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Seconda Parte Dentro la ricerca

4. Il racconto di vita

4.2. Il ‘tu’ che ascolta

Prima di passare all’esame dell’oggetto della ricerca, mi pare importante soffermarmi sul gioco che anima la specifica situazione di intervista, quella cioè che vede coinvolto un ricercatore e i migranti.

Si tratta di due attori sulla scena, la cui interlocuzione mette in moto tre livelli distinti di riflessività.

Il primo livello

Il primo livello interessa il piano ermeneutico: i due agenti entrano in relazione, contrattualizzando l’intervista (Bertaux 2003: 54) e dando voce ad una storia che si traduce in racconto. Il vissuto del soggetto, condensandosi nella linearità discorsiva, viene di fatto restituito coerente, al di là delle fratture che lo hanno caratterizzato.

Su questo livello possiamo leggervi quanto intuito da Cavarero (2001) e quanto ereditato nel complesso dalla filosofia ermeneutica.

La presenza di un ‘tu’ che ascolta in modo attivo (Sclavi 2000) e che interviene regalando al soggetto la possibilità di leggere la propria storia con un occhio esterno, capace di scorgervi in essa ‘i tratti della cicogna’ (Cavarero 2001), si svela ai due attori come dono inatteso.

Il primo livello, pertanto, mette in campo la priorità relazionale. Ovviamente il soggetto migrante può dettare le regole della relazione, rifiutandosi di raccontare all’altro, estraneo e ‘straniero’, il proprio vissuto, giustificando ciò come gesto politico, denunciando l’asimmetria del rapporto, il fatto che tra i due a doversi mettere a nudo sia solamente lui stesso, che già vive una condizione di disuguaglianza di opportunità rispetto all’interlocutore.

In altri termini, “le forme e i contenuti di un racconto biografico variano con l’interlocutore; […] si situano all’interno di una reciprocità relazionale” (Ferrarotti 1997: 44). È proprio questa dimensione che fa sì che la comprensione di una determinata biografia debba passare necessariamente dall’“ermeneutica dell’azione sociale che reinventa la biografia narrandola nel quadro di una interazione” (ibidem: 45).

Questo livello della ‘situazione intervista’ fa sì che da parte del soggetto il momento autobiografico si palesi come cura di sé, riuscendo il racconto a ricucire le fratture che hanno spezzato la linearità di una storia.

“Ma erroneo e deprimente è vivere l’autobiografia come farmaco per liberarsi dal proprio passato prendendone le distanze.

La vera cura di sé, il vero prendersi in carico facendo pace con le proprie memorie inizia probabilmente quanto non più il passato bensì il presente, che scorre giorno dopo giorno aggiungendo altre esperienze […], entra in scena. E diventa luogo fertile per inventare o svelare altri modi di sentire, osservare, scrutare e registrare il mondo dentro e fuori di noi. […] L’autobiografia non è soltanto un tornare a vivere: è un tornare a crescere per se stessi e per gli altri, è un incoraggiamento a continuare a rubare giorni al futuro che ci resta, e a vivere più profondamente […] quelle esperienze che […] non potevano essere vissute con la stessa intensità.

Per questo l’autobiografia è un viaggio formativo e non un chiudere i conti. Non decreta, a posteriori, quali sono stati i nostri debiti (onorati o meno) e quali i nostri crediti.” (Demetrio 1996: 15-16)

Nel raccontarsi ad un altro, dunque, ad un ‘tu che ascolta’, si manifesta la possibilità di “prendersi in carico” (ivi), di restituirsi rinnovati agli altri.

Le riflessioni su questo punto potrebbero essere tante; in parte verranno fuori nel corso della ricerca.63

Il secondo livello

Il secondo livello attivato dal gioco dell’intervista ‘ricercatore-migrante’ è di tipo strettamente sociologico. L’intervistatore avvia la fase della contrattualizzazione perché ha uno scopo ben preciso di conoscenza: la creazione di un setting quanto più ‘confortevole’ possibile è funzionale all’esito positivo di tale istanza.

La ‘necessità’ dell’intervista, dunque, si palesa come strategica rispetto alle domande che hanno motivato la ricerca e che invocano risposte quanto più convincenti.

In tal senso, dunque, il racconto di vita si rivela uno strumento utile per esplorare almeno due tipologie di account: di tipo A di tipo B.

Quelli di tipo A riguardano nello specifico l’esperienza associativa, il modo in cui essa è andata nel corso del tempo ad incidere sulla traiettoria personale, correggendo o meno l’andamento assunto da quest’ultima in seguito al processo

63 Risulta significativo quanto affermato a tal proposito da Bourdieu a conclusione del volume

collettaneo “La misère du monde” (Bourdieu 1993: 1389-1447). Egli ribadisce l’esistenza di un’asimmetria relazionale tra il ricercatore e l’intervistato che rimanda ad un’asimmetria sociale. Tale aspetto influenza la performance del racconto, ma anche gli esiti della ricerca: l’asimmetria del rapporto, infatti, fa sì che alcuni aspetti subiscano da parte del soggetto intervistato un’autocensura e che altri, al contrario, vengano accentuati fuor di misura.

migratorio. In altri termini, risulta rilevante comprendere in che misura e in che termini l’associazionismo è ‘significativo’ rispetto al proprio sé, essendo responsabile della costruzione di significati e valori.

Gli account di tipo B riguardano il modo in cui la pratica associativa, costruita attorno al cardine dell’intersoggettività, rende ‘significativo’ il mondo sociale circostante, tematizzando il discorso migratorio in generale, le culture di ospitalità e quelle di rifiuto, o, ancora, le risposte provenienti dall’universo delle istituzioni.

In questo caso, il soggetto è chiamato a parlare per conto di un terzo attore (questa volta collettivo, il gruppo di appartenenza) e del modo in cui questi si relaziona con il contesto più generale.

Il terreno sul quale si gioca la partita tra i due agenti non è affatto neutrale, pur avendo tutta l’aria di esserlo.

Gli account di tipo B, infatti, non riguardano un contesto distante dai due interlocutori: è la struttura sociale nella quale essi si trovano inseriti.

Per il migrante, tale contesto risulta un sistema rispetto al quale egli si sente collocato ai margini, se non addirittura al di fuori. Per il ricercatore tale contesto è la struttura sociale di appartenenza, incorporata ed esibita.

Il lavoro del ricercatore, dunque, è un gioco di simulazione: fingere di posizionarsi al di fuori del sistema, al fine di assumere la posizione e lo sguardo sul mondo del suo interlocutore. La “provvisorisa ospitalità” (Sparti 2002: 161) è fittizia e molto spesso rimane solamente un’intenzione: il migrante, sebbene il ricercatore sia animato da tale spinta solidaristica e strategicamente empatica, continua a vedere in questi l’incorporazione – per usare un termine caro a Bourdieu – del mondo sociale che si trova a contestare.

Probabilmente nella situazione di intervista giocano molteplici fattori, che concorrono tutti a definire i contenuti emersi e le forme di “approssimazione” (Cassano 2003): un ruolo fondamentale in tal senso è dato dall’implicito, dal non detto; è importante non solo ciò che si dice, ma ciò che realmente si pensa dell’altro e che le circostanze impongono che non possa essere detto.

Proprio per questa ragione, i rifiuti (soprattutto quelli argomentati in maniera violenta o accesa) hanno una potente funzione disambiguante.

Il terzo livello

Alla luce di quanto fin qui affermato, si comprende in che modo si sviluppi il terzo livello della situazione di intervista presa in esame.

Gli account di tipo B, per il ricercatore, non sono altro che il proprio mondo visto con gli occhi del migrante. È quest’ultimo che – quasi obbedendo alla logica maussiana (Mauss 2002) – restituisce il dono dell’ascolto, offrendo al suo interlocutore di pensare se stesso e il proprio mondo a partire da uno sguardo altro, carico di significati e valori diversi. È il migrante, quindi, che dona al ricercatore la possibilità di decentrarsi (Cassano 2003); così facendo quest’ultimo incomincia a cogliere la complessità che abita il proprio sistema sociale di appartenenza.

In tal senso la ricerca più che rispondere a delle domande ne inaugura delle nuove. Lo sguardo del migrante, perciò, introduce profondità al discorso e con essa l’ombra derivante dalla terza dimensione, proprio laddove il ricercatore fino a poco tempo prima non riusciva a scorgere la multidimensionalità.

Le risposte che il ricercatore era intento a cercare, dunque, giungono cariche di altri nodi da sciogliere, foriere di ulteriori domande.

Diverse donne, a microfoni spenti e dopo ore di intervista, mi hanno ringraziata per aver dato loro la possibilità di raccontarsi. In realtà i loro racconti hanno regalato a me un modo nuovo di guardare il mio mondo sociale, invitandomi a scorgere le sue ombre, senza temerle, nella convinzione che già intuirne la presenza è segno di essermi ‘addomesticata’ (anche se a fatica) ad uno sguardo altro, ad una condizione di stranierità (Schutz 1979).