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Dopo la fine dell’arte

Parte II – L’interpretazione di Arthur Danto

4. Dopo la fine dell’arte

Nel testo After the end of art (1997) Danto si preoccupa di dare delle precisazioni riguardo alla concezione della morte dell’arte e delle sue conseguenze, ridimensionando anche l’influenza hegeliana all’interno della sua teoria. Anche in questo caso ci troviamo davanti a dei fraintendimenti e delle radicalizzazioni, come già avvenne nel caso di Hegel. Il titolo del saggio di cui abbiamo parlato, The Death

of Art, non fu dato da Danto e risulta infatti fuorviante, poiché, egli afferma, a giungere

al termine non è l’arte, ma una certa narrazione (narrative) dell’arte. Inoltre, con ciò egli non intendeva certo affermare che non ci sarebbe stata più arte, ma che l’arte a venire non sarebbe stata compresa e interpretata da una determinata narrazione storico- artistica come legittima fase successiva alla precedente all’interno di una storia88. L’arte della contemporaneità è destinata ad un museo che include qualsiasi tipo di arte, senza criteri a priori discriminanti; «gli artisti oggi considerano il museo pieno non di arte morta, ma di alternative artistiche viventi»89.

Danto pone l’accento sul fatto che con l’avvento del Modernismo gli artisti non dipingono più il mondo così come si presenta davanti ai nostri occhi, mentre diventano fondamentali le condizioni di rappresentazione, «cosicché l’arte diventa il soggetto di

87 A.C. Danto, The End of Art: A Philosophical Defense, in History and Theory, vol. 37, no. 4, 1998, p.

139. Archivio online JSTOR www.jstor.org/stable/2505400. Le citazioni qui presenti sono di mia traduzione.

88 A.C. Danto, After the end of art, Princeton University Press, New Jersey, 1997, p. 4. « A story was

over. It was not my view that there would be no more art, which "death" certainly implies, but that whatever art there was to be would be made without benefit of a reassuring sort of narrative in which it was seen as the appropriate next stage in the story. What had come to an end was that narrative but not the subject of the narrative. I hasten to clarify».

se medesima»90. Si rifà ad un saggio di Clement Greenberg (critico d’arte statunitense contemporaneo di Danto) del 1960, Modernist Painting, su cui vale la pena di fare un excursus. In questo breve scritto vi è il tentativo di individuare una logica nello sviluppo tecnico dell’arte, che vede il Modernismo nell’arte non come una rottura con il periodo precedente, ma in continuità. Greenberg attribuisce al Modernismo come caratteristica fondamentale l’intensificarsi della tendenza all’autocritica, che ha inizio con Kant, che definisce il primo vero modernista. Dunque le discipline modernistiche, arte compresa, usano il mezzo che le identifica per criticare loro stesse, in modo tale da consolidare la loro area di competenza; ciò non avviene quindi come forma di critica esterna, ma dall’interno. L’arte da questo punto di vista non solo si mette in discussione, ma in un certo senso fornisce anche delle risposte che diano prova della legittimità e unicità della sua esperienza. La chiave dell’autocritica viene ad essere il mezzo (medium) che caratterizza una forma d’arte, di fondamentale importanza in quanto la rende quindi unica nel suo genere e pura. L’arte pittorica in particolare allora dovrà mostrare proprio i limiti che caratterizzano esclusivamente il suo mezzo (come la superficie piatta della tela e la pigmentazione dei colori), che venivano considerati dagli antichi maestri come elementi negativi da superare. Questo superamento avveniva ovviamente attraverso delle illusioni ottiche come quella della profondità, la cui tecnica deve molto alla scultura. Nel Modernismo questi limiti vengono visti come positivi e quindi messi in mostra, come possiamo vedere in Manet e negli Impressionisti, le cui pennellate di colore sono ben visibili sulla tela; o in Cézanne, che sacrifica la verosimiglianza per adattare il dipinto alla forma della tela, come se il processo di dipintura fosse più importante del risultato stesso. Secondo Greenberg, i dipinti modernisti ci avvertono prima della piattezza (flatness) della superficie e della bidimensionalità della figura e solo dopo del contenuto rappresentato, al contrario di ciò che avveniva nei dipinti degli antichi maestri, la cui illusione narrativa produceva una distanza con l’irriducibile essenza della pittura, cioè la sua piattezza (flatness). Dunque la pittura acquista la sua autonomia da altri campi (come la scultura) mostrando caratteristiche che altre forme d’arte non possiedono, fino a diventare estremamente astratta (completamente libera da tridimensionalità), come nei quadrati di Mondrian. Nonostante vi sia una presa di distanza dalla tradizione antica, il Modernismo non segna una rottura netta col passato, ma è in continuità con esso con un movimento che potremo definire retroattivo, in quanto più la prassi di una disciplina

viene definita, più deve essere seguita. In questo senso un quadro di Mondrian è più

conservatore, cioè legato alle convenzioni, di un quadro di Monet e l’arte

d’avanguardia è capace non tanto di rivoluzionare, quanto di rinnovare l’arte, proprio perché ha assimilato l’estetica precedente.

Per Greenberg quindi l’arte modernista nasce con lo scopo di indagare se stessa e la pittura modernista mette in mostra le sue esclusive modalità espressive, sotto il segno di quella che è una purezza intesa come capacità autocritica e di autodefinizione. L’importanza della tesi di Greenberg sta nell’aver proposto un nuovo paradigma della storia dell’arte, nella sua interpretazione, però, ogni forma d’arte si pone la questione su quale sia la caratteristica che la distingue dalle altre, mentre non viene affrontata la domanda riguardante l’arte stessa, che deve includere tutta l’arte e non solo una certa corrente. Il Modernismo nei termini di Greenberg non descrive tanto un periodo artistico, quanto una strategia stilistica, declinata secondo la purezza dell’opera, dove per purezza si intende volontà di autodefinizione. In questo senso allora, afferma Danto, l’arte surrealista viene giudicata come qualcosa di impuro e difatti viene snobbata da Greenberg come qualcosa che sta oltre i confini della storia. Se il discrimine è la purezza nel senso di arte applicata all’arte, allora l’arte contemporanea è impura. Danto sostiene fortemente la distinzione tra arte moderna e arte contemporanea, che è divenuta chiara tra gli anni ’70 e ’80; per molto tempo l’arte contemporanea è stata considerata come arte moderna prodotta dai contemporanei del nostro tempo, finché non si è giunti per forza di cose alla nozione di postmoderno. Danto torna ad affermare che oggi non c’è più alcun confine della storia e che tutto è permesso, quindi qualsiasi cosa può essere un oggetto d’arte; dal momento in cui si è capito ciò, è stato possibile pensare ad una filosofia dell’arte. Greenberg ha fatto passare una determinata concezione di arte astratta per la verità filosofica dell’arte a livello universale, cioè applicabile a tutta l’arte in generale. La questione fondamentale è che una definizione come quella di Greenberg prende in causa gli aspetti esterni, visibili, dell’arte, dunque per Danto non può essere che superata, in quanto «qualsiasi cosa sia l’arte, non deve più essere primariamente qualcosa da guardare. Forse da osservare attentamente, ma non primariamente da guardare»91. Sorge allora la

domanda riguardo al tipo di museo che deve contenere quest’arte: il pluralismo che caratterizza l’arte contemporanea si fa difficilmente comprendere in un un’unica dimensione e anche l’ambiente museale dovrà fare i conti con la fine dell’arte.

Tornando alla questione della definizione di arte, la domanda che Danto formula non è cosa sia essenzialmente l’arte, ma più precisamente cosa distingue un’opera d’arte da qualcosa di identico ma che non è un’opera d’arte (che sorge appunto osservando le Brillo Box)92. La risposta non si trova nell’arte stessa, ma nella filosofia che la indaga; inoltre questa indiscernibilità significa che non vi è un modo preciso secondo cui le opere d’arte devono essere fatte, dunque è necessaria una definizione filosofica che non escluda niente. Non esiste più una direzione storica in particolare che l’arte deve prendere, gli artisti sono liberi di creare qualsiasi tipo di opera. Danto riprende le parole di Warhol in riferimento al fatto che in questo contesto non esiste uno stile migliore di un altro, tutti hanno lo stesso merito. Questo non significa che tutta l’arte sia indifferentemente uguale e che quindi perda di senso la critica artistica, ma che i criteri per definire cosa è meglio e cosa è peggio non hanno a che fare con l’appartenenza ad uno stile migliore rispetto ad un altro. Quello che Danto intende per fine dell’arte è la fine di una narrazione storica che porta con sé la fine del conflitto. Quest’ultima spiegata con un paragone politico abbastanza estremo: la fine del conflitto la si può raggiungere con l’eliminazione fisica dell’avversario politico, quindi con la pulizia etnica, oppure vivendo uniti senza bisogno di tracciare un discrimine. «La questione dipende dal tipo di persona che sei. La critica morale sopravvive nell’epoca del multiculturalismo, come la critica d’arte sopravvive nell’epoca del pluralismo»93. Il paragone politico torna a proposito di Greenberg e del paradigma formato sulla nozione di purezza, che Danto descrive come dogmatico ed intollerante, quindi in contrasto col relativismo e multiculturalismo dell’epoca94. La sua è una

struttura narrativa che prosegue direttamente da quella di Vasari, ma in cui l’arte diventa gradualmente oggetto di se stessa. Il Modernismo, secondo Danto, termina laddove la differenza tra un oggetto comune e un oggetto d’arte non può più essere spiegata in termini visibili, cioè secondo un’estetica materialista, facendo emergere la necessità di un’estetica del significato (aesthetics of meaning). Riuscendo a porre la domanda giusta riguardo all’arte, si può essere dunque anche in grado di fornire la risposta adeguata, che sia cioè universalmente valida, includente qualsiasi stile artistico e qualsiasi opera.

92 Ivi, p. 35. «In my view, the question of what art really and essentially is-as against what it apparently,

or in essentially is-was the wrong form for the philosophical question to take, and the views I advanced in various essays concerning the end of art endeavor to suggest what the real form of the question should be. As I saw it, the form of the question is: what makes the difference between a work of art and something not a work of art when there is no interesting perceptual difference between them?».

93 Ivi, p. 37. 94 Ivi, p. 70.