3. Piano della tesi
3.1. Il Bergsonismo e la scoperta della differenza in sé
3.1.1. L’intuizione come superamento delle illusioni
Pubblicato per la prima volta nel 1966, tre anni dopo la monografia sulla dottrina kantiana delle facoltà e due anni prima di Differenza e ripetizione, all’interno dell’itinerario filosofico deleuziano Il bergsonismo appare non solo come il trait d’union tra le due opere summenzionate, ma, più profondamente, come il luogo in cui prende forma una triade di concetti – quelli di differenza in sé, di molteplicità pura e di virtuale – ai quali Deleuze, fino agli ultimi suoi scritti, continuerà a rivolgersi, ripensandoli e mettendoli a punto da angolature volta per volta diverse. In tal senso, se si pone mente ai tre grandi “numi tutelari” che accompagnano Deleuze lungo il suo cammino, cioè Spinoza, Nietzsche e Bergson, appare indubbio che discenda dall’interpretazione di quest’ultimo la caratterizzazione più nota della filosofia deleuziana, quella appunto che la intende come un pensiero della differenza, della molteplicità e del virtuale. Una caratterizzazione che tuttavia corre il rischio di subire una eccessiva semplificazione, allorché non la si collochi con esattezza nel contesto in cui essa vede la luce e non la si ponga in rapporto ai problemi rispetto ai quali essa tenta di costituire una risposta.
Il pensiero di Bergson è compreso da Deleuze innanzitutto nel senso di una critica e di un superamento della concezione kantiana delle condizioni di possibilità dell’esperienza. È il problema dell’esperienza reale, il problema di come l’esperienza sia generata realmente, dal suo interno, a guidare la lettura che Deleuze offre della filosofia bergsoniana. Questo aspetto lo si coglie molto bene considerando il tema scelto
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da Deleuze per aprire il suo studio: l’intuizione come metodo. L’intuizione, in effetti, non si limita in Bergson a essere soltanto il processo di conoscenza nel quale il soggetto si congiunge, si unifica, con la durata, ossia con la realtà intesa come totalità in se stessa fluida e diveniente, ma è anche, ed anzi è in primo luogo, il metodo con cui in tale processo sono smascherate le illusioni, i falsi problemi che bloccano la conoscenza al di qua dell’oggetto, privandola di quella precisione che invece in essa si dovrebbe concretizzare. Così commenta Deleuze: «L’intuizione ci spinge a superare lo stadio dell’esperienza verso delle condizioni dell’esperienza. Ma queste condizioni non sono né generali né astratte, e non sono nemmeno più ampie di ciò che condizionano. Sono le condizioni dell’esperienza reale»1. In ciò consiste l’appello di Bergson alla precisione
metodica del concetto: superare la datità empirica non significa affatto approdare a un piano che la trascenda, che ce ne separi; al contrario, significa risalire alla sua fonte, immergersi completamente in essa, al punto tale da portare il concetto a inglobarsi senza residui nell’oggetto cui si rivolge: «si tratterà di un concetto tagliato sulla cosa stessa, che non conviene che a essa, e che in questo senso non sarà più largo di ciò di cui dovrà rendere conto»2. L’intuizione è precisa proprio perché produce il concetto in immediata
corrispondenza con la cosa, immettendolo nella sua durata; così che, in quanto “preciso”, sarà il concetto stesso a durare, a farsi fluido e a mostrare la cosa nella semplice singolarità del suo darsi3.
Alla luce di ciò risulta chiaro perché Bergson definisca come un movimento retrogrado l’«illusione fondamentale»4 da cui discendono nella conoscenza tutte le forme di astrazione o di generalità. Il fatto che le condizioni dell’esperienza siano poste come valide per ogni esperienza possibile ha alla sua base, per Bergson, la separazione di tali condizioni dalla durata reale delle cose, una separazione imperniata sul presupposto secondo il quale ciò che viene ritenuto possibile antecede il reale come una mancanza, come un deficit a cui soltanto in seguito il reale perverrebbe ad aggiungere l’esistenza. Questo presupposto viene messo in particolare rilievo da Bergson in un articolo del 1930 intitolato Il possibile e il reale, dapprima comparso sulla rivista
1 B, p. 16. 2 Ivi, p. 18.
3 Cfr. ivi, p. 110: «Il primo carattere dell’intuizione sta nel fatto che in essa e attraverso di essa qualcosa si
presenta, si dà in prima persona, invece di essere dedotta e conclusa attraverso qualcos’altro».
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svedese «Nordisk Tidskrift» e poi ripubblicato nel 1938 come terzo capitolo de Il pensiero e il movimento. Scrive qui Bergson:
Al fondo delle dottrine che misconoscono la novità radicale di ogni momento dell’evoluzione, vi è più di un fraintendimento, più di un errore. Ma c’è soprattutto l’idea che il possibile è meno del reale, e che per questa ragione, la possibilità delle cose precede la loro esistenza. Queste sarebbero così rappresentabili in anticipo; potrebbero essere pensate prima di essere realizzate. Ma la verità è l’inverso1.
La verità è l’inverso, dice Bergson, giacché il possibile nient’altro indica se non la realtà che ad esso si vorrebbe far seguire con, in più, l’aggiunta della sua mancanza. È evidente infatti che, per potere attribuire la possibilità a un oggetto, innanzitutto occorre proiettare all’indietro l’immagine della sua esistenza: si potrà allora intenderlo come un oggetto non ancora esistente. Tuttavia, ciò che in questo modo viene cancellato e misconosciuto è la novità della sua produzione, l’imprevedibilità intrinsecamente connaturata a quella che è la più profonda condizione del suo realizzarsi, cioè la durata. Continua Bergson:
Via via che la realtà si crea, imprevedibile e nuova, la sua immagine si riflette dietro di sé nel passato indefinito. Si trova così a essere stata in ogni tempo possibile, ma è in questo momento preciso che comincia a esserlo sempre stata ed ecco perché dicevo che la sua possibilità non precede la sua realtà, ma l’avrà preceduta una volta apparsa la realtà. Il possibile è dunque il miraggio del presente nel passato2.
Come si vede, la struttura fondamentale dell’illusione viene qui ricondotta da Bergson a una confusione del più con il meno. È la stessa confusione che occorre rinvenire al fondo delle due altre grandi illusioni che attraversano le tradizionali dottrine dell’essere e della conoscenza: l’illusione del nulla e quella del disordine.
Soffermiamoci in particolare sulla prima. Essa si configura nella domanda che suona: «perché vi è l’essere, perché qualche cosa o qualcuno esiste»3? Tale domanda,
con tutta evidenza, sorge a partire dalla presupposizione che ciò che è potrebbe anche
1 PM, p. 91. 2 Ivi, p. 93. 3 Ivi, p. 88.
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non essere stato; dalla presupposizione, quindi, secondo la quale nell’idea di niente vi sarebbe meno che in quella di qualcosa. Ma, si chiede Bergson, come comprendere il significato del termine “niente”? «“Niente” – scrive – è un termine del linguaggio usuale che può avere senso solo se resta sul terreno, proprio all’uomo, dell’azione e della fabbricazione. “Niente” designa l’assenza di ciò che cerchiamo, di ciò che desideriamo, di ciò che aspettiamo»1. Sono le impellenze di ciò che è utile praticamente a farci illudere che qualcosa possa scomparire. In realtà, prosegue Bergson, «una cosa “scompare” solo perché un’altra l’ha sostituita. Diciamo che vi è soppressione quando delle due metà, o meglio, dei due aspetti della sostituzione, consideriamo solo quello che ci interessa»2. Risolvendo l’idea di soppressione in quella di sostituzione, Bergson
giunge dunque a mostrare come ciò che c’è e che si percepisce, ciò che veramente è dato, è sempre e soltanto la presenza di qualcosa. Da questo punto di vista, bisogna osservare come vi sia più realtà in un oggetto pensato in quanto assente, piuttosto che l’inverso:
c’è di più e non di meno nell’idea di un oggetto concepito come “non esistente” che nell’idea del medesimo oggetto concepito come “esistente”, poiché l’idea dell’oggetto “non esistente” è necessariamente l’idea dell’oggetto “esistente” con, in più, la rappresentazione di un’esclusione di questo oggetto dalla realtà attuale considerata nella sua totalità3.
1 Ivi, p. 89. 2 Ibidem.
3 EC, p. 234. Da ciò consegue inoltre l’assurdità dell’idea di nulla assoluto. Tale idea, dice Bergson, «è
un’idea che si autodistrugge, una pseudoidea, una pura e semplice parola. Se sopprimere una cosa significa sostituirla con un’altra, se pensare l’assenza di una cosa è possibile solo grazie alla rappresentazione più o meno esplicita della presenza di qualche altra cosa, se infine abolizione significa anzitutto sostituzione, l’idea di un’“abolizione di tutto” è assurda quanto quella di un cerchio quadrato» (ivi, p. 232). La difficoltà nell’evitare questa assurdità è motivata dal fatto che, volta per volta, noi possiamo concepire come abolito ogni oggetto particolare che ci si presenta nell’esperienza; così, nella misura in cui ci convinciamo che il sostituirsi di un oggetto con un altro non sia altrimenti comprensibile che nel senso di un’abolizione, concludiamo che nello stesso modo può essere abolita la totalità degli oggetti. Senonché in tutto ciò non ci si avvede, continua Bergson, «che sopprimere una cosa per volta significa precisamente sostituirla di volta in volta con un’altra, e che allora l’abolizione assoluta di tutto implica una vera e propria contraddizione in termini, poiché tale operazione consisterebbe nel distruggere la condizione stessa che le consente di effettuarsi» (ibidem).
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Per Bergson si tratta di rinvenire, alla base di tutti i casi di confusione tra il più e il meno, quella che potremmo chiamare una “personificazione” o una “antropologizzazione” del flusso impersonale della durata. È infatti a causa della debolezza dei nostri dispositivi intellettuali, predisposti al fine pratico di anticipare, controllare e trasformare il reale, che ordinariamente non siamo in grado di cogliere il flusso nella sua interiore continuità, finendo per vedere di esso soltanto un’ombra o un’immagine rovesciata. Ora, lo strumento fondamentale che consente all’uomo di operare sul reale, ma che nello stesso tempo gliene fa pure perdere la costitutiva e originaria fluidità, è la negazione. È innanzitutto perché possiamo negare, argomenta Bergson ne L’evoluzione creatrice, che conseguentemente possiamo manipolare le cose in consonanza con i fini di utilità che determinano il nostro agire: «la negazione non è altro che un atteggiamento assunto dalla mente nei confronti di un’affermazione eventuale»1. In altre parole, tutto ciò che può essere negato, per essere negato deve in prima istanza essere affermato. La negazione è dunque un’affermazione di secondo grado, un’affermazione cioè che interpone tra sé e l’oggetto un’ulteriore affermazione: «mentre l’affermazione riguarda direttamente la cosa, la negazione mira alla cosa solo indirettamente e attraverso un’affermazione interposta»2. Mediante questa
interposizione, l’esperienza immediata viene messa a distanza e resa disponibile all’agire dell’uomo. Come osserva Bento Prado in un libro per molti aspetti decisivo nell’ambito degli studi bergsoniani, «la genealogia della negazione culmina dunque nella sua determinazione come forma umana del comportamento»3. È soltanto entro la sfera dell’utilità pratica dell’uomo che la negazione può apparire come simmetrica all’affermazione, e così la durata come suddivisa in istanti tra loro contrapposti. In realtà, tale simmetria è un’illusione, anzi è il segno stesso della dimenticanza e dell’occultamento della vera natura della durata.
Quanto precede ci permette di mettere in luce il motivo per cui nella sua interpretazione Deleuze insiste a più riprese nel sottolineare l’importanza che assume per Bergson il superamento dei limiti dell’esperienza ordinaria. Quest’ultima non è che un miraggio, un raddoppiamento mistificante della realtà che ha nella struttura del
1 Ivi, p. 235. 2 Ibidem.
3 B. Prado, Présence et champ transcendantal. Conscience et négativité dans la philosophie de Bergson,
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comportamento dell’uomo il proprio elemento chiave. Compito della filosofia, scrive Deleuze con accenti nietzschiani, deve essere allora quello «di aprirci all’inumano e al sovraumano»1. È esattamente una tale apertura a essere garantita dall’intuizione.
Se nel dominio dell’illusione, sulla base del movimento retrogrado, siamo indotti a pensare che «l’essere, l’ordine o l’esistente vengano prima di se stessi, precedano l’atto creatore che li costituisce, e rigettino all’indietro una immagine di se stessi in una possibilità, un disordine, un non-essere supposti primordiali»2, al contrario nella dimensione intuitiva noi entriamo in immediato contatto con l’esperienza nel suo stesso farsi, siamo introdotti all’interno del movimento della sua infinita differenziazione. In questo senso il superamento della concezione antropologica dell’esperienza, come concezione essenzialmente illusoria, trova il proprio compimento nella determinazione delle condizioni della sua realtà: «si sorpassa l’esperienza verso le condizioni dell’esperienza (queste però non sono, come in Kant, le condizioni di ogni esperienza possibile, bensì le condizioni dell’esperienza reale)»3. Ora, determinare le condizioni
dell’esperienza reale significa d’altra parte, come abbiamo visto, assicurare al concetto la sua massima precisione: il concetto smette di essere separato dalla cosa che comprende, smette cioè di essere una totalizzazione generalizzante delle differenze, per farsi perfettamente aderente alle articolazioni del reale, alle tendenze molteplici che ne esprimono la durata. Se dunque occorre attribuire all’intuizione un carattere metodico, tale carattere non rimanda in alcun caso all’idea di una propedeutica o di una esteriorità rispetto al proprio oggetto; in questo senso, afferma Deleuze, è senz’altro vero «che, intesa come metodo, l’intuizione presuppone già la durata»4, tuttavia la durata
rimarrebbe completamente inintelligibile senza l’intuizione, la quale ha la funzione di metterla in luce dissipando l’ombra delle illusioni.