Parte II – L’interpretazione di Arthur Danto
1. Il mondo dell’arte
Un interessante sviluppo della tesi hegeliana lo si trova in Arthur Coleman Danto (1924 – 2013), critico d’arte statunitense con laurea ad honorem in Filosofia (conferitagli dall’Università di Torino nel 2007). Nei suoi lavori, che vanno dal 1964 ai primi anni del 2000, troviamo il tema della morte dell’arte in un confronto diretto con l’arte contemporanea e in generale con la condizione dell’arte nel XX secolo, in cui sembra avverarsi quella frammentazione che già Hegel attribuiva all’arte romantica. Non a caso, per Danto la cosiddetta morte dell’arte ha un luogo e un tempo ben precisi, ovvero la realtà artistica di New York negli anni ’70. Questo contrariamente alla sua formazione analitica, scuola di pensiero che parte dall’assunto che la filosofia debba avere gli stessi criteri della scienza, prescindendo dall’applicazione a livello storico, che invece è per Danto fondamentale.
È la primavera del 1964 quando Danto rimane fortemente colpito da un’opera di un giovane artista esposta alla Stable Gallery di New York: la Brillo Box di Andy Warhol. Si tratta di una serie di riproduzioni di un normale oggetto di uso quotidiano, una scatola di spugnette per la cucina marca Brillo, tali e quali a quelle che si trovano nei supermercati, disposte una sopra l’altra proprio come ad emulare il disordine di un magazzino, con la differenza che l’oggetto d’arte di Warhol non contiene le spugnette al suo interno. Non è l’unica opera del genere creata da Warhol, infatti ad essa si affiancano: Del Monte Peach Halves, Campbell’s Tomato Juice, Kellogg’s
Kornflakes, Heinz Tomato Ketchup e Mott’s Apple Juice, come se la galleria d’arte
fosse il corridoio di un supermercato. Tutte opere accomunate dall’obiettivo di portare in una mostra d’arte oggetti di uso comune di marchi conosciuti, rivolti a trasmettere il senso di superficialità emanato dalla società americana dell’epoca.
In risposta a questa sorta di provocazione, Danto espone le sue impressioni in un articolo dal titolo The Artworld66 (Il mondo dell’arte), pubblicato in un volume del
66 A.C. Danto, The Artworld, in The Journal of Philosophy, vol. 61, no. 19, 1964, pp. 571–584. Archivio
Journal of Philosophy, che aprirà un lungo dibattito riguardante la definizione di arte.
Danto discute innanzitutto due teorie estetiche di classificazione delle opere d’arte: la prima è la teoria dell’imitazione (Imitation Theory), ovvero la concezione platonica dell’arte come copia della copia. L’arte è considerata da Platone come imitazione della realtà, laddove quest’ultima è a sua volta già una copia del mondo intelligibile (il cosiddetto mondo delle idee); concezione che era affiancata da una considerazione negativa degli artisti. La crisi di questo modello si ha con l’avvento di correnti artistiche come il post-impressionismo e in misura ancora maggiore con l’arte astratta, in generale quindi con quelle correnti artistiche le cui opere non intendono mostrare la realtà per come essa si presenta direttamente ai nostri occhi. Le opere prodotte in questo modo, dal punto di vista della teoria dell’imitazione, sarebbero considerate non
arte, o anche semplicemente opere che hanno fallito nel loro intento imitativo. Danto
passa allora ad un’altra teoria: la reality theory, letteralmente la teoria della realtà, che è una rivoluzione in termini non tanto estetici quanto teoretici e va a sostituire quella precedente, come accade per i paradigmi scientifici nella storia della scienza. Secondo questa teoria, le opere vengono intese non come imitazioni della realtà, ma come frutto della creazione di oggetti che entrano a far parte della realtà. La differenza viene spiegata da Danto con una metafora: è come parlare di una banconota falsa con applicata una scritta che afferma esplicitamente che quella banconota non ha valore legale di valuta, dunque l’oggetto non è come la banconota reale, ma non è nemmeno un oggetto con un intento illusorio. Dunque, è con questa teoria che vengono affrontate opere come Bed di Robert Rauschenberg del 1955 (si tratta di un quadro composto da lenzuola e cuscino fissati con dei chiodi e dipinti come fossero una tela). Danto immagina allora che un individuo, a cui dà il nome non casuale di Testadura, scambi l’oggetto d’arte per un oggetto reale, nel caso di Rauschenberg quindi un letto in cui dormire. Come spiegare l’errore di Testadura? Egli ha scambiato l’arte per realtà, ma si tratta di un’arte che voleva essere realtà: è possibile scambiare la realtà con la realtà? O meglio, la giusta domanda è: cosa fa sì che l’opera di Rauschenberg non venga scambiata per un letto in cui coricarsi? «Questo equivale a domandarsi cosa rende ciò arte»67. Danto fa subito notare come la questione sia di tipo filosofico, associandola al
problema mente-corpo, per cui una persona, essendo un corpo cosciente (conscious-
body), non è riducibile all’insieme delle sue parti; la stessa cosa deve valere per le
opere d’arte che sono composte da oggetti appartenenti alla realtà. Per vedere qualcosa
come un’opera d’arte e non farla ricadere nella condizione di semplice oggetto come fa Testadura, serve una teoria estetica, accompagnata da determinate condizioni storiche, che facciano sì che il mondo, sia quello reale che quello dell’arte, sia pronto ad accogliere tale novità.
Vedere una cosa come arte richiede qualcosa che l’occhio non riesce a cogliere – una atmosfera di teoria artistica, una conoscenza della storia dell’arte: un mondo
dell’arte68
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Tornando all’opera Brillo Box: se essa esiste in quanto oggetto di interesse artistico (al di là del fatto che possa essere considerata una grande opera, o un’opera di cattivo gusto), ciò è dovuto ad una evoluzione del concetto di arte, in cui si è arrivati all’esclusione di caratteristiche che prima erano essenziali per definire un’opera come tale. Di conseguenza, l’opera di Warhol è così distinguibile dalle scatole di spugnette
Brillo del supermercato.