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I tre caratteri dell’incontro: sentiendum, memorandum, cogitandum

3. Piano della tesi

2.2. La disarmonia tra le facoltà

2.2.3. I tre caratteri dell’incontro: sentiendum, memorandum, cogitandum

Ma per Deleuze il problema è stato fin qui affrontato in maniera insufficiente. Come affermare, infatti, a partire dal pensiero, che il soggetto e il mondo si mantengono distinti nell’unità dell’incontro, se nel suo esercizio ordinario il pensiero può pensare un oggetto soltanto riconoscendolo, identificandolo, assimilandolo? Inevitabilmente l’oggetto dell’incontro e l’oggetto impensabile a cui l’incontro eleva il pensiero non sono il medesimo: l’impensabilità non è relativa all’incontro nella sua prima e immediata configurazione, la quale è semplicemente insensibile, ma è il risultato a cui il pensiero è costretto dall’incontro. Ci confrontiamo allora con l’esigenza di fare un passo indietro rispetto al pensiero, in modo tale da intenderlo come un punto d’arrivo, piuttosto che di partenza. È muovendo questo passo che Deleuze scopre, nell’intimo del soggetto scosso dall’incontro, una dialettica genetica delle facoltà, traente spunto dalla sensibilità e avente come elemento principale la trasmissione della violenza.

Nel suo carattere iniziale, dice Deleuze, qualunque sia la tonalità affettiva sotto la quale si presenta, l’oggetto dell’incontro «può essere soltanto sentito»2. Il che non

significa fare ritorno a una forma ingenua di empirismo. “Ciò che può essere soltanto sentito”, infatti, non è un dato ricevuto dalla nostra facoltà di sentire e quindi consegnato alle altre facoltà al fine riconoscerlo, ma la genesi immediata e contemporanea tanto del sentire quanto dell’oggetto sentito.

Il sensibile del riconoscimento non è affatto ciò che può essere soltanto sentito, ma ciò che si riferisce direttamente ai sensi in un oggetto che può essere ricordato, immaginato o concepito. Il sensibile non è soltanto riferito a un oggetto che può essere altro che sentito, ma può essere a sua volta rimirato mediante altre facoltà. Esso presuppone dunque

1 Ivi, p. 182. 2 DR, p. 182.

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l’esercizio dei sensi e l’esercizio delle altre facoltà in un senso comune. L’oggetto dell’incontro, invece, fa realmente nascere la sensibilità nel senso, non è un αἰσθητόν ma un αἰσθητέον, non una qualità, ma un segno, non un essere sensibile, ma l’essere del sensibile, non il dato, ma ciò per cui il dato è dato1.

Va rilevato qui come Deleuze stabilisca un nesso fondamentale tra la specificità della genesi sensibile e la messa in discussione del senso comune: che nell’incontro la sensibilità venga a contatto con il proprio oggetto in modo esclusivo (dove tale esclusività è null’altro che la nascita della stessa sensibilità), significa che tale oggetto non potrà essere inteso come lo “stesso” oggetto a cui tutte le facoltà fanno riferimento a livello empirico nell’armonia loro garantita da un senso comune. Perciò il sentiendum (“ciò che può essere soltanto sentito”) sarà anche

l’insensibile in un certo senso, cioè proprio dal punto di vista del riconoscimento, ossia dal punto di vista di un esercizio empirico in cui la sensibilità non coglie che ciò che potrà essere colto anche mediante altre facoltà, e si riferisce nella forma di un senso comune a un oggetto che deve essere appreso anche da altre facoltà2.

È precisamente nel momento in cui smarrisce la capacità empirica di unificare differenti sensazioni in qualcosa di riconoscibile come sentito, che la sensibilità, raggiungendo il proprio limite interno, «s’innalza a un esercizio trascendente – l’ennesima potenza»3. L’esercizio trascendente della sensibilità è innanzitutto il suo

risvegliarsi all’essere, il suo sorgere non avendo altro oggetto che se stessa, dunque un sentire il sentire che ad un tempo sopprime la posizione presupposta tanto del soggetto senziente quanto dell’oggetto sentito. Ma è anche, secondariamente, la trasmissione di una violenza, di un turbamento che si configura nell’anima come “problema”: che cosa ho sentito? La domanda così suscitata è il primo momento in cui l’anima si stacca dall’oggetto dell’incontro, dall’immediata identità con esso. Di questa domanda si fa carico la memoria, o meglio è la memoria a costituirsi in questo domandare.

1 Ibidem. 2 Ibidem. 3 Ibidem.

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Riprendendo nei suoi tratti essenziali la tematica platonica della reminiscenza, Deleuze mostra come la memoria, costretta dall’esercizio trascendente della sensibilità, ricerchi il proprio oggetto specifico non più in un passato determinato, che essa può ricordare, bensì nel puro essere del passato, in un passato, quindi, che non è mai stato presente. Anche la memoria s’innalza così al proprio esercizio trascendente, trovando che il memorandum, ciò che s’impone alla memoria potendo essere soltanto ricordato, è nello stesso tempo l’immemoriale, «ciò che è colpito da un oblio essenziale»1. Dice

Deleuze:

Esiste una grande differenza tra l’oblio essenziale e l’oblio empirico. La memoria empirica si rivolge a cose che possono e devono anche essere colte in modo diverso: quel che ricordo, devo averlo visto, inteso, immaginato, o pensato. Il dimenticato, in senso empirico, è ciò che non si giunge a riafferrare con la memoria quando lo si cerca una seconda volta (è troppo lontano, l’oblio mi separa dal ricordo o lo ha cancellato). Ma la memoria trascendentale coglie ciò che già la prima volta, può essere solo ricordato: non un passato contingente, ma l’essere del passato come tale, e del passato di ogni tempo. Obliata, la cosa appare così nella sua verità alla memoria che l’apprende essenzialmente, e non si rivolge alla memoria senza rivolgersi all’oblio nella memoria. Il memorandum è anche l’immemorabile, l’immemoriale2

.

Al pari della sensibilità, la memoria, spinta fino all’estremo limite delle proprie capacità, scopre che ciò che può essere soltanto rammemorato si sottrae essenzialmente al ricordo empirico. Ossia scopre l’oblio presente sullo sfondo di ogni ricordo determinato come quella potenza che rende in generale possibile una rammemorazione, un’evocazione, un conferimento di senso ai trascorsi presenti. Sotto questo profilo, «l’oblio non è più un’impotenza contingente che ci separa da un ricordo a sua volta contingente, ma esiste nel ricordo essenziale come l’ennesima potenza della memoria rispetto al suo limite o a quanto può essere solo ricordato»3. Ecco allora che la memoria,

1 Ivi, p. 183. 2 Ibidem. 3 Ibidem.

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costituitasi nell’esercizio trascendente come posizione della domanda, forza il pensiero affinché esplichi, sviluppi, formuli il problema da essa suscitato1.

È in conseguenza di ciò che, a sua volta, il pensiero viene elevato all’esercizio trascendente che specificamente gli compete: non potendo riconoscere l’oggetto che gli porge la memoria, e perciò accusando tale porgere come una violenza che lo respinge in se stesso, il pensiero è indotto ad afferrare ciò che può essere soltanto pensato, il cogitandum. Ma tale oggetto, esattamente nella misura in cui non è accessibile alle altre facoltà sulla base di un senso comune, appare anche come l’impensabile dal punto di vista empirico: «non l’intelligibile, poiché quest’ultimo è ancora soltanto il modo in cui si pensa ciò che può essere altrimenti che pensato, ma l’essere dell’intelligibile come ultima potenza del pensiero»2. In quanto non può più fare affidamento sulla struttura

rappresentativa garantita dal senso comune, il pensiero smette di collaborare con le altre facoltà in vista della costruzione dell’oggetto da conoscere, per rivolgersi unicamente a sé. Per Deleuze è questo il momento in cui il pensiero, raggiungendo il massimo della potenza che gli appartiene, è spinto a oltrepassare ogni forma di presupposizione e così a generarsi nel proprio stesso atto. Genesi immanente, dunque, e nondimeno fondamentalmente passiva, giacché qui la passività non segnala una subordinazione deterministica ad altro, bensì il completo affrancarsi del pensiero da influenze e da vincoli esterni.