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3. Piano della tesi

1.5. Il rapporto libero e indeterminato tra le facoltà nella Critica del Giudizio

1.5.3. Il sublime e la genesi delle facoltà

Il sentimento del bello e il sentimento del sublime sono entrambi oggetti del giudizio estetico; tuttavia il giudizio sul sublime non esprime più un accordo tra l’immaginazione e l’intelletto, ma tra l’immaginazione e la ragione. Questo secondo accordo ha una natura profondamente diversa rispetto al primo. Se nel bello l’immaginazione rappresenta la forma riflessa dell’oggetto, la quale consiste nella limitazione operata dall’intelletto, al contrario nel sublime l’immaginazione entra in contatto con oggetti privi di forma, e connettendosi con la ragione, ne rappresenta l’illimitatezza [Unbegrenztheit]. Dal punto di vista della conoscenza, sublime si definisce infatti ciò che è assolutamente grande [absolute magnum], e che come tale si sottrae alla comparazione, alla possibilità di una misurazione oggettiva. Ora, perché l’immaginazione sia in grado di comprendere un certo quantum sensibile in un concetto numerico utile come misura, sono necessarie secondo Kant due operazioni fondamentali: l’apprensione successiva [apprehensio] e la comprensione simultanea [comprehensio aesthetetica]. Senonché, mentre l’apprensione può essere portata senza difficoltà all’infinito, la comprensione ha sempre un massimo, il quale viene raggiunto e forzato precisamente nel sublime; tutto avviene, commenta Deleuze, «come se l’immaginazione fosse confrontata con il proprio limite, costretta ad attingere il suo massimo, subendo una violenza che la porta all’estremo del suo potere»2. Si potrebbe

credere che una tale violenza provenga dallo stesso oggetto del sentimento, dalla natura

1 Ivi, p. 74. 2 K, p. 87.

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sensibile che viene avvertita come incommensurabile. In realtà, ciò che «ci forza a riunire in un tutto l’immensità del mondo sensibile è soltanto la ragione»1. È dunque un

vero e proprio conflitto quello che si innesca fra l’aspirazione dell’immaginazione a progredire all’infinito e la pretesa della ragione alla totalità assoluta quale idea da realizzare: in questa opposizione, scrive Kant, «l’immaginazione raggiunge il suo massimo e, nello sforzo di estenderlo, ricade su se stessa»2. Paradossalmente, lungi dallo scoprirsi in una nuova forma di attività, all’apice della propria potenza l’immaginazione diviene essenzialmente passiva, subisce nel fondo di se stessa l’urto di un elemento estraneo che ad un tempo la respinge e l’attrae, la contiene e l’incalza. Il “piacere negativo” in cui consiste il sentimento del sublime non manifesta nient’altro che tale oscillazione, tale movimento contrastante.

Si vede allora bene che, se davvero il sublime ci pone in presenza di un rapporto tra facoltà, il meno che possiamo dire è che questo rapporto sia del tutto insolito:

ragione e immaginazione si accordano solo all’interno di una tensione, di una contraddizione, di una lacerazione dolorosa. Vi è accordo, ma accordo discordante, armonia nel dolore. Ed è soltanto il dolore che rende possibile un piacere3.

Siamo arrivati a un punto chiave non soltanto per l’interpretazione deleuziana di Kant, ma per lo stesso sviluppo di quella posizione teoretica che successivamente Deleuze chiamerà “empirismo trascendentale” e che costituirà il cuore della sua filosofia. Occorre quindi seguire da vicino il commento di Deleuze. Sforzandosi di rappresentare ciò che è per essenza irrappresentabile, egli dice, l’immaginazione si porta al limite di se stessa: qui essa sperimenta tutta la sproporzione e l’inadeguatezza che la dividono dalla ragione. Le due facoltà entrano sì in rapporto, tuttavia a partire da ciò che hanno di più differente, dalla loro estraneità radicale. Esse «si abbracciano nella massima distanza»4,

il loro accordo è un accordo disarmonico. Tuttavia, esattamente nel momento della più intensa coercizione, quando il libero gioco viene vanificato, ecco che l’immaginazione

1 Ivi, p. 88.

2 CG, § 26, p. 101; traduzione modificata. 3 ID, p. 74.

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scopre, nel fondo del proprio esercizio, una forma ben più radicale di libertà. Il seguente passo è decisivo:

l’immaginazione si eleva a un esercizio trascendente che prende per oggetto il proprio limite. Superata da ogni parte, supera a sua volta i propri confini, anche se in maniera negativa, rappresentandosi l’inaccessibilità dell’Idea razionale e facendo di questa inaccessibilità qualcosa di presente nella natura sensibile1.

Nel sublime l’immaginazione non rappresenta altro che una fondamentale impotenza a immaginare oltre, ma proprio in questa impotenza essa scopre l’imaginandum, il “ciò che può essere soltanto immaginato” sotteso a ogni immagine. Il limite cessa così di essere semplice condizione di possibilità dell’esercizio, per divenire esercizio in atto: limite dell’esercizio che è anche esercizio del limite. Come scrive Rocco Ronchi, il sublime «è un segno, o meglio fa segno, ma è un segno autoriflessivo: è un segno di sé, segno del proprio accadere come segno e non segno per un significato»2. Nel sublime, infatti, non vi è più nulla da rappresentare, eccetto il puro aver luogo dell’operazione che rappresenta; se nel bello ancora permane il riferirsi dell’immaginazione alla forma dell’oggetto riflesso, qui l’attenzione si concentra esclusivamente sulla soggettività dell’atto di giudizio: non troviamo da una parte l’oggetto rappresentato o significato, e dall’altra l’immaginazione, come facoltà significante, ma solo un movimento retroflesso dell’immaginazione, la quale, forzata dalla ragione oltre il limite del significabile, ritorna su se stessa esibendosi come semplice funzione interna al soggetto.

Questa retroflessione, che si svolge interamente sotto il segno della passività, è per Deleuze il momento in cui l’immaginazione si costituisce come facoltà attiva. In tal senso, invece che significare la subordinazione a un’altra facoltà legiferante, la passività coincide con l’innalzamento dell’immaginazione al massimo della propria potenza; abbandonata la libertà giocosa e pacifica dell’accordo con l’intelletto, l’immaginazione viene posta coercitivamente dalla ragione di fronte all’inimmaginabile come al proprio elemento essenziale, come al limite in rapporto a cui soltanto essa viene destinata all’esercizio che le pertiene. Scrive Deleuze:

1 ID, p. 75.

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Nel momento stesso in cui crede di perdere la propria libertà, sotto la violenza della ragione, essa [l’immaginazione] si libera di tutte le costrizioni dell’intelletto ed entra in accordo con la ragione per scoprire ciò che l’intelletto le aveva nascosto, ovvero la sua destinazione sovrasensibile, che è anche la sua origine trascendentale. Nella sua Passione, l’immaginazione scopre l’origine e la destinazione trascendentale di tutte le proprie attività. […] L’accordo tra l’immaginazione e la ragione si trova in effetti generato nel disaccordo. Il piacere è generato nel dolore. Inoltre, tutto accade come se le due facoltà si fecondassero reciprocamente e trovassero il principio della loro genesi, una nelle vicinanze del suo limite, l’altra al di là del sensibile, ed entrambe in un “punto di concentrazione” che definisce la massima profondità dell’anima come unità sovrasensibile di tutte le facoltà1.

A differenza del bello, pertanto, il sublime non comporta alcuna presupposizione dell’accordo tra le facoltà; al contrario, esso mostra mediante il disaccordo l’unità soprasensibile, il punto di concentrazione in vista del quale tutte le facoltà sono generate. «Tempesta all’interno di un abisso aperto nel soggetto»2: con il sublime siamo

trascinati nel fondo dell’animo, e qui ciò che troviamo di essenziale non è che l’incrinatura, il taglio, la disgiunzione. A formare la struttura trascendentale del soggetto è un esercizio ai limiti in cui ogni facoltà può essere determinata nel proprio elemento peculiare solo fuoriuscendo dai propri cardini, spossessandosi di se stessa: il soggetto diviene soggetto in seguito a questo intimo assoggettamento. La necessità più profonda dell’accordo non è di conseguenza quella armoniosa che mira alla conservazione di una legge, ma quella irregolare, traumatica, di una violenza che accade senza previsione.

Proprio sulla base di questa violenza noi «apprendiamo l’essenziale riguardo al nostro destino»3. Il sublime, infatti, a seconda che noi lo consideriamo nella sua forma

1 ID, pp. 75-76. Sulla passività della genesi insiste S.Palazzo, Trascendentale e temporalità…, cit., pp.

58-62, il quale giustamente osserva che «l’esercizio dell’immaginazione in tanto è generato in quanto l’immaginazione stessa non dispone del proprio divenire attiva».

2 CC, p. 53. Da questo punto di vista, una nuova luce si proietta sull’idea di autoaffezione vitale vista in

precedenza, giacché non si tratta più di considerarla, come nel caso del bello, a partire da un esercizio armonioso delle facoltà. Quando proviamo l’emozione del sublime, dice infatti Kant, è come se i nostri flussi vitali subissero «un momentaneo impedimento» (CG, § 23, p. 92), per poi effondersi con rinnovata e maggiore forza. In tal senso, nel sublime noi perveniamo alla coscienza non di una conservazione statica della rappresentazione e delle facoltà conoscitive, bensì, al contrario, di un dinamismo che, costituendole, comporta nel medesimo tempo una loro disarticolazione, una loro rovina. Su questo punto cfr. G.Carchia, Kant e la verità dell’apparenza, Torino 2006, pp. 67-70.

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matematica o nella sua forma dinamica, costituisce un’esibizione negativa del duplice aspetto delle Idee, speculativamente indeterminato e praticamente determinato. In entrambi i casi, l’immaginazione è sottoposta a uno sforzo estremo per via del quale, esibendo nella natura sensibile l’inaccessibilità delle Idee, esibisce al contempo la «conformità soggettiva a scopi del nostro animo in vista della sua destinazione soprasensibile»1. Se questa destinazione il sublime matematico l’attesta nel pensiero di una totalità infinita sovrastante ogni dimensione oggettiva, il sublime dinamico la fa apparire «come la predestinazione di un essere morale»2, ossia come l’espressione indiretta della legge soprasensibile che predispone in noi la sua realizzazione3.

In tutto ciò l’Analitica del sublime non fa che portare a radicale compimento la prospettiva già dischiusa dall’Analitica del bello: ogni accordo determinato tra le facoltà presuppone l’accordo libero e indeterminato, tuttavia a sua volta l’accordo libero e indeterminato presuppone l’accordo discordante, la discrepanza essenziale delle facoltà, non come ulteriore condizione ricavata su base empirica, bensì come genesi trascendentale che ne riconosce la destinazione soprasensibile. Per questa ragione, dice Deleuze, l’Analitica del sublime assume un duplice valore: «ha innanzitutto un senso per se stessa, dal punto di vista della ragione e dell’immaginazione, ma ha anche il valore di modello»4 per la genesi del rapporto di tutte le altre facoltà. A questo punto la Critica del Giudizio si confronta con un nuovo problema: come estendere anche al senso del bello e all’accordo tra immaginazione e intelletto il modello genetico delineato dal sublime?