Seconda Parte Dentro la ricerca
2. Le fasi della ricerca
2.3. Il momento delle ipotes
Soprattutto per quanto riguarda l’Italia, la mancanza di un’adeguata riflessione sull’associazionismo dei migranti ha complicato la fase di formulazione delle ipotesi; per tale ragione, dopo un’analisi di sfondo, sono ricorsa all’osservazione diretta. Con lo scopo di comprendere le proporzioni del fenomeno, ho, infatti, partecipato a convegni, a scuole di politica, a cicli di seminari frequentati da donne straniere impegnate nell’ambito dell’associazionismo, del sindacato e della vita politica.
Ho creduto utile esplorare il livello di istituzionalizzazione di alcune realtà, intuendo che è il riconoscimento e la legittimazione che esse perseguono proprio attraverso il dialogo con le istituzioni. Per tale ragione ho voluto osservare la pratica associativa non nella cornice delle rispettive sedi di appartenenza, ma in
setting specifici (caratterizzati dal pluralismo delle voci, dall’incontro tra diversi
livelli istituzionali, da aperto e pubblico dibattito).
Questa fase della ricerca, pertanto, è stata caratterizzata da un’interlocuzione continua tra la dimensione teorica e quella del campo: gli stimoli provenienti ora dall’uno ed ora dall’altro versante hanno concorso alla formulazione delle ipotesi di partenza, che hanno poi permesso la pianificazione della ricerca.
Il dialogo fra la teoria e il campo di ricerca si è svelato prezioso e funzionale, tenuto conto di quanta poca attenzione sia stata offerta a tale aspetto da studi precedenti.
Le ipotesi che hanno mosso la ricerca possono essere così sintetizzabili:
• le donne migranti esplorano nell’esperienza associativa la possibilità di curare un ‘sé’ ferito;
• il racconto (del proprio progetto migratorio, della storia delle rispettive famiglie, dei sogni e delle speranze) è essenziale nel processo di ‘cura’;
• le donne, attraverso la ‘vita di gruppo’, oppongono resistenza alle dinamiche sistemiche che, costringendole a subire il fatto migratorio, giustificano il progetto che esso comporta come ‘scelta esclusivamente personale’;
• il riconoscimento che deriva dall’impegno profuso e dalla possibilità di mettere a frutto i personali talenti esercita un forte potere seduttivo sulle migranti, desiderose di arginare la perdita di status generata dal percorso migratorio; • il momento della ‘denuncia’ (di situazioni di degrado sociale, di marginalità
vissute da altre donne, ecc…) è fondamentale nel momento enunciativo pubblico;
• il gruppo costituisce la proiezione di una rete familiare complessa persa con il processo migratorio;
• il gruppo funge da ‘serbatoio culturale’ per il mantenimento della cultura di origine e per la trasmissione di quest’ultima alle nuove generazioni;
• l’esperienza associativa permette la mediazione tra i singoli e le istituzioni, favorendo l’inserimento e l’acquisizione di risorse (economiche, sociali, culturali, ecc…);
• la questione dei diritti delle seconde generazioni (in particolare dei propri figli) è fortemente sentita al punto tale da giustificare il peso di un impegno costante;
• la categoria del ‘dono’, da sola, non può spiegare la motivazione associativa, la quale presuppone un percorso multidimensionale offerto dal lavoro sul proprio Sé, dalla massimizzazione del capitale sociale, dalla valorizzazione di capacità e talenti resi opachi dalla migrazione, ecc…
• la partecipazione attiva giunge a consolidare il progetto migratorio, volgendolo alla stabilità;
• le strategie di inserimento e partecipazione messe in atto dalle donne consentono di individuare differenti categorie di distinzione, che è esperita sul piano personale e/o collettivo a seconda del capitale biografico in gioco.
2.4. Le narratrici
Una volta individuata la cornice teorica di riferimento e formulate le ipotesi, ho proceduto con la pianificazione della ricerca: questa fase è stata caratterizzata dalla scelta metodologica e dalla procedura del ‘campionamento’.
La complessità dell’universo migrante (all’interno del quale ai nuovi arrivati, soprattutto dall’Est Europa, si accompagnano presenze ormai storiche nel nostro Paese), la pluralità delle esperienze e dell’offerta associativa, la molteplicità delle forme in cui essa va dispiegandosi (associazioni di mutuo-aiuto, culturali, etniche, interculturali, religiose, ecc…), l’eterogeneità della componente etnica che caratterizza il fenomeno immigratorio in Italia (differenziandolo in tal senso da altri contesti europei) mi hanno fatto propendere per un “campionamento a valanga” (Gobo 2001).55 Tale scelta si è immediatamente rivelata strategicamente funzionale rispetto agli obiettivi della ricerca e mi ha, altresì, permesso di arginare in parte il problema principale che coinvolge quasi tutte le ricerche sul fenomeno migratorio: l’accesso al campo e, nello specifico, la disponibilità al racconto di sé e del proprio percorso biografico-associativo. Sebbene il campionamento a
55 La definizione che offre Gobo è la seguente: “Il campionamento a valanga (snowball)
consiste nell’identificare alcuni soggetti, dotati delle caratteristiche richieste, e attraverso loro risalire ad altri soggetti possessori delle medesime caratteristiche. Il termine ‘valanga’ richiama l’analogia con la massa di neve che rotolando a valle assume dimensioni sempre maggiori. […] Data la natura a spirale del processo di indagine, in etnografia il campionamento non si svolge necessariamente una sola volta nell’arco della ricerca. L’etnografo può condurre diversi campionamenti man mano che, ‘procedendo a imbuto’, i concetti si affinano e le ipotesi divengono più precise. In altre parole il campione (questa è la peculiarità del theoretical sampling) cambia in funzione dei concetti e delle proprietà che il ricercatore vuole documentare, delle ipotesi che decide di controllare e anche degli eventi inaspettati […]”. (Gobo 2001: 80)
valanga abbia favorito il processo di individuazione delle narratrici, questa fase della ricerca è stata estremamente faticosa, perché ho dovuto fare i conti molto spesso con la mancanza di disponibilità da parte delle donne contattate.
Tale tipologia di campionamento fa ricorso alla forza del capitale sociale presente in un determinato contesto, divenendo per certi versi strumento di misura dello stesso. La scelta del campionamento a valanga, poi, è stata guidata dal desiderio di dare voce a “casi di interesse attraverso persone che conoscono altre persone che sanno quali casi si rivelino densi di informazione” (Patton, Kuzel cit. in Nigris 2003: 105).
Per quanto riguarda la popolazione di riferimento si è trattato di donne impegnate nel ruolo di quadri all’interno di associazioni che agiscono prevalentemente su raggio nazionale o che su tale scala hanno visibilità molto forte.
La scelta di tali profili è stata dettata dall’ipotesi principale che ha guidato la ricerca: risulta più interessante esplorare le strategie distintive (e non semplicemente gli atteggiamenti altruistici e le pratiche di aiuto) in quei soggetti che occupano, per esempio, una posizione di prestigio all’interno del contesto associativo e che, quindi, per arrivarvi hanno accettato una candidatura.
Posta questa ipotesi, è importante, altresì, misurarsi con la differenzialità, partendo dal presupposto che “persone che si trovano nella stessa posizione istituzionale possono riempire il loro ruolo in modo molto differente perché non hanno la stessa struttura di personalità o, per riprendere il concetto sviluppato da Bourdieu, non hanno lo stesso habitus, inteso come l’insieme degli ‘schemi di percezione, valutazione e azione’” (Bertaux 2003: 45).
Ciò che produce il primo processo di diversificazione, infatti, è il “capitale di esperienza biografica” (ivi), che non solo giustifica la diversità di comportamenti pur occupando posizioni simili ma, nel medio termine, “influisce anche sulla distribuzione delle persone nelle varie posizioni” (ibidem: 46).
L’attenzione dimostrata alle biografie dei soggetti (attraverso lo strumento dei racconti di vita) è data anche dal desiderio di rintracciare gli snodi che producono differenze e danno luogo ad esiti distinti.
L’utilizzo di un campionamento a valanga, poi, si è rivelato funzionale anche rispetto ad un’altra questione: la segnalazione delle altre narranti ad opera
dei soggetti stessi ha facilitato l’accesso al campo, perché il primo contatto era reso possibile dal lavoro di mediazione di donne che già avevano accettato di raccontarsi. Tale strumento, facendo leva sul capitale sociale accumulato in uno specifico campo sociale, fa sì che la fiducia sia un tratto irrinunciabile della ricerca. L’esito di quest’ultima, infatti, è determinato dal grado di fiducia accordato dai soggetti al ricercatore, in primis, ma anche da quella che lega tra loro i singoli soggetti in un vincolo di stima e di amicizia.
Nonostante la cura e l’attenzione per quest’elemento (affatto secondario), la fase di ricerca del consenso da parte delle narratrici è stata piena di difficoltà: molti sono stati i rifiuti; in altri casi la disponibilità si è rivelata più che altro fittizia, volendo a tutti i costi dettare i tempi e i modi dell’intervista, manifestando apertamente, altresì, critiche e disapprovazione per questo tipo di ricerche.
Nonostante la mia disponibilità affinché tempi e luogo dell’appuntamento fossero stabiliti da loro stesse, sono stati diversi i casi di rifiuto.
In molte circostanze ho avuto la sensazione che la tattica scelta dalle potenziali narratrici fosse quella del temporeggiamento: non volendo tradire il vincolo di fiducia che le legava a coloro che le avevano ‘segnalate’, esse giocavano con me sui tempi, per lo più rimandando per diverse volte l’incontro, non presentandosi nel giorno e nell’ora pattuiti, non rispondendo al telefono, oppure, una volta incontrate, dichiarando (senza pudori) l’inutilità del mio lavoro e facendomi notare che con la mia richiesta stavo solamente rubando loro del tempo prezioso. In un caso l’impossibilità per un’intervista è stata giustificata in questi termini: “Ho due figli piccoli; mi devo occupare dell’associazione, del lavoro… E poi devo andare tre volte alla settimana in palestra e non intendo rinunciarvi. Non ho tempo per la sua intervista!”.
Come ho avuto modo di comprendere durante tutta la ricerca l’atteggiamento di disponibilità o meno rispetto al racconto di sé risulta essere una dimensione strettamente connessa con l’esperienza associativa; per tale ragione anche i rifiuti (con le relative scuse) si sono ben presto trasformati in oggetto di riflessione, traccia ineludibile dello specifico capitale di esperienza biografica, dell’habitus maturato, dell’abilità sociale di interlocuzione con le istituzioni (di cui in quel momento io ne rappresentavo un volto).