• Non ci sono risultati.

L’Io penso come principio più generale della rappresentazione: psicologismo,

3. Piano della tesi

2.1. L’immagine del pensiero

2.1.2. Ambivalenza di Kant

2.1.2.4. L’Io penso come principio più generale della rappresentazione: psicologismo,

Come abbiamo anticipato sopra, portando alla massima radicalità l’incapacità del soggetto di riconoscersi, vale a dire intendendola come quella incolmabile incrinatura che contraddistingue l’esistenza umana, Hölderlin svilupperebbe a parere di Deleuze il nucleo incompiuto del progetto critico. Vero è che Kant, nel momento in cui pone il tempo come condizione di determinabilità dell’essere dell’Io, scopre in tale incrinatura la struttura fondamentale in base a cui il soggetto attivo trascendentale può essere inteso come lo stesso soggetto passivo che incontriamo nell’esperienza determinata; ossia scopre nel senso interno la separazione, la differenza, come chiave per poter comprendere l’identità reale dell’Io. Tuttavia si tratta di una scoperta che, non venendo elaborata da Kant in relazione alle conseguenze che pure implica, rimarrebbe inevitabilmente parziale e in un certo senso occultata.

La mancata radicalità di Kant si comprende secondo Deleuze in primo luogo a partire dal ruolo preponderante che l’Io penso viene ad assumere quale principio attivo

1 Su questo, cfr. R. Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, in F. Holderlin, Sul tragico, tr. it. a cura di

R. Bodei e G. Pasquinelli, Milano 1994, p. 60: «La “doppia infedeltà” si rivela in un doppio oblio: da un lato nell’astrattezza ubiqua della forma a priori del tempo, dall’altro nell’istante senza preveggenza. Ma il tempo privo del riempimento empirico del molteplice dell’esperienza è kantianamente vuoto e invisibile di per sé, mentre il momento isolato è l’essenza dell’oblio stesso, poiché non considera se non il presente puntuale».

104

unitario intorno a cui sono organizzate tutte le capacità sintetiche del soggetto. Questa preponderanza ha come duplice risultato, da un lato, l’impossibilità di attribuire un qualsiasi tipo di sinteticità all’Io passivo, dall’altro, correlativamente, la riproduzione di una esteriorità tra piano trascendentale e piano dell’esperienza.

È importante mettere in rilievo il passaggio tra i due punti menzionati. Il fatto che Kant neghi alla passività una capacità sintetica comporta che ogni sintesi sarà da riportare alla sfera attiva del soggetto, vale a dire, in ultima istanza, alla sintesi del riconoscimento operata dall’Io penso; come si legge nelle pagine sulla Deduzione, Kant risale dalle sintesi empiriche all’unità trascendentale dell’appercezione, al fine di porre quest’ultima come condizione delle prime. Così facendo, tuttavia, nel momento stesso in cui sopprime il divario interno al soggetto mediante l’onnipervasiva attività dell’Io penso1, secondo Deleuze il filosofo di Königsberg ricalcherebbe in modo surrettizio le operazioni trascendentali su quelle empiriche, cadendo in una posizione essenzialmente psicologistica.

Nella prima edizione della Critica della ragion pura, [Kant] descrive minutamente tre sintesi che misurano l’apporto rispettivo delle facoltà pensanti, tutte culminanti nella terza, quella del riconoscimento, che si esprime nella forma dell’oggetto qualunque come correlato dell’Io penso a cui tutte le facoltà si riferiscono. È chiaro che Kant ricalca così le strutture trascendentali sugli atti empirici di una coscienza psicologica: la sintesi trascendentale dell’apprensione è direttamente indotta da un’apprensione empirica, e così via. E per nascondere un procedimento così vistoso Kant sopprime questa parte nella seconda edizione. Ma anche se più nascosto, il metodo del ricalco [décalque] continua a sussistere con tutto il suo “psicologismo”2

.

Sarebbe dunque proprio un tale décalque del trascendentale sull’empirico a consentire a Kant di tracciare una connessione a priori tra la funzione unificante della coscienza e l’identità dell’oggetto. L’oggetto è identificato, è riconosciuto come “lo Stesso” perché l’Io penso riflette su di esso la propria forma attraverso il riferimento all’oggetto qualunque, il quale tuttavia, in quanto mera condizione di possibilità, non può che

1 Cfr. DR, p. 117: «Nel campo speculativo, l’incrinatura è presto colmata da una nuova forma d’identità,

l’identità sintetica attiva, mentre l’io passivo è soltanto definito dalla ricettività, non possedendo a questo titolo alcun potere di sintesi».

105

“sovrapporsi” dall’esterno all’oggetto empiricamente qualificato1. Si spiega in questo

modo il prodursi di una circolarità tra il piano delle condizioni trascendentali e quello empirico di ciò che ne viene condizionato. Muoviamo da un condizionato alla sua condizione; ma poiché la condizione stabilisce semplicemente la forma possibile del condizionato, siamo rimandati circolarmente dalla condizione al condizionato e viceversa. Scrive Deleuze:

Il torto di tutte le determinazioni del trascendentale come coscienza è di concepire il trascendentale a immagine e somiglianza di ciò che si presume fondi. Allora, o ci si dà bell’è fatto ciò che si pretendeva di generare con un metodo trascendentale; ce lo si dà bell’e fatto nel senso cosiddetto “originario” che si suppone appartenga alla coscienza costituente. Oppure, in conformità con lo stesso Kant, si rinuncia alla genesi o alla costituzione per attenersi a un semplice condizionamento trascendentale; ma non si sfugge nondimeno al circolo vizioso, in base al quale la condizione rinvia al condizionato di cui essa ricalca l’immagine2

.

Nell’argomento di Deleuze bisogna evidenziare la reciprocità tra l’accusa di formalismo e quella di psicologismo. Sono infatti queste due fallacie a formare il nucleo teorico del “circolo del condizionamento”: il formalismo sussistente a livello trascendentale tra Io penso e oggetto qualunque comporta l’esteriorità del riferimento all’oggetto empirico, ma l’esteriorità di questo riferimento comporta a sua volta il ricalco psicologistico delle condizioni sul condizionato. In altre parole, che l’a priori kantiano sia comprensivo della mera possibilità dell’oggetto significa che esso troverà inevitabilmente fuori di sé la ragione del proprio realizzarsi in una materia; appare evidente il circolo vizioso che allora si produce tra le forme a priori dell’intelletto che fanno capo all’Io penso e il loro contenuto sensibile: le categorie possono condizionare l’intera esperienza soltanto se in tale condizionamento si presuppone come già dato il

1 Cfr. ivi, pp. 175: «E se l’oggetto non qualunque non esiste se non come qualificato, per contro la

qualificazione opera solo presupponendo l’oggetto qualunque».

106

riferimento al condizionato, cioè soltanto se il condizionato diviene a sua volta condizione per lo stesso principio condizionante1.

Il punto nodale della critica di Deleuze è, con ogni evidenza, la nozione di possibilità, intesa bergsonianamente come proiezione retrograda del dato sul concetto. In tal senso lo sforzo di Deleuze si concentra nel mostrare come il presupposto implicito o soggettivo in virtù di cui il filosofo può parlare in termini generali di “condizioni di ogni esperienza possibile”, sia inevitabilmente il suo essere già da sempre calato in un’esperienza reale (“nel mezzo” cioè di un ambiente specifico, nel flusso di un concretissimo contesto di vita) della quale la possibilità non è che il ricalco o il raddoppiamento astratto.

Nella misura in cui il possibile si propone alla “realizzazione”, è a sua volta concepito come l’immagine del reale, mentre il reale è concepito come la somiglianza del possibile. Per questo si comprende così poco ciò che l’esistenza aggiunge al concetto, duplicando il simile con il simile. È questa la tara del possibile, che lo denuncia poi come prodotto a posteriori, fabbricato retroattivamente, a sua volta immagine di ciò che gli somiglia2.

Tralasciando per il momento la questione dell’interpretazione deleuziana di Bergson, sulla quale faremo ritorno in seguito, ciò che qui vogliamo sottolineare è il nesso tra la definizione dell’esperienza come esperienza possibile e quella delle strutture trascendentali come funzioni rappresentative o di riconoscimento. Infatti, allorché intendiamo l’esperienza a partire dalle sue condizioni di possibilità, noi non facciamo altro che rapportare l’attività unificante della categoria all’identità di un oggetto già da sempre riconosciuto, e come tale inadeguato a spiegare l’incontro singolare con la realtà del contenuto: semplice oggetto qualunque, valido indifferentemente in ogni caso (come potrebbe un oggetto qualunque essere diverso da un altro oggetto qualunque?). L’eccessiva larghezza che impedisce alle forme a priori di dare ragione del realizzarsi

1 S. Palazzo, Trascendentale e temporalità …, cit., pp. 121-128, mette in evidenza a giusto titolo come

dalla forma circolare del condizionamento discenda l’impossibilità di concepire le strutture a priori come strutture dell’incondizionato.

2 DR, p. 174. Su questo punto cfr. L.R. Bryant, Difference and Giveness…, cit., p. 34: «Quando la

relazione tra la condizione trascendentale (come struttura della possibilità) e l’esperienza condizionata (reale) diviene indiscernibile, diviene altresì impossibile determinare se queste condizioni siano valide per ogni esperienza possibile oppure se siano costruzioni retroattive di una esperienza reale, vissuta, e di conseguenza condizionata ed arbitraria».

107

dell’oggetto viene così a specificarsi come un tratto della loro stessa pura potenzialità: «I concetti elementari della rappresentazione sono le categorie definite come condizioni dell’esperienza possibile. Ma queste ultime sono troppo generali, troppo larghe per il reale»1. Detto altrimenti, è proprio perché sono “troppo generali o troppo larghe” (ossia indicative di una condizione esterna al condizionato) che le categorie permettono di riconoscere l’oggetto, assegnandogli la forma dell’identità.

Entro questo quadro si comprende la critica che Deleuze muove alla mediazione operata dallo schematismo, la quale non garantirebbe affatto l’accordo tra le categorie e il molteplice sensibile, ma si limiterebbe a trasferire la possibilità dall’ambito logico a quello trascendentale, e così a replicare quella stessa esteriorità che al contrario vorrebbe rimuovere.

Lo schema è sì una regola di determinazione del tempo e di costruzione dello spazio, ma esso è pensato e messo in opera in rapporto al concetto come possibilità logica; questa relazione è presente nella sua natura stessa, al punto che lo schema converte soltanto la possibilità logica in possibilità trascendentale, e fa corrispondere relazioni spazio- temporali alle relazioni logiche del concetto. Esterno al concetto, non si vede però come lo schema possa assicurare l’armonia dell’intelletto e della sensibilità, in quanto non ha di che assicurare la propria armonia con il concetto dell’intelletto, senza l’intervento di un miracolo2.

Questo “miracolo” che avviene nello schematismo altro non è che la stessa matrice del ricalco: è qui che si mostra nella sua piena evidenza, secondo Deleuze, il più rilevante residuo doxastico sul quale Kant intende fondare l’intera articolazione dell’interesse speculativo. Al di sotto dei rapporti tra categorie e intuizioni sensibili sono operanti presupposti impliciti, soggettivi, che si originano negli schemi, cioè esattamente nel punto di raccordo tra il piano trascendentale e quello empirico, e che trovano la loro massima esplicitazione nella posizione dell’Io penso come unità di tutta l’attività sintetica del soggetto, il quale, avendo per così dire ricomposto in sé l’incrinatura del tempo, si mostra nella propria integrità pensante secondo una natura buona e retta, o meglio secondo «una buona legge naturale a cui la Critica apporta la sua sanzione

1 DR, p. 93. 2 Ivi, p. 281.

108

civile»1. Senonché, come osserva giustamente Alberto Gualandi, «è solo il pensiero

sottomesso alle rappresentazioni del senso comune e del buon senso a credere di poter saturare l’incrinatura costitutiva, ristabilendo le condizioni per l’esistenza di un soggetto identico. In realtà, questa unità è a priori impossibile poiché l’Io [Je] che esercita la sua azione sintetica sull’Io sensibile [Moi] è già in se stesso scisso dalla forma del tempo»2.

Ed è infatti proprio il senso comune a esprimersi nell’auto-riconoscimento attraverso cui l’Io penso decide il dominio dell’intelletto nell’interesse speculativo.

Il riconoscimento non sussiste però soltanto speculativamente: «ovunque il modello variabile del riconoscimento stabilisce il buon uso, in una concordia fra le facoltà determinata da una facoltà dominante in un senso comune»3. In questo modo,

sulla base della presupposta naturalità del pensiero, Kant secondo Deleuze «finisce per moltiplicare i sensi comuni, per fare tanti sensi comuni quanti sono gli interessi naturali del pensiero ragionevole»: in ogni interesse si esprime il senso comune come «collaborazione delle facoltà su una forma dello Stesso o su un modello del riconoscimento»4, vale a dire come legge naturale che porta le diverse facoltà ad

armonizzarsi all’interno di un dominio specifico retto da una facoltà legiferante. La differenza tra i sensi comuni definiti da Kant sarà perciò comprensibile come una differenza tra le diverse espressioni del riconoscimento:

se è vero che tutte le facoltà collaborano nel riconoscimento in generale, le formule di tale collaborazione differiscono secondo le condizioni di ciò che va riconosciuto: oggetto di conoscenza, valore morale, effetto estetico5.

Da questo punto di vista si vede bene come il senso comune estenda all’insieme degli interessi razionali il presupposto implicito della cogitatio natura universalis, e dunque dell’unità dell’Io come «principio più generale della rappresentazione»6 sulla cui base

può articolarsi la concordanza di tutte le facoltà in rapporto all’identità di un oggetto riconosciuto. È così che Deleuze mostra come le diverse funzioni svolte dalle facoltà

1 Ivi, p. 179.

2 A. Gualandi, Deleuze, Paris 1998, p. 112. 3 DR, p. 179.

4 Ivi, p. 178. 5 Ivi, p. 179. 6 Ivi, p. 178.

109

appaiano tutte riconducibili al pensiero, o più precisamente all’auto-riconoscimento del soggetto nel pensiero, come a quell’attività fondamentale di unificazione che garantisce a esse un rapporto con i propri oggetti: l’“io conosco”, l’“io desidero”, l’“io sento” non sarebbero affatto connessi rappresentativamente ad un medesimo oggetto conosciuto, desiderato, sentito, se in ciascuno di questi casi non fossero presupposte l’unità sintetica dell’Io penso e, più in generale, l’identità trascendentale del soggetto da essa sancita1. In

Kant tutte le facoltà sono facoltà della rappresentazione appunto perché inscritte senza eccezioni nell’orizzonte complessivo della cogitatio natura universalis, orizzonte all’interno del quale esse, piuttosto che mettere criticamente in discussione, moltiplicano, riproducono da angolature differenti tanto la presupposizione della loro reciproca armonia quanto, di conseguenza, l’immagine dogmatica del pensiero. E se è pure vero che Kant riscopre nel sublime l’incrinatura del soggetto ad un tempo come genesi disarmonica delle facoltà e come disarticolazione del modello del riconoscimento, resta il fatto che tale genesi e tale disarticolazione non avvengono se non in vista dell’espressione estetica della legge morale, la quale ricompone a un livello superiore l’unità, per un momento disgregata, del piano rappresentativo.

È dunque in definitiva questa elevazione e proliferazione del senso comune a livello trascendentale che, secondo Deleuze, segna il fallimento del progetto critico2: il trascendentale di Kant è circolare e tautologico precisamente in quanto fondato sul presupposto dell’auto-riconoscimento del pensiero, pensiero che viene perciò stesso inteso come un qualcosa di sempre già stabilito rispetto all’esercizio critico che lo indaga; come Kant scrive nel § 4 dei Prolegomeni, la critica «non presuppone nulla come dato, se non la ragione stessa»3. Vediamo bene in questo senso tutta l’ambivalenza che, considerando la filosofia kantiana, Deleuze si sforza di mettere in rilievo: Kant, è vero, giunge inequivocabilmente a mostrare, per riprendere le parole di Damiano Cantone, «che il limite del pensiero è ciò che rimane sempre impensato nel

1 Cfr. ivi, p. 175: «Il pensiero è supposto naturalmente retto, perché non è una facoltà come le altre, ma,

riferito a un soggetto, l’unità di tutte le altre facoltà che sono soltanto i suoi modi, e che esso orienta sulla forma dello Stesso nel modello del riconoscimento. Questo modello è necessariamente compreso nell’immagine del pensiero».

2 Cfr. in questo senso G. Rametta, Il trascendentale di Gilles Deleuze, cit., p. 364: «Il senso comune

diventa così lo strumento per ricondurre il trascendentale all’empirico, e viceversa per riprodurre l’empirico nel trascendentale. In questo ricalco, la radicalità potenziale della svolta kantiana viene perduta».

110

pensiero, ovvero il fatto che l’immagine del pensiero che mi creo a partire dalla mia condizione di passività rispetto al pensiero stesso non è il pensiero stesso»1. Lo mostra in modo decisivo, come abbiamo più volte sottolineato, innanzitutto nel paradosso del senso interno e poi, successivamente, nel sublime: qui l’immagine del pensiero è rovesciata, ed emerge con nitidezza il fondamentale e irredimibile dissidio che attraversa ogni atomo di pensiero come la condizione stessa del suo sorgere. Ma si tratta di un rovesciamento soltanto parziale e temporaneo, giacché, in entrambi casi, l’unità e l’armonia sono presto ricostituite nella piena attività del soggetto conoscitivo, da un lato, e morale, dall’altro.

In tutto ciò il confronto con il criticismo kantiano consente a Deleuze di guadagnare i termini di riferimento per la determinazione di un orizzonte trascendentale incondizionato, in grado di costituirsi come tale a partire dalla impensabilità strutturale che investe il pensiero nel momento del proprio stesso cominciare. In consonanza con gli intendimenti più radicali da cui muoveva la rivoluzione di Kant, secondo Deleuze l’istanza metodica a cui dare corpo è pertanto la seguente: cessare di presupporre il pensiero a se stesso, cessare cioè d’intenderlo come una facoltà privilegiata del soggetto, trascendente rispetto all’esperienza e perciò precostituita, per risalire al modo della sua genesi nella temporalità immanente all’Io. Il che non significa, come vedremo nel prosieguo, confondere il piano trascendentale con quello empirico: se non vi è confusione di sorta è infatti, al contrario, precisamente perché si afferma una radicale immanenza dell’uno all’altro piano. L’immanenza, si dirà anzi, è essa stessa la distinzione; ma questo richiederà di accedere a una concezione allargata (e completamente nuova) tanto dell’empirico quanto del trascendentale.

2.1.2.5. Excursus I. Le obiezioni di Maimon a Kant come modello per la critica