Parte III – Estetica pragmatista e arte popolare
9. La cultura di strada: il movimento hip hop
Ciò che è stato affermato finora non sarebbe del tutto convincente senza un confronto con esempi concreti. Shusterman prosegue la difesa delle arti popolari portando l’esempio della musica rap, in particolare per alcune sue caratteristiche postmoderne, come l’appropriazione di creazioni precedenti, l’utilizzo di nuove tecnologie e in generale la provocazione verso il purismo estetico. Il rap è un genere musicale che fa parte di un movimento artistico più ampio, conosciuto come hip hop: si tratta più precisamente una cultura, con le sue radici, la sua storia e i suoi personaggi197. L’hip
hop come genere musicale nasce con l’appropriazione tramite campionatura (in inglese
sampling), ovvero il riutilizzo di tracce già registrate, modificate e ricombinate
attraverso l’utilizzo innovativo della tecnologia del giradischi a piatto multiplo. Oggetto di questa appropriazione erano, molto semplicemente, i dischi che i giovano potevano trovare nella libreria musicale dei loro genitori, dunque di musica soul, funk e r&b, aspetto non irrilevante, in quanto determinava un’importante connessione con la cultura afroamericana. Non solo, le radici africane incontrarono anche la cultura
196 J. Dewey, Art as Experience, op. cit., p. 84.
197 La cultura hip hop è composta principalmente da quattro elementi: DJing (da Disc Jokey, colui che
si occupa dei dischi), MCing (nome che deriva da Master of Ceremonies, colui che conduce l’evento musicale catturando l’attenzione attraverso prestazioni vocali – elemento da cui nasce il rap), il writing (l’arte dei graffiti) e la break dance (danza di strada nata ballando sul break, cioè la parte del brano musicale con l’assolo di percussioni).
latina: nel secondo dopoguerra infatti ci fu un’emigrazione di massa da Porto Rico alle zone newyorkesi di Harlem e del Bronx, che portò successivamente alla diffusione del mambo, ovvero l’unione di salsa latina e musica africana, portata avanti da artisti latini e afrocubani, i cui ritmi incalzanti divennero la base di diversi brani hip hop198. Shusterman paragona la campionatura e i meccanismi del DJing alle modalità di appropriazione dell’arte elevata avvenute ad esempio con Duchamp e la sua Gioconda coi baffi (L.H.O.O.Q., 1919), manifesto dell’anticonformismo estetico, o con Andy Warhol e le sue riproduzioni di immagini commerciali199. Con la campionatura vediamo da un lato una sfida estetica che si dispiega attraverso l’utilizzo creativo e originale di apparecchiature tecnologiche, andando cioè oltre il modo per cui tale strumentazione era stata creata. Tecniche come cutting, mixing e scratching permettono al DJ di andare oltre la definizione originaria di Disc Jokey – letteralmente
fantino dei dischi, che si limitava al cambio dei dischi – e di farne quindi un artista
legittimo, in grado di esprimersi attraverso quella che era solamente un’apparecchiatura di riproduzione musicale e di ascolto passivo. Contro l’idea di opera d’arte come oggetto unico, inviolabile, assoluto e fine in se stesso, queste produzioni mettono in mostra l’aspetto frammentario e processuale dell’opera d’arte, che Shusterman spiega richiamandosi a Dewey, «secondo cui l’arte nella sua essenza è un processo piuttosto che un prodotto finito»200. Altro aspetto importante è il messaggio di appartenenza culturale insito nelle origini di questo movimento artistico, indivisibile dalla sua portata politica201. Il legame con la cultura afroamericana non ha solo scopo dimostrativo di rappresentanza delle proprie origini, ma si colloca in un periodo storico in cui gli appartenenti a questa cultura venivano fortemente oppressi e discriminati, assumendo quindi un’importante connotazione sociale e politica. Questo aspetto diviene chiaro ricollegandosi al contesto in cui sorge la cultura hip hop: essa è
198 Fonte importante è il documentario From Mambo to Hip Hop, Citylore and Public Art Films, New
York, 2006.
199 R. Shusterman, Estetica pragmatista, op. cit., p. 156. 200 Ivi, p. 158.
201 J. Demers, Sampling the 1970s in Hip-Hop, in Popular Music, vol. 22, no. 1, 2003, pp. 41–56.
Accesso online archivio JSTOR, www.jstor.org/stable/853555. L’autrice analizza una delle fonti primarie dell’assortimento multimediale della campionatura: i film della blaxploitation (elisione delle parole black – nero – e exploitation, cioè sfruttamento). Si tratta di film a basso costo degli anni ’70, che avevano come pubblico di riferimento gli afroamericani, in cui l’eroe o l’eroina erano persone di colore che si battevano contro le ingiustizie della legge controllata dai bianchi. Le colonne sonore di questi film furono oggetto di campionatura, divenendo veri e propri inni della rivincita afroamericana nella lotta contro il razzismo e l’oppressione di classe, quindi attraverso una dichiarata politicizzazione. In particolare, il discorso The signifying monkey del film Dolemite (1975) è considerato un antenato del rap, per il ritmo con cui viene declamato e per quella che è la strategia linguistica di derivazione africana del signifying (una sorta di gioco di parole che sfrutta il divario tra il significato denotativo e figurativo delle parole).
infatti una cultura popolare strettamente legata a determinati accadimenti storici, la cui portata artistica non può assolutamente prescindere dal contesto politico e sociale in cui nasce. Inoltre, questo legame si palesa non solo come causa della nascita di quest’arte popolare, ma sarà l’arte stessa in questo caso ad avere a sua volta un’influenza significativa sul piano storicosociale.
La cultura hip hop nasce in un contesto di forte disagio sociale, ovvero quello del Bronx degli anni ’70, distretto di New York composto prevalentemente da famiglie latine e afroamericane, oltre che di origini caucasiche, italiane e irlandesi. Il declino, già in corso dagli anni ’60, raggiunse l’apice negli anni ‘70, in particolare con la gentrificazione dei centri urbani adiacenti, portando il South Bronx ad essere una delle aree più povere del paese, con livelli allarmanti di criminalità e disoccupazione, aggravati da una politica di abbandono totale, in particolare da parte delle forze dell’ordine. Questo fu terreno fertile per la nascita di gang di strada formate da giovani ragazzi, che principalmente si sostituirono alla giustizia locale, dichiarando anche guerra a tossicodipendenti e spacciatori della zona202. È questo il contesto storico, riassunto in pochissime righe, che vide sorgere una vera e propria rivoluzione culturale, che non partì da una nicchia ristretta di artisti o da un salotto letterario, ma dalla strada. I protagonisti di questa rivoluzione furono ragazzi cresciuti in quartieri disagiati, che rifiutarono di gettare il loro futuro nelle mani della delinquenza, dando vita ad una loro espressione artistica. Nacque così la street dance (danza di strada), cioè un insieme di stili, tra cui la breakdance, nati al di fuori delle scuole di ballo, che al tempo insegnavano prevalentemente danza classica, jazz e tip-tap. I giovani b-boy e b-girls (così si chiamavano i ballerini, dove b sta appunto per break) che si allenavano in privato nelle loro case o riunendosi per imparare l’uno dall’altro, iniziarono a sfidarsi in competizioni (battle) di danza che mantenevano l’aggressività di una sfida tra gang, che veniva però sfogata attraverso passi di danza e acrobazie. I ballerini rivali si sfidavano testa a testa, sostituendo l’aggressione fisica con il ballo, in una vera e propria gara di predominio artistico dove il progresso veniva delineato dall’impegno
202Cfr. J. Chang, Can’t Stop Won’t Stop, A History of the Hip-Hop Generation, Ebury Publishing, 2005.
Traduzione italiana in J. Chang, Cant’t stop won’t stop, l’incredibile storia sociale dell’hip hop, ShaKe, Milano, 2009. Le citazioni presenti sono di mia traduzione. In particolare si veda il capitolo I. La rivalità tra gang portò a sanguinolenti scontri, culminando nell’uccisione violenta di Cornell Benjamin (conosciuto come Black Benjie, membro della gang chiamata Ghetto Brothers), venticinquenne di origini afroamericane e latine, proprio durante un suo tentativo di pacificazione tra gang. L’evento portò così ad una successiva riunione di emergenza delle gang del South Bronx (evento conosciuto col nome di Hoe Avenue peace meeting), dove, in una situazione incredibilmente diplomatica per il clima esistente, si arrivò a stilare un trattato di pace, che decretò l’alleanza tra le gang contro quello che era il problema comune, cioè l’abbandono da parte delle forze politiche.
nel portare le proprie mosse ad un livello superiore, basandosi su un criterio di originalità e provocazione, inserendo passi ormai affermati e riconosciuti, variazioni personali degli stessi e inventandone di nuovi, sempre mantenendo uno stile individuale in cui ognuno creava la sua personale narrazione203. Certamente l’hip hop non sostituì ogni sparatoria con una competizione di ballo o di rap, ma «la musica fece perdere alle ideologie la loro armatura, riunendole assieme, trovando un punto di liberazione comune, una potente unità»204; unità che servì ad affrontare le situazioni di miseria, discriminazione e violenza che non cessarono negli anni a seguire, soprattutto per via dei crescenti abusi della polizia ai danni della popolazione afroamericana. Elemento importante di questa nuova cultura di strada è la conoscenza (knowledge), ad opera in particolare di Afrika Bambaataa, uno dei pionieri della musica hip hop e fondatore dell’organizzazione Zulu Nation, che ha l’obiettivo di dare una vera e propria educazione ai giovani che si avvicinavano a questa cultura, in modo tale da arginare il fenomeno della rivalità violenta205. L’hip hop, negli anni successivi
fino ad ora, è stato un campo non solo di lotta contro la discriminazione delle persone di colore, ma anche di confronto tra culture e di rivendicazione dei diritti, affrontando problematiche universali come ingiustizia e oppressione, che emergono dal ghetto, luogo di nascita che l’hip hop rivendica con orgoglio, ma che sconfinano fino a toccare qualsiasi individuo e comunità. La sua diffusione fa sì che i testi rap critichino oppure esaltino la commercializzazione musicale, che, se da un lato ha provocato la semplificazione o l’eliminazione di problematiche fondamentali a favore dello sfoggio delle apparenze, dall’altro ha fatto sì che suddette questioni sociali raggiungessero un pubblico sempre più esteso206. In ogni caso, per molti il ruolo di artista all’interno della cultura hip hop non è separabile dalla volontà di divulgare la conoscenza, sia delle proprie radici, che di temi sociali, in quella che è una stretta associazione tra creazione artistica, insegnamento e attivismo politico207.
203 Ivi, pp. 116 e 117.
204 Ivi, p. 93. «Music made ideologies shed their armature, move together, find a common point of
release, a powerful unity». Le citazioni presenti sono di mia traduzione.
205 Ivi, pp. 89 e seguenti. «Peace, Love, Unity and Having Fun» (Pace, Amore, Unione e Divertimento)
è il motto della Zulu Nation, che non si identifica con alcun schieramento politico, ma si basa sull’idea fondamentale che la rivoluzione possa partire non da uno scontro tra massa e istituzioni, ma dalla «propria trasformazione personale» (pp. 105 e 106).
206 L’ostentazione della ricchezza materiale è sicuramente il tema di molte canzoni rap che, per quanto
superficiale, va comunque considerata anche come un modo per simboleggiare l’emancipazione da una vita di povertà, sfruttamento, o anche delinquenza, divenuta possibile proprio grazie ad una carriera musicale.
207 Cfr. R. Shusterman, Estetica pragmatista, op. cit., pp. 164 e 165. L’autore espone il genere detto
Knowledge Rap, il cui intento è quello di portare un messaggio sociale attraverso la musica. Estetico e