematica del tempo, sia innanzitutto da intendere come una ricerca della verità attraverso i segni3. La più grande originalità di Proust consiste, a parere di Deleuze, nella radicale messa in discussione della concezione tradizionale del vero e, più precisamente, di tutti i presupposti impliciti nell’atteggiamento che la filosofia, da sempre, ha avuto nel ricercarlo. Il principale di essi è quello riguardante la buona volontà di chi cerca. Secondo tale presupposto vi sarebbe nell’uomo un desiderio, un amore naturale che lo muove verso la verità come verso qualcosa in rapporto a cui egli è già in armonia. Ma per Proust ciò non è che un’astrazione accomodante, un’astrazione che nasconde l’origine violenta e assolutamente fortuita del cercare:

Chi cerca la verità? E che intende dire chi dice “voglio la verità”? Proust non crede che l’uomo, e nemmeno un presunto spirito puro, senta naturalmente un desiderio del vero, una volontà di scoprire il vero. Cerchiamo la verità quando siamo indotti a farlo in funzione di una situazione concreta, quando subiamo una specie di violenza che ci spinge a questa ricerca. […] È sempre la violenza di un segno, che ci costringe a cercare, togliendoci la pace. Alla verità, non si arriva per affinità o a forza di buon volere: essa si tradisce attraverso segni involontari4.

1 Cfr. L.R. Bryant, Difference and Giveness…, cit., pp. 97-98. 2 DR, p. 187.

3 Cfr. PS, p. 18: «La Ricerca del tempo perduto è di fatto una ricerca della verità. S’intitola Ricerca del

tempo perduto solo in quanto la verità è in rapporto essenziale col tempo».

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Stando a Deleuze, due sono le idee chiave in Proust: costrizione e caso. Non vi è alcun movimento concreto del pensiero verso il vero che non abbia alla propria base l’incontro con qualcosa che forzi il pensiero stesso a fuoriuscire dalla sua staticità naturale; «ed è la casualità dell’incontro a garantire la necessità di quanto viene pensato»1. Sicché tutte le verità fondate sulla buona volontà del pensare, sul presupposto dell’armonia, «restano arbitrarie e astratte»2, sono verità meramente

possibili, nella misura in cui ad esse manca l’autenticità di ciò che le costringe a sorgere, la contingenza e singolarità del segno come violenza che ne sancisce l’assoluta necessità3. In tal senso, scrive Deleuze, «più importante del pensiero, è ciò che “fa pensare”»4.

È in questa dimensione, nella dimensione cioè dell’involontario, che troviamo le nostre facoltà allo stato nascente. Non le troviamo coinvolte in una comunicazione armoniosa incentrata sulla natura tanto retta quanto arbitraria del volere, ma in un esercizio divergente in forza del quale, assumendo come oggetto il proprio limite, ciascuna di esse giunge ad affermare in modo ineluttabile la realtà di ciò che, più di tutto, le è peculiare:

Ogni volta che una facoltà assume la sua forma involontaria, scopre e raggiunge il proprio limite, si eleva a un esercizio trascendente, comprende la propria necessità come un potere insostituibile, cessando così di essere intercambiabile. Al posto di una percezione indifferente, ecco una sensibilità che afferra e riceve i segni: il segno è il limite di questa sensibilità, la sua vocazione, l’estremo suo esercizio5.

1 Ivi, p. 19. 2 Ivi, p. 90.

3 Riportando un lungo brano da Le temps retrouvé, Deleuze sottolinea attraverso le parole di Proust come

siano soltanto le idee che noi apprendiamo nostro malgrado a essere prive di arbitrarietà, a essere cioè vere in modo fortuito e proprio per questo ineluttabile: «Le verità che l’intelligenza coglie direttamente, scopertamente, nel mondo della piena luce, hanno qualcosa di meno profondo, di meno necessario di quelle che la vita ci ha comunicate, nostro malgrado, in un’impressione, materiale in quanto entrata in noi attraverso i sensi, ma di cui possiamo enucleare l’intimo spirito. […] Le idee formate dall’intelligenza pura posseggono soltanto una verità logica, una verità possibile, e la loro scelta è arbitraria. Il libro dai caratteri figurati, non tracciati da noi, è l’unico libro nostro. Non che le idee che noi formiamo non possano essere logicamente giuste; ma non sappiamo se sono vere» (PS, pp. 91-92). Osserviamo come Deleuze ritrovi in Proust il nocciolo della critica già mossa da Maimon al formalismo gnoseologico kantiano.

4 Ivi, p. 90. 5 Ivi, p. 94.

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Come già abbiamo avuto modo di accennare, la tematica dell’accordo discordante e involontario tra le facoltà, posto al centro del libro su Proust, è ripreso in Differenza e ripetizione nel contesto del rovesciamento del senso comune, venendo precisato quale suo (del rovesciamento) elemento decisivo. Che le facoltà raggiungano un esercizio trascendente1 (un esercizio per dir così assolutamente peculiare in cui ognuna di esse oltrepassa il limite della propria funzionalità empirica), ha infatti come corollario la sospensione della loro collaborazione, della loro interscambiabilità nell’ottica ricognitiva, di cui appunto il senso comune è l’espressione paradigmatica.

Ora, proprio perché l’oltrepassamento del limite empirico operato nell’esercizio trascendente non indica affatto un’istanza extra-empirica, un’ulteriorità esterna all’esperienza, bensì, al contrario, un approfondimento immanente e genetico dell’esperienza stessa, a tale esercizio, che andrà a costituire una forma a tutti gli effetti superiore di empirismo, si potrà dare il nome di empirismo trascendentale. Mediante tale formula, con la quale giunge evidentemente ad affermare l’assoluta immanenza del piano trascendentale a quello dell’esperienza, Deleuze, è bene ribadirlo, vuole significare non un confondersi tra i due piani, ma la loro distinzione più rigorosa e radicale possibile: «l’empirismo trascendentale è il solo mezzo di non ricalcare il trascendentale sulle figure dell’empirico»2. In altre parole, trascendentale è la stessa differenza che doppiamente intercorre, da un lato, tra ciascuna facoltà e l’esistenza empirica del proprio oggetto, dall’altro, tra le facoltà nel loro complesso.

Questo duplice movimento disgiuntivo lo si coglie bene se consideriamo la prima figura in cui esso si presenta: la sensibilità. Il primato della sensibilità come origine si spiega secondo Deleuze in virtù del fatto che «ciò che costringe a sentire e ciò che può essere soltanto sentito sono una sola cosa nell’incontro, mentre le due istanze sono distinte negli altri casi»; l’immediatezza in cui i due poli della sensazione sono unificati costituisce, continua Deleuze, la sua dimensione intensiva: «in effetti l’intensivo, la

1 Cfr. DR, p. 186: «Trascendente non significa per nulla che la facoltà si rivolga a oggetti fuori del

mondo, ma viceversa che colga nel mondo ciò che la riguarda esclusivamente e che la fa nascere al mondo».

2 Ivi, p. 187. Non si può dire dunque, in senso proprio, che Deleuze ritrovi Hume al di là di Kant; è

certamente vero, come Deleuze scrive, che «il coerente paradosso della filosofia di Hume è quello di presentare una soggettività che va oltre se stessa e che resta nondimeno passiva» (ESogg, p. 18); ma essendo tale passività ancora del tutto relativa al piano del fatto, essa non risulta in grado di sviluppare una prospettiva autenticamente trascendentale.

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differenza nell’intensità, è a un tempo l’oggetto dell’incontro e l’oggetto a cui l’incontro innalza la sensibilità»1. Occorre dunque evitare di fraintendere: è vero che ciò che costringe a sentire e ciò che può essere soltanto sentito sono lo stesso nell’incontro, ma tale identità ha sin da subito, essenzialmente, il carattere della differenza. È infatti evidente che, parlando di differenza intensiva, Deleuze sta qui facendo riferimento non tanto al semplice aspetto qualitativo di una sensazione, ossia al suo possedere un tale o un talaltro grado intensivo, quanto piuttosto al grado zero dell’intensità come a ciò grazie a cui qualcosa come una qualità empiricamente determinata può essere data. Abbiamo già visto, nella prima parte di questo capitolo, che il grado zero richiede secondo Deleuze di essere inteso nel senso di una «sintesi a-sintetica»2, di una

congiunzione tra elementi differenti i quali, senza essere ricompresi in una totalizzazione oggettiva, sono al contrario affermati ciascuno nella differenza che gli è propria. Ora, è esattamente questo particolare carattere sintetico-disgiuntivo a essere rinvenuto da Deleuze alla base dell’esercizio trascendente della sensibilità:

Non si tratta dell’opposizione qualitativa nel sensibile, ma di un elemento che è in sé differenza e crea la qualità nel sensibile nonché l’esercizio trascendente della sensibilità: questo elemento è l’intensità come pura differenza in sé, a un tempo l’insensibile per la sensibilità empirica che non coglie intensità se non rivestite o mediate dalla qualità, e ciò che può essere soltanto sentito dal punto di vista della sensibilità trascendente che l’apprende immediatamente3.

Differenza intensiva significa, pertanto, differenza della differenza, o differenza in sé: non la differenza di qualcosa, ma il differenziarsi di quella differenza che dà qualcosa. Senza voler qui approfondire ulteriormente la nozione deleuziana d’intensità, sulla quale torneremo più avanti, ci limitiamo a sottolineare come il movimento inoggettivabile di differenziazione da cui essa è costituita sia, ad un tempo, ciò che

1 DR, p. 189.

2 Ossia di una sintesi che non mette capo alla sintesi del riconoscimento. L’espressione è di T. Tuppini,

La funzione estetica: alcuni aspetti della lettura deleuziana di Kant, cit., p. 214.

3 DR, p. 188. Si veda l’efficace commento di P. Montebello, Deleuze. La passion de la pensée, cit., p.

109: «Allorché la sensibilità si eleva con un salto all’intensità, essa la coglie immediatamente come ciò che non può essere sentito senza alcun equivalente oggettivo, come ciò che eccede ogni sensazione mediante la sua differenza pura inattualizzabile, inoggettivabile, e la coglie nello stesso tempo come la differenza pura all’opera nel mondo».

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viene immediatamente appreso dalla sensibilità e ciò che viene trasmesso alle altre facoltà come costrizione che innalza ciascuna di esse al rispettivo esercizio trascendente: «sulla via che conduce a ciò che va pensato, tutto muove dalla sensibilità. Dall’intensivo al pensiero, è sempre attraverso una intensità che il pensiero ci giunge»1.

Il che ci permette di comprendere in che modo Deleuze possa sostenere il principio di una comunicazione ordinata tra le facoltà senza che esso assuma la forma di un senso comune:

Certo esiste una concatenazione delle facoltà e un ordine in tale concatenazione, ma né l’ordine né la concatenazione implicano una collaborazione su una forma di oggetto che si supponga identico o su un’unità soggettiva della natura dell’Io penso2

.

La comunicazione che avviene a livello dell’esercizio disgiunto è semmai la forma più rigorosa nella quale può trovare espressione il superamento del senso comune: è vero che tra le facoltà deve pur darsi un qualche rapporto, tuttavia tale rapporto si produce solamente nel massimo possibile di estraneità e di distanza, nel modo cioè di un accordo discordante in cui ciascuna facoltà «non comunica all’altra se non la violenza che la pone in presenza della propria differenza e della propria divergenza con tutte le altre»3.

In conclusione, è opportuno evidenziare come Deleuze stia in questo modo riprendendo, nelle sue linee principali, l’architettonica kantiana, rovesciandola però di segno. Kant, lo abbiamo visto, poneva a fondamento dei sensi comuni logico e morale il senso comune estetico, in quanto espressione di un accordo libero e indeterminato che, rimanendo senza concetto, non poteva essere conosciuto oggettivamente, ma solo sentito: proprio il fatto che esso non potesse essere altro che sentito testimoniava della sua anteriorità rispetto agli altri due, che da esso erano resi possibili quali accordi determinati e caratterizzati ognuno da una legislazione specifica. Deleuze mantiene questa priorità della sensazione, per mostrare però come da essa discenda non una fondazione bensì una completa disarticolazione del senso comune e dell’orizzonte rappresentativo da esso stabilito.

1 DR, pp. 188-189. 2 Ivi, p. 190. 3 Ibidem.

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Capitolo terzo

L’IDEA E LA MATERIA

Dalle analisi svolte nel capitolo precedente l’empirismo trascendentale è emerso come il principio da cui dipendono, nello stesso tempo, la disgregazione della forma presupposizionale fondata sul senso comune e la genesi delle facoltà nel loro esercizio disgiunto. Come abbiamo visto, tematizzare il trascendentale indipendentemente dal senso comune per Deleuze significa, in primo luogo, concepirlo al di fuori della rappresentazione, cioè di quell’orizzonte tracciato dal rapporto tra un soggetto supposto identico e un oggetto qualunque su cui si riflette l’identità soggettiva. In tal senso, l’esperienza è risultata essere determinata non più soltanto nella sua mera esistenza possibile, ma nella sua realtà concreta: lo sviluppo di un punto di vista genetico è apparso così, a Deleuze, la via privilegiata da percorre allo scopo di operare una rielaborazione e una radicalizzazione dell’istanza trascendentale di matrice kantiana.

Se finora abbiamo seguito tale operazione mettendone a fuoco in particolare il risvolto decostruttivo, in questo capitolo si tratterà invece di portare la nostra attenzione sul suo aspetto affermativo e strettamente genetico. In altre parole, cercheremo di definire la genesi trascendentale non più soltanto in funzione della critica alla rappresentazione, ma in rapporto al suo senso specifico di produzione dell’oggetto; vedremo allora come Deleuze, rifacendosi soprattutto a Bergson, intenda tale produzione alla stregua di un movimento di incessante differenziazione interna, un movimento che per così dire si muove da sé stesso in sé stesso, senza presupporre alcun sostrato identico o immobile; analizzando soprattutto i capitoli quarto e quinto di Differenza e ripetizione, che si concentrano rispettivamente sulla genesi dell’oggetto pensato (Idea) e sulla genesi dell’oggetto sensibile (materia intensiva), avremo modo di verificare come, in entrambi i casi, protagonista ultima sia la differenza pura, la differenza concepita non come diversità empirica, data negli oggetti, ma come la condizione stessa in virtù di cui qualcosa può essere dato come diverso. Il che vuol dire: come differenza in atto o come movimento di differenziazione.

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In considerazione dell’importanza giocata dalla figura di Bergson, apriremo questo capitolo con un’analisi della lettura che ne offre Deleuze, soffermandoci nella fattispecie sui nuclei concettuali ripresi e sviluppati in Differenza e ripetizione; su questa base, passeremo in seguito ad un esame della trattazione deleuziana della genesi dell’oggetto nel suo duplice e complementare profilo, ideale e sensibile; nostro obiettivo sarà quello di rilevare in tale complementarietà un’articolazione di rapporti che sostanzialmente riafferma, a livello della costituzione oggettiva, il medesimo sviluppo che abbiamo già visto all’opera nell’esercizio disgiunto delle facoltà.