3. Piano della tesi
2.1. L’immagine del pensiero
2.1.2. Ambivalenza di Kant
2.1.2.1. Il tempo come limite interno dell’Io
1 Ivi, p. 171.
2 Cfr. ivi, p. 177: «Difatti ciò che è proprio del nuovo, in altri termini la differenza, è di sollecitare nel
pensiero forze che non sono quelle del riconoscimento, né oggi né mai, potenze di un ben diverso modello, in una terra incognita mai riconosciuta né riconoscibile».
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In Differenza e ripetizione e in generale nei testi successivi al 1968, la grande svolta kantiana è compresa a partire dal ruolo fondamentale assegnato alla temporalità. Secondo Deleuze sarebbe proprio la rinnovata concezione del tempo a costituire il punto focale a partire da cui Kant può scoprire l’istanza trascendentale e distaccarsi dalla vecchia metafisica dogmatica. In questo senso Deleuze ritiene istruttivo il confronto con la concezione sostanzialistica del cogito in Descartes.
Sembrerebbe che il cogito di Descartes operi con due valori logici: la determinazione e l’esistenza indeterminata. La determinazione (io penso) implica un’esistenza indeterminata (io sono, poiché “per pensare bisogna essere”) – e per l’appunto la determina come l’esistenza di un essere pensante: penso dunque sono, sono una cosa pensante1.
Richiamiamo per rapidi cenni il celebre argomento delle Meditazioni metafisiche. Afferma Descartes: quando opero il dubbio iperbolico, vi è qualcosa di cui non posso dubitare. Questo qualcosa non è certo il corpo, del quale posso dubitare. L’unica cosa di cui non posso dubitare è del fatto che dubito, e più precisamente del fatto che, per dubitare, penso. L’atto del pensare è dunque la conoscenza più certa ed evidente di tutte, poiché è la certezza che rende possibile lo stesso dubbio. Tuttavia per dubitare non soltanto devo pensare, ma devo anche esistere. È impossibile del resto dubitare dell’esistenza del soggetto che dubita, giacché lo stesso dubitare ne è conferma. Ma per avere certezza dell’esistere devo pensare. Per questo io sono essenzialmente una cosa che pensa2. Ecco dunque la sequenza dei concetti cartesiani: “io penso”
(determinazione), “io sono” (esistenza indeterminata), “io penso dunque sono” (esistenza determinata). L’implicazione necessaria, la continuità sussistente tra questi momenti è il nucleo dell’argomento di Descartes.
Ed è proprio su questo nucleo che si concentra l’obiezione kantiana. Certamente, concede Kant, l’io penso, in quanto principio di determinazione, implica giocoforza
1 Ivi, p. 115.
2 Cfr. R. Descartes, Meditazioni metafisiche, trad. it. S. Landucci, Roma-Bari 1997, p. 45: «Io esisto, è
certo; ma fino a quando? Finché penso, di certo; ché, se mai cessassi di pensare, potrebbe darsi che con ciò stesso cessassi interamente di esistere. Ora non ammetto se non quanto sia vero necessariamente: sono dunque, precisamente, soltanto una cosa che pensa, e cioè una mente, o un animo, o un intelletto, o una
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qualcosa d’indeterminato cui potersi applicare, appunto l’io sono. Ma qual è la forma sotto la quale avviene la determinazione? Nell’argomento cartesiano non vi è secondo Kant alcuna dimostrazione di come il determinante possa determinare l’indeterminato. «Tutta la critica kantiana si riduce a obiettare nei confronti di Descartes che non è possibile fondare direttamente la determinazione sull’indeterminato»1. Occorre pertanto
aggiungere un termine medio, un terzo valore logico che renda comprensibile il modo in cui avviene passaggio tra gli altri due. Questo terzo valore è
il determinabile, o piuttosto la forma sotto la quale l’indeterminato è determinabile (mediante la determinazione). È sufficiente questo terzo valore a fare della logica un’istanza trascendentale, a costituire la scoperta della Differenza, non più come differenza empirica tra due determinazioni, ma come Differenza trascendentale tra LA determinazione e ciò che essa determina – non più come differenza esterna che separa, ma come Differenza interna, che riferisce a priori l’uno all’altro l’essere e il pensiero. È famosa la risposta di Kant: la forma sotto la quale l’esistenza indeterminata è determinabile dall’Io penso, è la forma del tempo. Le conseguenze che ne derivano sono radicali: la mia esistenza indeterminata può essere determinata solo nel tempo, come l’esistenza di un fenomeno, di un soggetto fenomenico, passivo e ricettivo, che appare nel tempo2.
Si tratta di una scoperta che pone fine irrevocabilmente alla concezione classica o dogmatica del soggetto. Consideriamo ancora una volta la posizione cartesiana. Come noto, il fondamentale problema riguardante la natura umana è per Descartes quello dell’unione tra anima e corpo, problema che deriva dall’identificazione che egli opera tra essenza della materia e spazio geometrico. Contrapponendosi alla scolastica aristotelica, la quale negava che la materia potesse avere esistenza e intelligibilità proprie, Descartes afferma che la materia, nella misura in cui è pura estensione, esiste ed è pensabile di per sé, e che dunque è una sostanza allo stesso titolo della sostanza pensante. Tuttavia, come spiegare il convergere, il rapportarsi, il limitarsi reciproco delle due sostanze nella natura umana? Scrive Deleuze: «Il fatto che l’anima sia in un corpo, benché resti in se stessa inestesa, è un problema inestricabile: come è possibile
1 DR, p. 115. 2 Ibidem.
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che qualcosa di inesteso possa essere delimitato in qualcosa di esteso»1? Tutte le grandi
metafisiche del Seicento, da Spinoza a Malebranche, fino a Leibniz, presenteranno soluzioni alternative tra loro; sarà però soltanto la filosofia critica a oltrepassare il problema, trasformandone le premesse.
Sotto questo profilo, in effetti, con Kant vi è un completo cambiamento di scena: non vi è più un soggetto composto da due sostanze, la sostanza estesa e la sostanza pensante, bensì un soggetto diviso tra due forme irriducibili, «la forma della spontaneità del pensiero e la forma della ricettività del tempo»2. L’Io penso determina come forma della spontaneità l’esistenza indeterminata, ma tale determinazione può avere effettivamente realtà solo nel tempo, come esistenza fenomenica di un soggetto ricettivo. Si produce così, corrispondentemente all’introduzione del valore temporale della determinabilità, quella che per Deleuze è una spaccatura, un’incrinatura interna al soggetto. È ciò che Kant chiama “paradosso del senso interno”.
L’Io [Moi] è nel tempo e cambia continuamente: è un io [moi] passivo o piuttosto ricettivo che prova dei cambiamenti nel tempo. L’Io [Je] è un atto (io penso) che determina attivamente la mia esistenza (io sono), ma che può determinarla solo nel tempo, in quanto esistenza di un io [moi] passivo, ricettivo e mutevole che si rappresenta solo l’attività del suo pensiero. L’Io [Je] e l’Io [Moi] sono quindi separati dalla linea del tempo che li mette in rapporto l’uno con l’altro a condizione di una differenza fondamentale. La mia esistenza non può mai essere determinata come quella di un essere attivo e spontaneo, ma come quella di un io [moi] passivo che si rappresenta l’Io [Je], ossia la spontaneità della determinazione, come un Altro che lo affetta (“paradosso del senso interno”)3.
In altri termini, poiché tutto ciò che io posso conoscere sono oggetti dati nello spazio e nel tempo, che modificano i miei sensi e che contemporaneamente sono determinati dalla mia attività di pensiero, io non posso conoscermi da un punto di vista oggettivo se
1 FCT, p. 86. 2 Ivi, p. 89.
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CC, p. 46. Cfr. anche FCT, p. 92: «La determinazione attiva “io penso” determina attivamente la mia
esistenza, ma non può determinare la mia esistenza che sotto la forma del determinabile, cioè sotto la forma di un essere passivo nello spazio e nel tempo. Dunque “Io” [Je] è bensì un atto, ma un atto che posso rappresentarmi solo in quanto sono un essere passivo. “Io è un altro”. Io [Je] è dunque trascendentale».
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non in quanto sono modificato internamente da me stesso, cioè in quanto mi rappresento il pensiero «come la determinazione che determina la mia esistenza, ma che può determinarla solo come l’esistenza di un essere non attivo, bensì dato nel tempo»1.
Bisogna dunque intendere alla lettera l’idea deleuziana secondo cui il tempo opera in Kant nel modo di una linea che scinde o sdoppia in se stessa l’identità soggettiva: «io sono separato da me stesso dalla forma del tempo, e tuttavia sono uno»2, dal momento che, se l’Io penso [Je] determina necessariamente tale forma mediante la sintesi, d’altra parte l’Io fenomenico [Moi] ne è necessariamente determinato come suo contenuto. La differenza tra forma e contenuto, di conseguenza, non può essere più intesa nel senso di una distinzione empirica tra un soggetto e un oggetto ad esso esterno, ma in quello di una distinzione tutta interna al soggetto, di una differenza trascendentale che mostra nell’io stesso una sorta di costitutiva alienazione: io non posso pensare come io sono senza pormi in relazione ad altro, dunque senza che io divenga altro da ciò che semplicemente sono in quanto pensante.
Tutto avviene dunque «come se il pensiero fosse lavorato dall’interno da qualcosa che esso non può pensare»3, e che nondimeno costituisce l’unica condizione grazie alla
quale il pensiero può avere una realtà. Secondo Deleuze è proprio questa estraneità del soggetto rispetto a se stesso a rappresentare l’elemento radicalmente innovativo della rivoluzione copernicana. Abbiamo accennato al fatto che, in Descartes, e più in generale nella metafisica dogmatica, l’Altro dall’Io sia innanzitutto lo spazio, concepito quale limite esterno alla sostanza pensante. Ora, la tesi di Deleuze è che la critica kantiana, mettendo in rilievo il valore temporale dell’esistenza, interiorizzi la nozione di limite: l’Altro non è più lo spazio, ma il tempo. «Pensare il tempo vuol dire sostituire allo schema classico di una limitazione esteriore del pensiero da parte dell’estensione, l’idea, veramente strana, di un limite interiore al pensiero, che lo lavora dall’interno e che non viene affatto dal di fuori, dall’opacità di una sostanza»4. Con ciò Deleuze intende
sottolineare la consequenzialità tra interiorizzazione del limite e tramonto della concezione del soggetto come sostanza: che il tempo sia la condizione sotto la quale
1 Ivi, p. 102. In questo senso, scrive Kant, «noi conosciamo il nostro proprio soggetto solo come
fenomeno, ma non già per quel che esso è in se stesso» (CRP, p. 123).
2 CC, p. 46. 3 FCT, p. 87. 4 Ivi, p. 102.
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l’esistenza del pensiero è determinabile significa infatti che il pensiero, considerato di per sé, non implica l’esistenza, cioè non è una sostanza, ma una forma vuota di contenuto, una determinazione che non determina alcunché: l’Io penso, scrive Deleuze, «è la rappresentazione più povera, il pensiero più povero che accompagna tutti i pensieri»1. Il vero problema diviene allora quello di spiegare come avvenga la sintesi di questa alterità irriducibile, come lo stesso soggetto possa essere ad un tempo spontaneo e ricettivo, determinante e determinato, trascendentale ed empirico. È esattamente questa dicotomia interna all’Io che, in Kant, riconfigura il problema della conoscenza: «il rapporto soggetto-oggetto rimane, ma sdoppiato dal rapporto Io-Io [Je-Moi] che costituisce una modulazione, non più un calco»2.