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3. Piano della tesi

2.2. La disarmonia tra le facoltà

2.2.1. Metodo genetico e logica non rappresentativa

La critica deleuziana alla rappresentazione non intende affatto esserne una negazione. Che vi sia una dimensione rappresentativa sulla cui base la nostra esperienza viene normalmente ordinata non è certo messo da Deleuze in discussione, così come non lo è il fatto che vi sia un senso comune che di tale ordinamento costituisce il vero e proprio presupposto. Innanzitutto e perlopiù, si potrebbe dire riprendendo la formula di Heidegger, la nostra vita esperienziale è, a parere di Deleuze, rappresentazione dell’esperienza: lo è nella misura in cui ordinariamente abbiamo bisogno di una comprensione anticipante del mondo, abbiamo bisogno di poterlo riconoscere attraverso il riferimento a istanze universalizzanti, a categorie certe e stabili. Ordinariamente, in altre parole, io incontro il mondo nel presupposto di una reciproca armonia, presupposto secondo il quale le mie facoltà sono per natura o inneità predisposte alla comprensione del mondo e viceversa il mondo è predisposto a essere compreso da esse (così che a incontrarsi sono sempre lo stesso io e sempre lo stesso mondo: un mondo e un io qualunque). Se per la filosofia la rappresentazione solleva un problema e rende necessaria una sua critica non è dunque per il semplice fatto della sua esistenza. Solleva un problema, invece, a causa della sua pretesa di esaurire completamente in sé le possibilità dell’esperienza, al punto da porsi come struttura unica e invariante di ogni suo accadimento.

Sotto questo aspetto, criticare le pretese della rappresentazione significa in primo luogo, per Deleuze, sospendere il presupposto duplice dell’accordo naturale tra il soggetto e il mondo, da un lato, e tra le stesse facoltà del soggetto, dall’altro. Come abbiamo visto, in Kant l’insufficiente messa in discussione di questa naturalità, la quale trova nel rapporto tra Io penso e oggetto qualunque il proprio paradigma, ha come

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conseguenza fondamentale il ricalco del trascendentale sull’empirico e così il fallimento dell’istanza critica: il torto di Kant consisterebbe appunto nell’aver inteso le condizioni dell’esperienza come condizioni essenzialmente rappresentative, cioè come condizioni che è impossibile svincolare dal rapporto con il condizionato1.

Si comprende allora perché, nel momento in cui deve determinare il trascendentale da un punto di vista genetico, per Deleuze sia di massima importanza porlo non semplicemente come la condizione a partire da cui risulti possibile rendere ragione del sorgere e dell’articolarsi delle rappresentazioni, bensì come una condizione che, nello stesso momento in cui adempie a quella funzione, pure non vi si riduce. In tal senso, come è messo efficacemente in risalto da Paolo Godani, il campo trascendentale richiede di essere concepito secondo una logica che sia del tutto indipendente dalla logica che è propria della rappresentazione, pena il ricadere daccapo nel circolo del condizionamento:

Per Deleuze la determinazione del campo trascendentale non deve avere lo scopo di fondare la legittimità della rappresentazione, e dunque non può realizzarsi in un percorso che si limiti a risalire dalla rappresentazione costituita alla rappresentazione nel suo farsi, ma deve prescindere completamente dalla logica della rappresentazione2.

Detto con altre parole, nonostante appaia necessario retrocedere fino all’orizzonte trascendentale per poter spiegare geneticamente l’articolarsi delle nostre rappresentazioni, in tale retrocessione deve prodursi quella che è stata indicata da Rametta come una rottura rispetto all’armonia naturale implicita nel rappresentare, vale a dire deve essere individuato uno stacco o un dislivello tra il piano delle condizioni e quello del condizionato, stacco in assenza del quale il trascendentale finirebbe per

1 A questo proposito G. Rametta, Il trascendentale di Gilles Deleuze, cit., p. 347, evidenzia con

precisione come la mancanza di una rottura rispetto al campo rappresentativo nel passaggio tra le condizioni trascendentali e il condizionato empirico sia segno esattamente della circolarità del ricalco, la quale ha come conseguenza l’estendersi della rappresentazione allo stesso piano trascendentale: «[…] è vero che l’Io penso è il punto di volta della facoltà conoscitiva in quanto funzione di una soggettività non empirica, ma trascendentale; tuttavia, tale salto di piano non comporta rottura rispetto alla costituzione rappresentativa della facoltà conoscitiva stessa. La conoscenza implica funzioni trascendentali, ma tali funzioni trascendentali si staccano dal piano empirico solo per realizzare a un livello più alto, più completo, più profondo, il dominio della rappresentazione su tutto l’ambito conoscitivo».

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includere dentro di sé la stessa presunta naturalità dell’accordo di cui dovrebbe al contrario rendere ragione.

Alla luce di ciò risulta chiaro perché, se determinare la genesi trascendentale significa per Deleuze specificare quali siano le «condizioni non rappresentative dell’esperienza»1, ciò comporti d’altra parte la necessità di procedere oltre l’ambito

dell’esperienza ordinaria, ossia dell’esperienza articolata secondo il modello del riconoscimento e dominata dall’atteggiamento naturale che, forte della presupposta armonia tra uomo e mondo, appare in grado di prevenire ogni accadimento e così di legiferare su di esso, inquadrandolo in strutture precostituite che sono in ultima istanza strutture di previsione e di legiferazione2. Di qui l’interesse rivolto da Deleuze a tutte

quelle esperienze dell’estremo nelle quali il regolare esercizio delle nostre facoltà è sconvolto dalla violenza dell’incontro con qualcosa di assolutamente irriconoscibile, qualcosa che, senza passare attraverso la forma di una legge, ci costringe ad assumere tanto nei confronti del mondo quanto nei confronti di noi stessi una postura a tutti gli effetti innaturale, un atteggiamento liberato dal presupposto dell’armonia e dunque propriamente privo di scopo.

2.2.2. L’incontro come costrizione

È all’interno di tale cornice che Deleuze riprende il problema del cominciamento. Come abbiamo visto, per la logica della rappresentazione pensare significa essenzialmente rapportare un soggetto qualunque ad un oggetto qualunque in un momento qualunque. Da questo punto di vista, non può esservi alcuna novità nel cominciare del pensiero: già da sempre esso si è riconosciuto, e identicamente continua a riconoscersi, quale che sia il suo contenuto. Oltrepassare il dominio della rappresentazione vorrà dire allora, come prima cosa, sostenere che il pensiero comincia

1 Ibidem.

2 Siamo sottomessi alle leggi della Ragione esattamente nella misura in cui per loro tramite siamo in

grado di legiferare sulla Natura. È questa l’ipocrisia di cui Deleuze accusa Kant, descrivendo in

Pourparler il proprio libro del 1963: «Il mio libro su Kant […] l’ho scritto come un libro su un nemico di

cui cerco di mostrare il funzionamento, gli ingranaggi – tribunale della Ragione, uso misurato delle facoltà, una sottomissione tanto più ipocrita in quanto ci viene conferito il titolo di legislatori» (Pp, p. 14).