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3. Piano della tesi

2.2. La disarmonia tra le facoltà

2.2.2. L’incontro come costrizione

includere dentro di sé la stessa presunta naturalità dell’accordo di cui dovrebbe al contrario rendere ragione.

Alla luce di ciò risulta chiaro perché, se determinare la genesi trascendentale significa per Deleuze specificare quali siano le «condizioni non rappresentative dell’esperienza»1, ciò comporti d’altra parte la necessità di procedere oltre l’ambito

dell’esperienza ordinaria, ossia dell’esperienza articolata secondo il modello del riconoscimento e dominata dall’atteggiamento naturale che, forte della presupposta armonia tra uomo e mondo, appare in grado di prevenire ogni accadimento e così di legiferare su di esso, inquadrandolo in strutture precostituite che sono in ultima istanza strutture di previsione e di legiferazione2. Di qui l’interesse rivolto da Deleuze a tutte

quelle esperienze dell’estremo nelle quali il regolare esercizio delle nostre facoltà è sconvolto dalla violenza dell’incontro con qualcosa di assolutamente irriconoscibile, qualcosa che, senza passare attraverso la forma di una legge, ci costringe ad assumere tanto nei confronti del mondo quanto nei confronti di noi stessi una postura a tutti gli effetti innaturale, un atteggiamento liberato dal presupposto dell’armonia e dunque propriamente privo di scopo.

2.2.2. L’incontro come costrizione

È all’interno di tale cornice che Deleuze riprende il problema del cominciamento. Come abbiamo visto, per la logica della rappresentazione pensare significa essenzialmente rapportare un soggetto qualunque ad un oggetto qualunque in un momento qualunque. Da questo punto di vista, non può esservi alcuna novità nel cominciare del pensiero: già da sempre esso si è riconosciuto, e identicamente continua a riconoscersi, quale che sia il suo contenuto. Oltrepassare il dominio della rappresentazione vorrà dire allora, come prima cosa, sostenere che il pensiero comincia

1 Ibidem.

2 Siamo sottomessi alle leggi della Ragione esattamente nella misura in cui per loro tramite siamo in

grado di legiferare sulla Natura. È questa l’ipocrisia di cui Deleuze accusa Kant, descrivendo in

Pourparler il proprio libro del 1963: «Il mio libro su Kant […] l’ho scritto come un libro su un nemico di

cui cerco di mostrare il funzionamento, gli ingranaggi – tribunale della Ragione, uso misurato delle facoltà, una sottomissione tanto più ipocrita in quanto ci viene conferito il titolo di legislatori» (Pp, p. 14).

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o avviene in un regime di rarità o di singolarità1. L’uomo, dice Deleuze, non pensa

affatto per natura o inneità, non pensa innanzitutto e perlopiù, ma raramente. Come intendere questo? La rarità è la cifra della rottura: collocare il pensiero in un regime di rarità significa riportarlo alla rottura da cui è originato. Questa rottura, non essendo in alcun modo anticipabile, non può presentarsi se non nella forma contingente, fortuita, traumatica dell’incontro. Ciò che può essere soltanto incontrato, afferma infatti Deleuze, «non propone al riconoscimento una prova particolarmente difficile, un inviluppo particolarmente difficile da districare, ma si oppone ad ogni riconoscimento possibile»2. Così facendo, nel momento stesso in cui interrompe il normale esercizio delle facoltà, l’oggetto dell’incontro costringe il pensiero ad abbandonare il suo stato di naturalità, che coincide poi con il suo mero essere-in-potenza, e a generarsi realmente dentro di sé. Scrive Deleuze:

In verità i concetti non designano altro che possibilità. Manca loro una provocazione, come potrebbe essere quella della necessità assoluta, cioè di una violenza originaria fatta al pensiero, una estraneità, un’animosità che sola lo farebbe uscire dal suo stupore naturale o dalla sua eterna possibilità: fintantoché non vi sia pensiero se non involontario, costrizione suscitata nel pensiero, è tanto più assolutamente necessario che esso nasca, per effrazione, dal fortuito nel mondo. […] Non si può contare sul pensiero per installarvi la necessità relativa di ciò che esso pensa, ma viceversa sulla contingenza di un incontro con ciò che costringe a pensare, per levare e innalzare la necessità assoluta di un atto di pensare, di una passione di pensare3.

Deleuze sostiene dunque che la genesi del pensiero debba essere ricercata nella passività dell’incontro, senza che tuttavia ciò comporti un’esteriorità tra i termini eterogenei considerati; sappiamo infatti che la genesi, per essere a tutti gli effetti trascendentale, deve risultare interna e relativa tanto al soggetto quanto all’oggetto. Ma come conciliare coerentemente la nozione d’incontro con quella d’interiorità?

Tutta la difficoltà secondo Deleuze sorge nel momento in cui, ancora una volta a causa dell’indebito sconfinamento dell’empirico nel trascendentale, sovrapponiamo e

1 Sulla nozione di rarità in Deleuze cfr. F. Zourabichvili, Événement et littéralité, in La littéralité et autres

essais sur l’art, Paris 2011, pp. 31-39.

2 DR, p. 185. 3 Ivi, p. 182.

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confondiamo la passività con la ricettività, credendo così che il patire non possa consistere in altro che nel ricevere dall’esterno un’impressione. Quando il senso comune pensa l’incontro, lo intende esattamente secondo una tale accezione, cioè come un rapporto tra un io e un mondo, tra un soggetto e un oggetto, che sono già dati come distinti e che sulla base di questa iniziale separatezza “si imbattono” l’uno nell’altro, condizionandosi: prima ci sono il soggetto e l’oggetto, poi il loro incontro. Di conseguenza la difficoltà si risolve se riconduciamo l’incontro, per intero, alla sua specifica dimensione trascendentale, vale a dire se compiamo un sovvertimento radicale, una rottura appunto, di quello che è il modo d’intendere del senso comune. Da questo punto di vista si tratta per Deleuze non di rispecchiare a livello trascendentale il dualismo empirico soggetto-oggetto, bensì di affermare, chiasmaticamente, che il trascendentale stesso non è altro che il distinguersi del soggetto e dell’oggetto, i quali proprio perciò sono in esso indiscernibili o reversibili1.

Il chiasma definisce così la rottura comportata dall’incontro: una rottura di cui è conveniente segnalare tutta l’asimmetria, giacché mentre il piano empirico si distingue o si stacca da quello trascendentale, e ciò esattamente in forza dell’azione del trascendentale, viceversa il piano trascendentale non se ne distingue, rimanendo immanente a esso. Ancora una volta, ciò che Deleuze intende dire è che non si deve pensare che vi sia il trascendentale da una parte e l’empirico dall’altra, non si deve cioè “cosalizzare” la loro distinzione o differenza, riducendola a opposizione estrinseca. La dualità tra le figure dell’empirico (soggetto e oggetto, pensiero ed essere, intelletto e sensibilità, ecc.) a cui il trascendentale come chiasma dà luogo non può implicare a sua

1 Su questo cfr. S. Palazzo, Trascendentale e temporalità…, cit., p. 285: «Deleuze sta distinguendo il

trascendentale dalla coppia soggetto-oggetto tout court, quindi non sta opponendo un soggetto e un oggetto empirici a un soggetto e un oggetto trascendentali: si ricadrebbe in tal caso nella forma del ricalco». Palazzo sottolinea inoltre, in modo molto opportuno, la necessità di comprendere il costituirsi della figura chiasmatica del trascendentale come la soluzione stessa del problema del condizionamento circolare, e dunque come l’unica via percorribile per attribuire al campo trascendentale una natura incondizionata. Il trascendentale è incondizionato proprio perché nel chiasma soggetto e oggetto sono «essi stessi costituiti ed effettuali» (ibidem). In modo non dissimile, P. Montebello, Deleuze. La passion

de la pensée, Paris 2008, pp. 29-44, parla di un paradosso della reversibilità come dell’operazione

decisiva che, proprio nel momento in cui rende il campo trascendentale immanente ai termini che genera, insieme lo eleva a orizzonte assoluto inoggettivabile e impersonale. Facendo riferimento in particolare a

Che cos’è la filosofia?, Montebello evidenzia così il fatto che il trascendentale sia in grado di emanciparsi

dai dualismi caratteristici del piano empirico solamente allorché ricomprende dentro di sé gli opposti di cui essi si compongono, e ricomprendendoli li rovescia l’uno nell’altro, ossia li mostra come indissociabili, intrinseci, reciproci.

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volta un dualismo tra l’empirico e il trascendentale. È evidente infatti che se il trascendentale non persistesse nell’empirico, necessariamente finirebbe esso stesso per divenire una figura empirica, un illusorio “al di là” rispetto al mondo, del quale invero non sarebbe che il ricalco astratto. In tal senso, come articolazione del campo trascendentale, l’incontro è sempre unità, ma unità che non sussiste se non sdoppiandosi, è sempre sintesi, ma sintesi che disgiunge piuttosto che unificare. Questa interiorità, questa reversibilità degli opposti nell’incontro non precede la loro distinzione né la segue come un risultato, non è in altre parole né un prima né un poi, dato che il prima e il poi, in quanto determinazioni empiriche, sono distribuiti a partire da essa. Deleuze insiste nel sottolineare come non ci si trovi affatto, qui, di fronte a una mera forma d’indistinzione o d’indifferenza: la reversibilità si mostra semmai come il paradosso di un “distinto-oscuro”, che è tanto più distinto quanto più è oscuro, dove oscuro è appunto il puro e semplice distinguersi del distinto come tale. A essere messa radicalmente in discussione è, di nuovo, la possibilità di rappresentare, di riconoscere la genesi: nel momento stesso in cui riconosco, individuo, identifico ciò che si distingue, nel momento dunque in cui lo colgo come “chiaro e distinto”, io non sono già più nell’istante singolare del suo distinguersi1. Potrò allora rappresentare questo istante

come qualcosa che è venuto prima, come un già stato, da cui io sono separato e che sta a me “di contro”, ma così facendo ecco che starò operando precisamente secondo quel paradigma rappresentativo a cui, come tale, l’accadere del distinto si sottrae.

Quanto detto consente di comprendere meglio l’affermazione di Deleuze secondo la quale il pensiero patisce la propria genesi senza tuttavia rinviare a qualcosa d’esteriore. La genesi è una genesi immanente proprio perché doppia o reciproca, cioè riguardante entrambi i termini dell’opposizione empirica: il pensiero e il mondo sono generati simultaneamente nell’incontro, ciascuno all’interno dell’altro e tuttavia ognuno in modo indipendente, il mondo dal mondo e il pensiero dal pensiero. L’impossibilità per il pensiero di riconoscersi in questa simultaneità, la sua incapacità di rappresentare la genesi se non esternalizzandone i termini, e dunque perdendone tutta l’effettualità, è il medesimo prodursi della rottura o del dislivello tra il trascendentale e l’empirico. In questo senso Deleuze, se pure da un lato può giungere ad affermare che «le condizioni di una vera critica e di una vera creazione sono le stesse: distruzione dell’immagine di

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un pensiero che si presuppone a sua volta, genesi dell’atto di pensare nel pensiero stesso»1; dall’altro è costretto a riferirsi a tali condizioni come a qualcosa di completamente impensabile, come a un limite interno che, per così dire, si ritira allo sguardo del pensiero nel momento stesso in cui pure gli dà una vista.