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Distinzione tra il dominio della Natura e il dominio della Libertà

3. Piano della tesi

1.4. La ragione legislatrice

1.4.1. Distinzione tra il dominio della Natura e il dominio della Libertà

All’inizio di questo capitolo abbiamo osservato come, secondo Deleuze, Kant attribuisca alla facoltà di desiderare una forma superiore solo nella misura in cui essa si mostra determinata da nient’altro che dalla forma pura di una legislazione universale: in tale forma pura si tratta di pensare la massima che guida la nostra volontà come un “assoluto logico” che, svincolato da qualsivoglia condizionamento sensibile e oggettuale, sia in grado di costituire il principio di una legge valida per ogni essere razionale4. Abbiamo osservato inoltre come la facoltà che legifera nella facoltà di

desiderare, e che dunque si fa carico della forma di una legislazione universale, non sia che la Ragione; l’intelletto, infatti, può pensare qualcosa di determinato soltanto entro i limiti che gli sono imposti dalla sensibilità. In tal senso, siccome legifera non secondo l’interesse speculativo, bensì secondo quello pratico, la Ragione si definisce “ragion pura pratica”, «e la facoltà del desiderio, che trova la sua determinazione in se stessa […] è chiamata propriamente volontà, “volontà autonoma”»5. È così che il concetto di

ragione pratica conduce Kant a scoprire, nello stesso tempo, la legge morale, come

1 Ibidem. 2 Cfr. ivi, p. 51.

3 Nota inoltre Deleuze che esattamente perché la conoscenza non costituisce l’interesse più alto, la

ragione può concedere all’intelletto il potere di legiferare nella facoltà di conoscere. In questo senso, la dottrina dell’illusione speculativa costituisce il vero e proprio punto di passaggio dalla legislazione dell’intelletto a quella della ragione.

4 K, p. 53. 5 Ivi, p. 54.

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forma pura capace di determinare in modo esclusivo una volontà autonoma, e la Libertà, come condizione sotto la quale una volontà può determinarsi autonomamente seguendo la legge morale.

Tutto il problema della Critica della ragion pratica non consiste in altro che nel fondare la possibilità che la legge morale determini la volontà mediante la Libertà, in modo tale che il concetto di libertà acquisisca «una realtà oggettiva, positiva e determinata»1. Il concetto di libertà rimarrebbe infatti semplicemente problematico, se la ragione «non avesse altro interesse che quello speculativo»2 studiato nella prima Critica: mentre il dominio della Natura cui si rivolge la legislazione dell’intelletto ci mostra solo un determinismo estrinseco, secondo il quale ciascun fenomeno è determinato dall’effetto di un altro in una catena causale infinita, la Libertà al contrario, per potersi realizzare nella volontà, deve implicare «una capacità di dare inizio spontaneamente a uno stato»3, un principio di causalità che, essendo incondizionato, non può dipendere dalla stessa legge su cui si regge il mondo fenomenico. Quando infatti la legge morale determina la volontà, quest’ultima «viene ad essere del tutto indipendente dalle condizioni naturali della sensibilità che ricollegano ogni causa a una causa anteriore»4; unicamente quindi perché siamo esseri razionali, membri di un

mondo soprasensibile o intelligibile, e come tali soggetti alla legge morale, possiamo determinare in modo oggettivo il concetto di libertà5. In questo senso, il concetto di libertà non risiede direttamente nella legge morale, in quanto è un’Idea della ragione speculativa, tuttavia è solo attraverso la legge morale, ossia nell’interesse pratico, che noi ci affermiamo liberi.

Di qui la necessità di distinguere nettamente due domini e due legislazioni: 1) il dominio dei fenomeni, i quali sono sottomessi alla legislazione dell’intelletto come oggetti di una natura sensibile (“legislazione mediante concetti naturali” secondo l’interesse speculativo); 2) il dominio delle cose in sé, sottomesse alla legislazione della

1 Ivi, p. 55. 2 Ivi, p. 57.

3 CRP, p. 347; traduzione modificata. 4 K, p. 57.

5 La legge morale, come legge della ragione pratica, è anzi la stessa condizione di possibilità di una natura

soprasensibile: «La natura soprasensibile, in quanto ci possiamo fare un concetto di essa, è nient’altro che una natura sotto l’autonomia della ragion pratica. Ma la legge di questa autonomia è la legge morale la quale è dunque la legge fondamentale di una natura soprasensibile e di un mondo puro dell’intelletto» (CRPr, p. 93).

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ragione, in quanto formano una natura soprasensibile (“legislazione mediante il concetto di libertà” secondo l’interesse pratico). Ora, in che senso si può dire che vi sia una sottomissione degli esseri esistenti in sé alla ragion pratica? Scrive Deleuze:

l’intelletto, quando si esercita sui fenomeni nell’interesse speculativo, legifera su qualcosa di diverso da sé. Ma quando la ragione legifera nell’interesse pratico, legifera su esseri ragionevoli e liberi, sulla loro esistenza intelligibile indipendente da ogni condizione sensibile. È quindi l’essere ragionevole che, da se stesso, si dà una legge per la sua ragione. Contrariamente a quanto accade per i fenomeni, il noumeno presenta al pensiero l’identità del legislatore e del soggetto1

.

Siccome un essere razionale e libero, determinato dalla legge morale, non può trovare altrove che in sé il fine delle proprie azioni, è inevitabile che nel dominio noumenico il legislatore coincida con la natura medesima su cui legifera. È lo stesso legislatore che sceglie la propria sottomissione, che attraverso la Libertà si sottomette alla legge morale che egli dà a se stesso: «noi apparteniamo a una natura soprasensibile, ma a titolo di membri legislatori»2.

La sottolineatura di tale coincidenza permette a Deleuze di ritornare sulla questione della gerarchia interna al sistema teleologico della ragione, e di spiegare perché Kant possa giungere a riconoscere nella supremazia dell’interesse pratico la condizione di esistenza di un interesse e di una finalità in quanto tali. In primo luogo bisogna osservare che ogni interesse implica di per sé il concetto di fine: interessarsi a qualcosa significa porsi dei fini, agire intenzionalmente in vista di uno scopo da realizzare. Così sul piano speculativo l’intelletto trova nella natura sensibile dei fini che indirizzano la sua attività di contemplazione; ma questi fini naturali non rappresentano mai uno scopo finale [Endzweck]3, cioè un principio incondizionato che, avendo in se

stesso il fine della propria esistenza, contenga ad un tempo la condizione necessaria e sufficiente di tutti gli altri fini. Infatti, come si legge nell’appendice conclusiva alla Critica del Giudizio, dedicata alla Metodologia del giudizio teleologico, nella Natura non vi è alcunché «di cui il principio determinante, che si trova nella natura stessa, non

1 K, p. 59. 2 Ivi, p. 57.

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sia a sua volta condizionato»1: dal momento che ha sempre il proprio fine fuori di sé,

ogni essere naturale esiste conformemente ad un fine «non come scopo finale, ma come mezzo necessario»2 ad altri esseri naturali, in una serie infinita di determinazioni reciproche. Per questo, afferma Deleuze, il concetto di scopo finale implica due aspetti fondamentali: «esso si applica a degli esseri che debbono essere considerati come dei fini in sé e che, d’altra parte, debbono dare alla natura sensibile un fine ultimo da realizzare»3.

Alla luce di ciò, è chiaro che soltanto l’uomo libero, capace di legiferare sul proprio agire in modo autonomo, e così di sollevarsi a un’esistenza soprasensibile, può costituire uno scopo finale. Considerato praticamente come agente morale, egli è infatti l’unico essere del quale, scrive Kant, «non si può domandare ancora per qual fine (quem in finem) esiste. La sua esistenza ha in se stessa lo scopo supremo»4, giacché senza di essa la catena dei fini sensibili non potrebbe avere alcun principio. Dunque, è esattamente perché l’uomo può volere la legge morale, affermandosi come un fine in sé, che egli può essere anche riconosciuto come il fine ultimo [der Letze Zweck]5 della

Natura: se intendiamo la Natura nei termini di un sistema teleologico, l’uomo è sì fine ultimo di quest’ultima, ma sempre e solo «a condizione che sappia e voglia dare alla natura e a se stesso una finalità per sé sufficiente e indipendente dalla natura, e che quindi possa essere uno scopo finale, il quale però non deve essere cercato nella natura»6. L’uomo, in altre parole, dal momento che si affranca da ogni legame con la sensibilità, e pone una legislazione incondizionata, contemporaneamente realizza nella Natura il fine ultimo in riferimento al quale «tutte le cose naturali costituiscono un sistema di fini»7; così che non vi sarebbe affatto una teleologia naturale, senza l’ordine soprasensibile della Libertà fondato sul valore assoluto di una volontà buona.

1 CG, cit., § 84, p. 312. 2 Ivi, § 82, p. 302. 3 K, p. 78.

4 CG, cit., § 84, p. 313.

5 Cfr. F.Menegoni, La «Critica del Giudizio» di Kant. Introduzione alla lettura, Roma 1995, pp. 146-

147: «Scopo ultimo è quel concetto che funge da punto di riferimento, convergenza e unificazione di tutti gli elementi di una serie, ciascuno dei quali possiede un valore relativo. Ogni ordine sistematico, considerato dal punto di vista teleologico, culmina nella rappresentazione di un fine, il quale è “ultimo” in relazione al sistema di fini a cui appartiene».

6 CG, cit., § 83, p. 307; traduzione lievemente modificata. 7 Ivi, p. 306.

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Si comprende allora il motivo per cui, affinché si possa in generale attribuire un interesse speculativo all’intelletto, è necessario anteporre alle operazioni di quest’ultimo l’interesse della ragione pratica come interesse superiore che, rivolgendosi a uno scopo finale, sia capace di attribuire un valore (seppure relativo) alla stessa contemplazione della Natura1. La contemplazione non ha un valore se non in quanto l’intelletto essenzialmente vuole contemplare, vuole interessarsi alla natura, vuole trovarvi dei fini. In conclusione, è in questo modo che Kant può arrivare a scrivere che «ogni interesse, infine, è pratico, e anche quello della ragione speculativa è soltanto condizionato e completo unicamente nell’uso pratico»2.