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3. Piano della tesi

1.5. Il rapporto libero e indeterminato tra le facoltà nella Critica del Giudizio

1.5.2. Il senso comune estetico

Il giudizio estetico sul bello si compone di due elementi in evidente contrasto: da una parte esso si riferisce sempre a casi particolari, contingenti, non ripetibili; dall’altra

1 K, p. 83.

2 Cfr. CG, § V, p. 26: «Il Giudizio ha in sé, dunque, anche un principio a priori della possibilità della

natura, ma soltanto dal punto di vista soggettivo, col quale prescrive, non già alla natura (in quanto autonomia), ma a se stesso (in quanto eautonomia), una legge per la riflessione della natura».

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esso ambisce a una certa oggettività, a una certa universalità, senza riferimento alcuno a un interesse dei sensi o della ragione. Quando diciamo che un oggetto è bello, noi non vogliamo dire né che esso è piacevole, né tantomeno che è buono, se intendiamo con piacevole ciò che piace ai sensi nella sensazione e per buono ciò che, per mezzo della ragione, piace mediante il concetto. Dice Kant: «Per trovare buono qualcosa, debbo sempre sapere che cosa deve essere l’oggetto, cioè averne un concetto. Per trovarvi la bellezza, non ne ho bisogno»1; è vero che il piacere legato al bello conduce sempre a un qualche concetto (e in questo si distingue anche dal piacevole, che riposa completamente sui dati sensibili) ma a tale concetto non corrisponde alcuna determinazione: «la cosa bella è singolare e resta senza concetto»2. Quando giudichiamo

che un paesaggio, un abito, un dipinto, sono belli, noi abbiamo bisogno sempre, per così dire, di sottoporre l’oggetto ai nostri occhi, come se il nostro piacere dipendesse dalla sensazione. Non ci lasciamo convincere a parole da ragioni o principi, eppure attribuiamo anche agli altri il medesimo piacere, convinti che il nostro giudizio stia esprimendo una sorta di “voce universale”. Giudichiamo cioè non semplicemente per noi, ma per ciascuno, e disapproviamo chiunque giudichi diversamente, negandogli quella comune capacità del gusto che da lui pure pretendiamo (in questo senso non si può dire che a ciascuno appartenga un gusto particolare). Si vede qui che il giudizio estetico per Kant non postula il consenso di tutti, il che può fare solo un giudizio logico attraverso concetti determinati; «esso esige soltanto il consenso da ognuno, come un caso della regola, rispetto al quale esso attende la conferma non da concetti, ma dall’adesione altrui»3. Il rapporto tra accordo intersoggettivo e universalità s’inverte

rispetto alla Critica della ragion pura: è perché presumiamo che il nostro piacere sia di diritto comunicabile e valevole per tutti che ne deriviamo un’universalità o un’oggettività, non viceversa. Si dirà, pertanto, che il giudizio estetico implica un’oggettività senza concetto o un’universalità soggettiva4.

1 CG, § 4, p. 48; traduzione modificata. 2 ID, p. 67.

3 CG, § 8, p. 58.

4 In proposito Kant preferisce parlare non di universalità [Allgemeinheit], bensì più propriamente di

validità comune [Gemeingültigkeit], espressione che «indica la validità non del rapporto di una rappresentazione con la facoltà di conoscere, ma della rappresentazione medesima con il sentimento del piacere e del dispiacere in ogni soggetto» (ivi, p. 57).

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Ritorniamo ora alla questione dell’accordo tra le facoltà nel giudizio estetico. Sappiamo che, riflettendo un oggetto singolare dal punto di vista della forma, l’immaginazione si riferisce all’intelletto in quanto facoltà dei concetti, e da esso trae la propria normatività, la quale tuttavia rimane indeterminata. Non più sottomessa a un concetto specifico, l’immaginazione può sperimentare l’originale libertà del proprio esercizio; essa non schematizza, ma appunto riflette. Ora, questo accordo tra l’immaginazione libera e l’intelletto indeterminato, in cui si articola il giudizio di gusto, definisce un senso comune propriamente estetico, sulla cui base è possibile spiegare la condivisibilità a priori del bello: «il piacere che noi presupponiamo comunicabile e valevole per tutti non è nient’altro, infatti, che il risultato di questo accordo»1, il quale,

in quanto si produce senza un concetto determinato, non può essere conosciuto intellettualmente, ma solo sentito. Per questo motivo l’universalità da noi presupposta come condizione nel giudizio di gusto e lo stato che si produce nel soggetto in corrispondenza del libero armonizzarsi delle facoltà sono il medesimo. Noi possiamo esigere dagli altri il consenso sul giudizio di gusto non in quanto il bello valga di per sé in modo logicamente oggettivo, come proprietà dell’oggetto, bensì perché in ogni soggetto è lo stesso l’accordo che si produce in sua presenza.

Comprendiamo a questo punto per quale ragione Kant parli di un’anteriorità del senso comune estetico rispetto al senso comune logico e al senso comune morale. Abbiamo visto che il senso comune estetico rappresenta «una pura armonia soggettiva dove l’immaginazione e l’intelletto si esercitano spontaneamente, ciascuno per suo conto»2. Ora, che cosa si manifesta in questo libero gioco, in questo accordo non specificato tra le facoltà? La risposta di Kant è di grandissima importanza: in esso, egli dice, diveniamo originariamente coscienti del nostro stato vitale. Quando il soggetto fa esperienza del piacere superiore nulla viene designato dell’oggetto, tuttavia egli «sente se stesso secondo la rappresentazione da cui è affetto»3. È proprio in virtù di tale autoaffezione che le facoltà divengono capaci in generale di un rapporto: portandoci a contatto con il sentimento vitale [Lebensgefühl], infatti, la facoltà superiore del sentimento mette in atto una speciale causalità, la quale consiste «nel conservare, senza uno scopo ulteriore, lo stato della rappresentazione stessa e l’attività delle facoltà

1 K, p. 86. 2 Ibidem. 3 CG, § 1, p. 58.

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conoscitive»1, una causalità, quindi, che antecede e rende possibile l’individuarsi

dell’animo tanto nella facoltà del conoscere quanto in quella del desiderio. Non vi sarebbe rappresentazione alcuna, né teoretica né pratica, se essa non venisse dapprincipio riferita «interamente al soggetto, e cioè al suo sentimento vitale, sotto il nome di piacere o dispiacere»2. Prendendo coscienza, attraverso il piacere e il dispiacere, delle variazioni della vitalità, le facoltà dell’animo vengono attivate nei loro specifici esercizi, diviene per loro possibile rivolgersi a degli oggetti; perciò il senso comune estetico non può essere semplicemente considerato come un completamento degli altri due, ma come ciò che li fonda.

Si pone tuttavia un problema. Finora abbiamo spiegato l’universalità estetica o la comunicabilità della forma superiore del sentimento presupponendo il libero accordo delle facoltà. Kant scopre nel senso comune estetico un fondo dell’animo, una coscienza originaria della vitalità che si manifesta nell’idea di un accordo indeterminato tra le facoltà, più profondo di ogni altro. Ma, si domanda Deleuze,

è sufficiente presumere un tale fondo, basta semplicemente “presupporlo”? L’Analitica del bello come esposizione non può andare oltre. Essa non può che terminare facendoci sentire la necessità di una genesi del senso del bello: c’è un principio che ci fa da regola per produrre in noi il senso comune estetico?3.

Il fondo vitale di cui veniamo a coscienza nel senso comune estetico non si mostra capace di una vera e propria genesi perché lo intendiamo ancora dal punto di vista dell’esercizio armonioso. L’idea di un Lebensgefühl è l’ultima frontiera a cui riesce a giungere la semplice esposizione del senso comune estetico. Ma qual è il vero e proprio momento germinale in questa autoaffezione del soggetto vivente? Che cosa genera le facoltà nel loro armonizzarsi? Invero «la genesi non può che essere l’oggetto di una deduzione»4, una deduzione propriamente trascendentale.

Ponendo il problema di una genesi del senso comune estetico siamo portati allora ad un radicale spostamento di piani. Una volta arrivati a dire che l’accordo libero e

1 Ivi, § 12, p. 66. 2 Ivi, § 1, p. 44. 3 ID, p. 73. 4 Ibidem.

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indeterminato è la condizione che rende possibile ogni altro accordo, come potremmo evitare di chiederci ancora da dove esso provenga? Solo che non si tratta più di cercare un’altra condizione di possibilità, di presupporre un altro fondamento ipotetico. Si tratta semmai, come dice Deleuze, di “fare la genesi” delle facoltà, ossia di individuare un principio che non le rappresenti, che non le significhi, ma che le produca nel modo specifico della loro realtà. È così che «la critica in generale smette di essere un semplice condizionamento, per diventare una Formazione trascendentale, una Cultura trascendentale, una Genesi trascendentale»1. Realizzare questo passaggio significa per Deleuze lasciare l’Analitica del Bello ed entrare nell’Analitica del sublime.