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Shusterman e l’estetica pragmatista

Parte III – Estetica pragmatista e arte popolare

6. Shusterman e l’estetica pragmatista

Nel libro Estetica pragmatista169 Shusterman delinea la sua teoria estetica in forte opposizione al rigore scientifico della filosofia analitica170 e verso quelle estetiche di

tradizione kantiana che fanno del disinteresse e della separatezza dall’utilità un tratto distintivo dell’arte, portando avanti la dicotomia tra fini e mezzi secondo cui il carattere di strumentalità attribuito ad un oggetto lo rende di livello inferiore. Riprende Dewey sin dalle prime pagine, soprattutto per quanto riguarda il valore dell’arte come potenziamento dell’esperienza umana, che parte dal ripristino della continuità tra esperienza e natura. Vi è quindi anche qui un’indagine dell’arte come esperienza e non una sua definizione essenzialista: l’arte infatti varia con l’esperienza e perciò non vi può essere una definizione stabile171. A Shusterman non interessa fare un’indagine

ontologica dell’oggetto d’arte, poiché non renderebbe merito del carattere processuale dell’esperienza estetica. Il suo è un paradigma migliorista, il cui scopo ultimo non è la conoscenza pura, ma un’esperienza appunto migliorata. Motivo per cui la filosofia dell’arte si deve riferire alle pratiche artistiche contemporanee e non soffermarsi soltanto su quelle che vengono considerate forme d’arte elevate, che peraltro sono parte della nostra vita solo in maniera limitata. Anche questa prospettiva è ripresa a partire da Dewey e dalla sua opposizione ad una concezione museale dell’arte, legata sempre al proposito di miglioramento dell’esperienza, che non può prescindere da una trasformazione socio-culturale. Quest’ultima deve ridare qualità estetica all’esperienza ordinaria e ciò non può realizzarsi finché una larga parte di persone verrà dissuasa dal cercare soddisfazione in forme d’arte ritenute elevate e rilegate ad ambienti elitari. Inoltre, la questione va allo stesso tempo a colpire quelle che sono le arti popolari, a cui viene interdetta una vera e propria legittimità a livello artistico, poiché considerate di livello più basso.

169 I riferimenti saranno relativi all’edizione italiana Shusterman, Estetica pragmatista, a cura di G.

Matteucci, Aesthetica edizioni, Palermo, 2010. Per l’edizione in lingua originale si veda R. Shusterman,

Pragmatist Aesthetic. Living Beauty, Rethinking Art, second edition, Rowman & Littlefield Publishers,

Inc., Boston, 2000.

170 Per Shusterman il problema principale nell’assunto secondo cui la filosofia deve mirare alla

precisione scientifica, è l’indifferenza verso il contesto storico sociale per raggiungere una verità assoluta e astorica. Questo presupposto distacco dalla storicità viene comunque messo in discussione anche all’interno della filosofia analitica stessa, come precedentemente visto in Danto. Ciò che Shusterman rifiuta è soprattutto il paradigma scientista, che si limita a descrivere dei fatti, senza prendere posizione alcuna, in un atteggiamento che si potrebbe definire quietista, se non reazionario. Questo non significa però sminuire il valore della scienza, riconosciuto anche da Dewey, che ne sottolinea la somiglianza con l’arte in quanto orientata al miglioramento dell’esperienza.

171 In questo Dewey è più vicino alla già citata teoria di Morris Weitz, che mette in discussione le teorie

che classificano le arti, ritenendo l’arte un concetto aperto, verso cui bisogna evitare qualsiasi chiusura definitoria. (R. Shusterman, Estetica pragmatista, op. cit., pp. 46 e 47).

Shusterman ammette anche che la teoria di Dewey di arte come esperienza possa risultare troppo generale e imprecisa da un punto di vista filosofico. Nonostante ciò, la definizione di Dewey è comunque più accurata di quelle che Shusterman chiama col nome di teorie involucro (wrapper theory), ovvero quelle teorie dell’arte che classificano l’arte senza apportare alcun cambiamento alla comprensione e all’esperienza di essa. L’obiettivo polemico principale è sempre la filosofia analitica, con le sue definizioni essenzialiste, che seppur argomentate attraverso l’inclusione di casi particolari, non riescono a comprendere il valore dell’arte e tanto meno il suo imprevedibile sviluppo futuro. Tra queste teorie vi è anche quella di Danto, basata sul riferimento alla storia dell’arte e al mondo dell’arte, quindi sicuramente più profonda di altre teorie involucro, ma comunque guidata dal medesimo modello. Modello che Shusterman rifiuta e non si esime dal paragonare ironicamente ad un inscatolamento, citando in modo esplicito le Brillo box a cui Danto è tanto affezionato172. In Surface

and Depth: Dialectic of Criticism and Culture, Shusterman dedica un capitolo (Art in a Box) alla discussione della teoria di Danto. Il rifiuto di quest’ultimo dell’aspetto

estetico e l’insistenza invece sulla dimensione interpretativa dell’arte non sono giustificabili da una difesa del valore cognitivo dell’arte nei confronti del semplice godimento estetico, poiché tra le due cose non vi è una reale opposizione, anzi il godimento deriva proprio dalla cognizione dell’oggetto estetico173. Shusterman inoltre

attribuisce il rifiuto dell’estetica da parte di Danto come un pericolo che l’arte deve evitare, all’idea mutuata da Hegel secondo cui l’arte è l’espressione di verità profonde (of deep truths)174. Come abbiamo visto nella prima parte, Hegel riconosce all’arte la sua parte materiale, in quanto essa non potrebbe essere né solamente forma, né solamente contenuto, ma l’unione dei due. Il collegamento di arte e verità in Hegel non ha a che fare necessariamente con un tipo di verità più profonda nel senso di esoterica, o tanto meno elitaria, ma è qualcosa che si esterna nelle manifestazioni concrete dell’arte nel suo svolgersi storico e che, per Hegel, trova un perfetto equilibrio solamente in un preciso periodo, cioè quello dell’antica Grecia. Quest’ultima viene citata anche in Dewey, come esempio di società in cui l’esperienza estetica è integrata

172 R. Shusterman, Estetica pragmatista, op. cit., p. 70.

173 R. Shusterman, Art in a Box, in Surface and Depth: Dialectic of Criticism and Culture, op. cit., p.

187. È necessario ribadire che, come abbiamo avuto modo di vedere, Danto non isola l’interpretazione dell’opera d’arte dal suo godimento estetico: le due cose infatti si intersecano a vicenda. Inoltre, l’interpretazione dell’opera per Danto non si sofferma su un presunto carattere esclusivamente cognitivo dell’opera, ma sul suo incarnare un significato, dunque assolutamente senza poter prescindere dalla sua esistenza materiale.

coi valori della comunità (cosa che si evince dal concetto di kalokagathia175). Questa visione processuale dell’arte nel suo manifestarsi concretamente nel mondo, che non si limita solamente all’estetica, viene infatti riconosciuta da Shusterman nella teoria di Dewey, che definisce come un «modo hegeliano-pragmatista di considerare la filosofia»176 che va oltre verità concettuali e a-temporali. Certamente Hegel non ha una visione ampia come quella di Dewey, infatti allontana l’espressione artistica da quelli che sono i sentimenti più rozzi dell’umano – quelli che secondo la sua visione hanno a che fare col desiderio diretto al soddisfacimento immediato – anche se non in maniera sistematica e normativa, ma secondo una funzione artistica di distacco dall’immediatezza e quindi non di censura degli impulsi, ma di riflessione su di essi. Inoltre, per fare un’ulteriore puntualizzazione, la relazione tra arte e verità in Hegel si concretizza storicamente attraverso quelle che sono forme d’arte non necessariamente relegate ad un ambito elitario (Shusterman stesso cita il caso della tragedia greca177).

Comunque sia, Shusterman critica a Danto soprattutto l’idea che l’arte sia in grado di trovare la propria libertà solamente col distacco dall’apparenza sensibile per consacrarsi ad una verità più profonda178, intendendo con ciò la fine dell’arte nella necessità di una filosofia dell’arte che la interpreti, derivante dalla classificazione hegeliana delle arti secondo la loro «libertà dalla materia»179, che infatti giungerà alla filosofia come forma d’espressione adeguata dello spirito.

Shusterman non intende cercare il valore dell’arte né all’interno della pratica artistica stessa, cadendo in una definizione circolare che non le rende giustizia nel suo insieme, né all’infuori di essa, cioè giustificandola attraverso la sua strumentalità rispetto ad un fine ulteriore. Da un lato non bisogna considerare l’arte come una pratica specifica a sé stante, ignorandone la relazione con determinate condizioni storiche e politiche anche sfavorevoli; dall’altro però Shusterman osserva che vi è «qualcosa di autonomo nel valore dell’arte, qualcosa che riguarda i suoi stessi beni per cui li si ricerca come fini in loro stessi piuttosto che mezzi per altri beni in altre pratiche»180, ovvero

175 J. Dewey, Art as Experience, op. cit., p. 40. La kalokagathia è l’identificazione di un comportamento

moralmente buono con la sua bellezza dal punto di vista estetico. In generale, indica l’ideale di perfezione sia fisica che morale insieme.

176 R. Shusterman, Estetica pragmatista, op. cit., p. 54.

177 R. Shusterman, Estetica pragmatista, Aesthetica edizioni, Palermo, 2010, p. 121. Si potrebbe

comunque discutere se la tragedia possa essere considerata davvero un’arte popolare. In Dewey, ad esempio, troviamo un riferimento alla posizione di Aristotele nella Poetica, secondo cui la tragedia era un genere elevato, che metteva infatti in scena le sventure di persone di alto rango, mentre quelle della gente comune venivano narrate nella commedia (Dewey, Art as experience, op. cit., p. 195).

178 R. Shusterman, Art in a Box, in Surface and Depth: Dialectic of Criticism and Culture, op. cit., p.

188.

179 R. Shusterman, Estetica pragmatista, op. cit., p. 78. 180 Ivi, p. 76.

l’esperienza estetica. Quest’ultima comprendente anche il soggetto che fruisce delle opere, che altrimenti rimarrebbero prive di significato. Questo significa valutare l’arte uscendo dai confini comunemente stabiliti per quella che è la sua pratica, con l’intenzione di delineare un’esperienza estetica maggiormente accessibile, non solo inerente alla sfera della pratica artistica, ma individuabile anche nel godimento della natura, nel rituale, nello sport e in generale nella cultura popolare181. Avvicinandosi quindi alla concezione di Dewey di arte come esperienza, superando la divisione tra teoria e prassi e anche quella tra artista come creatore attivo e pubblico come ricettore passivo, con lo scopo non di riclassificare l’arte, ma di promuovere l’esperienza estetica producendo un effetto migliorativo sull’esperienza stessa. Lo scopo del pragmatismo non è rispecchiare la realtà, ma essere in grado di appropriarsene, cioè di costruire una teoria capace di modificare la realtà nel momento in cui la comprende.