Parte III – Estetica pragmatista e arte popolare
1. Estetica pragmatista: Dewey e Shusterman
Con la discussione delineata finora sulla fine dell’arte hegeliana e l’interpretazione di questa da parte di Danto, abbiamo visto l’arte come presentazione sensibile di un contenuto, che viene a realizzarsi liberamente in un contesto pluralista. Quel che ancora manca è un’esposizione che renda conto di quello che è il rapporto tra l’arte e la società: non basta ridare dignità all’oggetto d’arte, è necessaria anche una sua collocazione da un punto di vista più ampio, che comprenda anche (e soprattutto) la sua ricezione. Il ruolo dell’arte nella società e più in generale nell’esperienza umana, finora discusso solamente in maniera preliminare, trova sviluppo, ad esempio, nell’estetica dell’esperienza di Dewey e un’affermazione di carattere contemporaneo nell’estetica pragmatista di Shusterman. Il punto di vista pragmatista è fondamentale proprio perché ha come base il superamento dell’opposizione di teoria e prassi, laddove la teoria viene a configurarsi appunto come una forma di prassi. In particolare, nel caso dell’estetica, è proprio la pratica artistica a porre dei limiti in termini teorici e a mostrare le sue diverse forme, assieme agli strumenti concettuali in grado di esplicarle, in quello che è un pluralismo che non vuole sfociare in un relativismo assoluto, ma dare valore alla libertà creativa.
La filosofia dell’arte di Dewey non parte direttamente dalla considerazione dell’arte in quanto tale, poiché la comprensione di quest’ultima ci viene preclusa da un ostacolo, ovvero il suo ormai convenzionale distacco dall’esperienza in generale. Per questo egli parte proprio dall’analisi di quest’ultima, attraverso una concezione olistica e anti- atomistica che non la tiene separata dalla natura, ma al contrario in connessione con essa nell’interazione dell’organismo con l’ambiente. Ristabilita la continuità tra esperienza in generale e esperienza artistica, l’arte viene a rivestire importanza nel
112 F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, tr. it. a cura di G. Colli, Adelphi, Milano,
mondo non come idealità astratta, ma proprio in quanto esperienza. Questo non per una circolarità tautologica, ma attraverso quello che Dewey chiama consummation, cioè perfezionamento dell’esperienza, che ha a che fare col processo stesso, non con un risultato finale e definitivo. L’estetica dell’esperienza di Dewey fa emergere il valore strumentale e globale dell’arte, mettendo in discussione quelle teorie estetiche che definiscono l’arte secondo un valore intrinseco fine a se stesso.
L’indagine sull’arte come esperienza continua col pragmatismo di Shusterman, il cui scopo, secondo il paradigma migliorista, non è la conoscenza, tanto meno la definizione di un’essenza dell’arte, ma il miglioramento dell’esperienza. Motivo per cui egli si dedica in particolare alle manifestazioni artistiche contemporanee, ribadendo in maniera ancora più decisa l’illegittimità della separazione tra un tipo di arte elevata e una inferiore, cioè di arte bella e arte popolare. La teoria di Danto rimane per Shusterman soggiogata da una tradizione filosofica che trova i suoi risultati solo nell’ideale di una verità teoretica più profonda, distaccata dal mondo della prassi. Nonostante il tentativo di Danto di cercare un paradigma che renda conto di tutta l’arte, anche in relazione al suo svolgersi storico e plurale, per Shusterman essa in questa concezione analitica rimane ancora troppo sottomessa al dominio della filosofia, che soffoca il suo potere pratico e il suo possibile godimento sensoriale113. La stessa opera di destituzione dell’arte che Danto intravede nella filosofia, si protrae, secondo Shusterman, nella sua filosofia dell’arte, non senza una certa pericolosità: «Definire l’arte meramente nei termini di quella che è la sua storia consolidata (its established
history) è pericoloso poiché promuove la tendenza costrittiva ed esclusoria di tale
storia»114. Un’estetica di stampo pragmatista serve non solo ad evitare tale minaccia fornendo una più ampia visione di cosa è l’arte, ma soprattutto a rigettare la rigida divisione tra la vita quotidiana e l’esperienza estetica, che riflette quella tra il lavoro pratico (il practical labor, la manodopera) e la creazione artistica come qualcosa di non utile, ma di esclusivamente piacevole, che si manifesta, secondo Shusterman, in prodotti industriali antiestetici e arti figurative completamente irrilevanti 115 .
L’obiettivo è quindi quello di ridefinire l’arte a partire da una revisione di quella che è la sua storia, andando a scardinare questa distinzione netta tra arti belle e praxis comune, riflesso della più ampia dicotomia tra teoria e prassi. Coerentemente con ciò,
113 R. Shusterman, Art in a Box, in Surface and Depth: Dialectic of Criticism and Culture, Cornell
University Press, New York, 2002, pp. 176-77. Le presenti citazioni sono di mia traduzione.
114 Ivi, p. 182. 115 Ibidem.
Shusterman interpreta l’opera Brillo Box come la dimostrazione materiale del fatto che la distinzione tra arte e vita reale (quotidiana) è ormai decaduta.
Si può notare come questa impostazione sia in contrasto con l’estetica di Benedetto Croce e richiami invece quella di Antonio Gramsci (citato e lodato da Shusterman), che non a caso definì la sua una filosofia della praxis, che unisce aspetto teorico e pratico nell’obiettivo (principalmente politico) di rinnovamento culturale e unione degli strati sociali, in cui l’arte viene ad avere un importante valore educativo. Come vedremo, l’aspetto sociale e politico non manca in Shusterman, che afferma che
compartimentalizzando arte ed estetica come qualcosa di essenzialmente diverso dalla realtà, di cui godere solamente quando ci prendiamo una pausa da essa, le istituzioni e pratiche più esecrabili ed oppressive della nostra società vengono legittimate e radicate ancora più profondamente come inevitabilmente vere116.