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La fine dell’arte

Parte II – L’interpretazione di Arthur Danto

3. La fine dell’arte

Danto prosegue l’interpretazione dell’estetica hegeliana in un saggio dal titolo La fine

dell’arte, dove la suddetta tesi di Hegel viene come traslata fino ad arrivare all’arte del

XX secolo. La filosofia della storia dell’arte di Danto individua innanzitutto due modelli, similmente a come avviene in The Artworld, ma in questo caso con un confronto più diretto con le opere d’arte e il loro procedere storico.

Danto avverte prima di tutto che il tentativo di previsione del futuro è sempre influenzato dalla condizione del presente in cui tale valutazione avviene:

Niente appartiene così tanto al proprio tempo quanto i barlumi di un’epoca verso il futuro. [...] Il futuro è come uno specchio in cui possiamo vedere solamente noi stessi, anche se ci sembra una finestra attraverso la quale scorgere le cose che devono ancora accadere79.

L’esempio è quello delle rappresentazioni del futuro di pensatori della seconda metà dell’Ottocento: macchine volanti, metropolitane subacquee e strani marchingegni, tutto quanto con una forte connotazione ottocentesca a livello di usi e costumi. Nonostante questo, è possibile porsi il problema dell’arte dal punto di vista storico e parlare di un possibile futuro dell’arte, senza per forza immaginare in che modo saranno fatte le opere del futuro. In Hegel vi è una concezione della storia legata a un progresso nella consapevolezza della verità, all’interno del quale questo ruolo è ricoperto dall’arte per un periodo di tempo storicamente limitato, destinato a finire. Dopo che questa funzione è passata per il mezzo artistico, arte e storia si separano, seguono percorsi differenti, nel senso che l’arte perde il suo ruolo nella storia (pur continuando ad essere prodotta). Danto si domanda che futuro spetta all’arte in questa condizione post – storica, partendo da un’analisi filosofica della storia dell’arte. Il primo modello attraverso cui viene strutturata e capita la storia dell’arte è quello del

progresso rappresentativo, cioè che vede nello svolgersi storico un progresso

tecnologico nella produzione delle opere d’arte (analogo alla teoria dell’imitazione presente in The Artworld). È il modello di Vasari (Le vite de' più eccellenti pittori,

scultori e architettori, XVI secolo), che esamina l’arte dal punto di vista della sua

capacità nell’imitazione della realtà, quindi descrivendo la sua graduale conquista

delle apparenze naturali. Certo, il riferimento è quasi, se non del tutto, esclusivamente rivolto alle arti visive: il progresso sta nel continuo rinnovamento delle tecniche per arrivare ad essere in grado di rappresentare al meglio la realtà, come ad esempio con la prospettiva o col chiaroscuro. Il metro di misura è quindi l’accorciarsi o meno della distanza tra la realtà e la rappresentazione; in questo senso, l’arte è progressiva allo stesso modo in cui la scienza pretende di esserlo, considerando la distanza tra realtà e rappresentazione come qualcosa che si può gradualmente colmare. Fin qui, si ha a che fare con lo sviluppo della tecnica, cioè del medium, non con la sua trasformazione. Una tappa fondamentale all’interno di questo percorso rappresentativo è l’invenzione del cinematografo alla fine del XIX secolo: il cinema cattura il movimento, che diventa quindi visibile realmente, a differenza dei quadri che davano l’idea di movimento, che anche nel migliore dei casi non potevano che alludervi; la distanza tra rappresentazione e realtà è così infinitamente ristretta. I primi film dei fratelli Lumière non attirarono certo l’attenzione con trame intricate alla Hitchcock, ma bastava loro mostrare il movimento in sé, che al tempo era una vera novità (si veda ad esempio La Sortie de

l'usine Lumière à Lyon del 1895 che mostra il flusso di persone in uscita dalla fabbrica,

o L'Arrivée d'un train en gare de La Ciotat del 1896 che mostra l’arrivo di un treno). Con il passaggio dal bianco e nero al colore, o dal muto al sonoro, si ha una trasformazione del medium; inoltre, i film hanno successivamente acquistato una dimensione narrativa, nel momento in cui il semplice sfoggio del movimento non era più una novità. In ogni caso, afferma Danto, è sempre stato possibile immaginare un futuro dell’arte in termini di progresso, basti pensare a quanto detto finora: partendo dalle immagini statiche di un quadro si poteva pensare di farle muovere per rappresentare al meglio la realtà. Questo porta però anche a poter parlare della fine dell’arte come disciplina progressiva: arrivati al punto in cui la distanza tra realtà e rappresentazione è completamente colmata, cioè non sussiste nemmeno più, come nel caso di cinema e fotografia, cosa resta all’arte? Qual è il suo futuro? L’arte prodotta successivamente ha bisogno di una spiegazione diversa: Danto introduce quindi il secondo modello, quello dell’espressione. Allo stesso modo in cui la scienza cambia paradigma se quello precedente non è applicabile al mondo, nella storia dell’arte c’è bisogno di una nuova teoria che spieghi un certo tipo di opere.

Si prenda come esempio un quadro cubista di Pablo Picasso: dal punto di vista del primo modello, uno dei più grandi artisti della storia non avrebbe alcuna capacità rappresentativa e un quadro come Les demoiselles d’Avignon (1907) potrebbe essere considerato quasi infantile. Questo tipo di considerazione trae però quest’arte fuori

dalla storia, non può funzionare. In questo caso la discrepanza che c’è tra il quadro e la realtà è decifrabile soltanto attraverso la teoria dell’espressione, che non solo spiega la discrepanza, ma la necessita. L’apprezzamento di artisti come Picasso è inizialmente sostenuto dalla dimostrazione che sapessero effettivamente disegnare con abilità tecniche degne di nota: questo dava prova del fatto che la discrepanza non era frutto di incapacità tecnica, ma era una cosa voluta, con un suo significato. Con l’espressionismo e ancora di più con l’espressionismo astratto le rappresentazioni diventano radicalmente irriconoscibili, nel senso che la distanza dalla realtà è incalcolabile. Mentre per Vasari era sensato fare un paragone tra un Giotto e un Masaccio, in termini di progresso rappresentativo, non ha senso paragonare uno dei due a un Picasso; questo non perché le nuove tecniche non consentano nuove capacità espressive, anzi vi sono vari mezzi espressivi, ma a mancare è la linea di progresso tra essi. L’arte va come scomponendosi in una serie di atti individuali, reciprocamente incommensurabili. Ad essere incommensurabili non sono solo gli artisti, ma addirittura le opere: vi è una relativizzazione dell’arte alle singole opere. Dal punto di vista espressivo, la storia dell’arte avrebbe lo stesso senso anche percorsa a ritroso. La questione del futuro dell’arte è una questione antirelativistica, in quanto presuppone l’esistenza di una storia lineare, in cui l’espressione del sentimento appare solo come un elemento collaterale80. Dal momento in cui non vi è più un unico criterio valido per giudicare le opere d’arte e la loro storia, si giunge a un pericoloso relativismo, nel senso che ciascun giudizio è relativo alla singola opera in questione. Si palesa quindi il bisogno di un modello che superi i problemi di quello progressivo e di quello espressivo, riuscendo anche ad accogliere altri tipi di arte oltre a quella rappresentativa (finora non abbiamo parlato di opere musicali o letterarie). Entra dunque in gioco Hegel: la sua teoria infatti fa sì che l’arte abbia una storia lineare e un progresso, ma che non è un progresso a livello qualitativo o di sviluppo tecnico. Vi è invece secondo Danto un progresso cognitivo (cognitive progress): in Hegel l’arte ha uno stretto rapporto con la verità, in quanto rappresenta l’adeguata e riconosciuta espressione di essa per un determinato periodo storico. Il progresso ha a che fare con la conoscenza, che una volta data, destituisce l’arte dal suo ruolo: si tratta della conoscenza di cosa sia l’arte. Quindi, l’arte procede verso la conoscenza di se stessa, così come

80 Ivi, p. 107. «Only, for instance, if we first think of art as representation can we then think of art as

having the sort of history which fulfills the progressive model. If, on the other hand, we think of art as simply being expression, or the communication of feelings, as Croce did, well, it just can’t have a history of that sort and the question of the end of art can have no application, just because the concept of expression goes with that sort of incommensurability in which one thing just comes after another thing».

analogamente lo spirito procede nella storia per arrivare alla coscienza di sé. «L’arte giunge alla sua fine con l’avvento della propria filosofia»81, come affermato nelle

Lezioni di estetica: «è subentrata la critica»82.

Danto propone allora un terzo modello, quello del Bildungsroman, cioè il romanzo di

formazione, ispirandosi esplicitamente alla Fenomenologia dello spirito di Hegel,

trattato filosofico non convenzionale, in cui il protagonista è lo spirito (Geist) che giunge dialetticamente alla comprensione di se stesso come autocoscienza. Riprendiamo la già citata opera di Warhol, Brillo Box: perché è un’opera d’arte, mentre le economiche scatole del supermercato non lo sono? La stessa cosa si può vedere nei

readymades di Duchamp, come Anticipo per un braccio rotto (la famosa pala da neve):

si tratta, come abbiamo visto, di oggetti d’arte che sono tali non per proprietà visive, ma per una teoria dell’arte. Ci troviamo davanti ad una conclusione a primo impatto deludente: è la filosofia dell’arte a rivestire importanza, poiché risponde alle domande che l’arte va a rappresentare. Paradossalmente quindi, la domanda su cosa sia l’arte, non richiede più l’arte.

Danto conclude il saggio mettendo insieme fine dell’arte e fine della storia, intesa come fine di qualsiasi scontro ideologico riguardante l’essenza dell’umano e il modello di società in cui vivere. Riprende la teoria di Marx, dove la fine della storia si realizza nel momento in cui verrà realizzata una società priva di classi: essendo il conflitto il motore della storia, qualora esso cessi di esistere, saremo giunti alla fine. Questo non in senso apocalittico: i protagonisti, gli umani, continueranno a vivere in un’esistenza post-storica, fatta di eventi fini a se stessi. Di modo che, secondo Marx, potremo essere cacciatori alla mattina, pescatori nel pomeriggio e critici alla sera, in un’esistenza in cui vige l’imperativo fa ciò che vuoi.

Come potrebbe affermare Marx, si può essere un astrattista al mattino, un fotorealista nel pomeriggio e un minimalista alla sera. […] L’epoca del pluralismo è alle porte. Non ha più importanza ciò che fai, ecco cosa significa pluralismo. Quando una direzione va bene allo stesso modo di un’altra, non vi è più alcun concetto di direzione da applicare. […] Esisterà sempre un servizio che l’arte può compiere, se ciò soddisfa gli artisti. La libertà finisce nella propria realizzazione83.

81 Ibidem. «Art ends with the advent of its own philosophy».

82 G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, tr. it. di Paolo d’Angelo, op. cit., p. 198.

83 A.C. Danto, The Philosophical Disenfranchisement of Art, op. cit., pp. 114-115. «As Marx might say,

you can be an abstractionist in the morning, a photorealist in the afternoon, a minimal minimalist in the evening. […] The age of pluralism is upon us. It does not matter any longer what you do, which is what pluralism mean. When one direction is good as another direction, there is no concept of direction any longer to apply. […] There will always be a service for art to perform, if artists are content with that. Freedom ends in its own fulfillment».

È l’epoca del pluralismo, in cui vediamo realizzarsi quella frammentazione che Hegel attribuiva all’arte romantica: continuiamo a produrre arte, ma essa è qualcosa di subordinato, che è importante solo come intrattenimento.

Danto difende la sua posizione dalle critiche in un saggio del 1998: The end of art: a

philosophical defense84, dove vengono precisati alcuni aspetti. Afferma che il suo intento è quello di una definizione essenzialista dell’arte, ovvero una definizione che sia sempre valida, e che ciò non è, al contrario di quel che si penserebbe, in contrasto con lo storicismo. Lo svolgersi storico dell’arte non esclude una sua essenza definitoria, anzi le due cose si implicano a vicenda e ciò rende possibile il pluralismo dell’arte a cui abbiamo accennato. Quest’ultimo infatti sembrerebbe fare da contraltare alla possibilità di un’essenza dell’arte, vista la moltitudine di opere che hanno così poco in comune, mentre vedremo che Danto riesce ad estrapolare una definizione universale dell’arte proprio dal fatto che le opere mostrano radicali differenze. Danto si dirige verso una definizione dell’arte individuando due concetti, emersi in The

Transfiguration of the Commonplace (1981): aboutness e embodiment, che possono

essere tradotti come essere a proposito di e incarnare o incorporare (un significato). Queste condizioni vengono associate a ciò che è scritto nell’estetica hegeliana a proposito del giudizio artistico85: le condizioni che lo rendono tale sono il contenuto dell’arte e il modo di presentazione dell’opera. Queste sono infatti le condizioni richieste per la critica d’arte, cioè determinare quale sia il contenuto dell’opera e spiegare in che modo esso viene presentato.

Tornando alla fine dell’arte, Danto risponde inoltre ad un’importante critica di Noël Carroll86: per il critico l’errore principale nella teoria di Danto secondo cui la narrazione storica dell’arte termina con la volontà dell’arte di autodefinirsi, sta nell’aver attribuito una prospettiva propria dell’arte pittorica all’arte in generale, quindi la fine dell’arte è da considerarsi in realtà la fine dell’arte pittorica, cioè riferita esclusivamente alla pittura e non alle altre arti. La risposta di Danto sta nella precisazione che la fine dell’arte fa riferimento al venire a coscienza, cioè al fatto che

84 A.C. Danto, The End of Art: A Philosophical Defense, in History and Theory, vol. 37, no. 4, 1998,

pp. 127–143. Archivio online JSTOR www.jstor.org/stable/2505400.

85 Danto fa riferimento all’edizione inglese Hegel’s Aesthetics: Lectures on Fine Art, tr. T. M. Knox,

Oxford University Press, 1975, p. 11. «What is now aroused in us by works of art is not just immediate enjoyment but our judgement also, since we subject to our intellectual consideration (i) the content of art, and (ii) the work of art's means of presentation, and the appropriateness or inappropriateness of both to one another. The philosophy of art is therefore a greater need in our day than it was in days when art by itself as art yielded full satisfaction. Art invites us to intellectual consideration, and that not for the purpose of creating art again, but for knowing philosophically what art is».

86 N. Carroll, The End of Art?, in History and Theory, vol. 37, no. 4, 1998, pp. 17–29. Archivio online

un determinato percorso termina nella consapevolezza di sé in quanto tale, d’accordo con quella che è la forma del già citato Bildungsroman, il romanzo di formazione. Ciò che Danto intende mettere in luce è che dopo la cosiddetta fine dell’arte si apre un periodo nuovo, in cui l’arte cessa di essere il tramite con cui veniva esternato il progresso artistico-storico, rappresentato in particolare dagli sviluppi della tecnica pittorica. Danto intende la fine dell’arte come «la fine della possibilità che l’arte prenda una particolare direzione interna»87, quindi la fine dello sviluppo progressivo, che coincide positivamente con la fine della tirannia della storia. L’arte può infatti essere fatta a partire da qualsiasi cosa, come ci viene mostrato dall’opera Brillo Box o dai

readymades di Duchamp e non solo.