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La crisi narrativa dello Stato-nazione

3. Nel segno del kairós: l’emergere della società civile

3.1. La crisi narrativa dello Stato-nazione

Lo Stato-nazione, come lo conosciamo oggi, nasce nel XVII secolo, manifestazione del più complesso e vasto processo di modernizzazione, risultato di un tentativo di “unificazione/pacificazione di vaste aree territoriali” (Bagnasco, Barbagli, Cavalli 1997: 56). La centralità del potere, la presenza di un esercito, la nascita di un apparato burocratico, la possibilità di battere moneta diventano gli elementi in grado di caratterizzare gli Stati moderni.

Con lo stato moderno, inoltre, nasce il concetto di cittadinanza, emergendo dalle ceneri dell’assolutismo monarchico: l’idea di cittadinanza, così come è declinata oggi, dunque, scaturisce nel periodo delle grandi rivoluzioni e suggella la possibilità di dirsi cittadini per il semplice fatto di essere membri di un popolo, unico “depositario della sovranità dello stato” (Bagnasco, Barbagli, Cavalli 1997: 59).

I tratti della cittadinanza moderna sono riscontrabili in aspetti già messi in luce in precedenza; soprattutto essa riposa sul presupposto di cittadino ‘libero ed eguale’, sottolineando allo stesso tempo come “i valori di uguaglianza e libertà siano alla base dell’affermazione del valore dell’individuo” (ibidem 1997: 62).

Nel processo di costruzione dell’idea di Stato-nazione giocano, altresì, un ruolo fondamentale le tre grands recits (Geertz 1999): patria, identità e nazione, nell’epoca degli Stati moderni, assumono il carattere di miti di fondazione, costruendo i presupposti dell’appartenenza.

Questi elementi agiscono, nella logica della Gestalt13, da discriminanti per il

conferimento della cittadinanza. Appartenenere ad una patria, possedere un’identità condivisa, vivere in una nazione con radici etniche specifiche diventano le coordinate che declinano il discorso culturale degli stadi moderni.

13 La psicologia della Gestalt, detta anche psicologia della forma, è una corrente psicologica

riguardante la percezione e l’esperienza; nacque e si sviluppò agli inizi del XX secolo in Germania. Tra i diversi campi di applicazione, essa ha trovato un notevole sviluppo nell’ambito degli aspetti fenomenici della percezione. Con particolare riferimento alla percezioni visive, le regole principali di organizzazione dei dati percepiti sono: 1. buona forma (la struttura percepita è sempre la più semplice); 2. prossimità (gli elementi sono raggruppati in funzione delle distanze); 3. somiglianza (tendenza a raggruppare gli elementi simili); 4. buona continuità (tutti gli elementi sono percepiti come appartenenti ad un insieme coerente e continuo); 5. destino comune (se gli elementi sono in movimento, essi vengono raggruppati con quelli con uno spostamento coerente).

In realtà lo Stato-nazione ha sempre riposato su un ‘tacito imbroglio’, un compromesso che solamente le trasformazioni sociali del ‘900 hanno svelato: le idee di uguaglianza e libertà, infatti, per ragioni diverse, sono state dei veicoli metanarrativi, celando di fatto le sottostanti disuguaglianze. L’ipotesi di un contratto stipulato tra uomini liberi ed uguali è stata una pia illusione, che ha espulso dall’‘agorà’ le donne – che uomini non erano – e quanti non erano assimilabili a ciò che, in modo arbitrario, era assunto quale criterio unico di riferimento, cioè l’uomo borghese.

Alla luce di tale affermazione, pertanto, l’uguaglianza è un presupposto solamente teorico. In una società, poi, con scarsa mobilità sociale, in cui la maggior parte degli uomini è sottomessa “al dominio degli interessi e delle urgenze di tutti i giorni” (Bourdieu 2001: 52), anche il termine ‘libero’ diventa pura retorica. Lo Stato moderno è una forma legittima di controllo e di dominio, che va esprimendosi nell’organizzazione del sapere rendendo gestalticamente rilevanti solo quei soggetti che sono assimilabili al modello puro di cittadino,14 che

rivendica come unica forma legittima l’ipotesi del cittadino maschio borghese. Benhabib ricorda come proprio le “dichiarazioni, formulate nel nome delle verità universali della natura, della ragione o di Dio, segnano e tracciano anche confini, producono esclusioni in seno al popolo sovrano come pure al di fuori di esso” (2005: 228), alludendo nello specifico a quei “‘meri ausiliari della repubblica’, come Kant definisce le donne, i bambini e i servitori nullatenenti che ne sono all’interno, e i forestieri e gli stranieri che ne sono al di fuori” (ivi).

La lettura di genere ha messo a tema ampiamente tale questione, sottolineando con forza le ragioni per cui l’ordine politico ha avuto “bisogno di escludere (o emarginare) il femminile” (Pulcini 2003: 76).15

14 Se letto tutto quanto in questa prospettiva, è bizzarro scoprire come proprio Italia e

Germania, che più tardi di altre realtà sono giunte alla tappa storica dello Stato nazionale, abbiano assunto un ruolo da protagoniste nell’epoca dei totalitarismi, ergendo a totem l’idea di nazione basata sul vincolo di sangue.

Il paradosso si esprime nel fatto che proprio due contesti territoriali profondamente segnati dalla presenza di una realtà come le ‘città-stato’ e, quindi, in linea teorica, più predisposte a riconoscere il pluralismo abbiano poi costruito la propria identità attorno al presupposto non reale, di unità nazionale basata su premesse linguistiche, religiose, ecc…

La rimozione del proprio passato, dunque, è andata sviluppandosi a partire da una narrazione, presunta e poco veritiera, di un’unità nazionale.

15 Scrive a tal proposito Pulcini: “[…] Escluse dalla pólis, dalla vita pubblica, che è prerogativa

Richiamando quanto messo in luce nell’ambito della filosofia e della politica della differenza, Pulcini ricorda l’accusa mossa all’universalismo liberale: “trascurare, in nome di una ‘cieca’ e generale rivendicazione di dignità e di uguaglianza dei diritti, l’identità unica e irripetibile di quell’individuo o gruppo, e […] imporre dei principi che in ultima istanza non sono affatto neutri e universali, ma espressione di una cultura parziale ed egemone che finisce per neutralizzare le ‘differenze’ e disconoscere la ‘pluralità’” (2003: 98).

Lo Stato moderno, una tra le manifestazioni del dominio della modernità, dunque si è affermato negando le differenze. Per esempio, in Francia in nome di un universalismo egualitario, il riconoscimento delle diversità è stato ed è confinato nell’ambito della sfera privata; in Germania, in nome di una fantomatica unità etnica, la “narrazione della nazione” (Bhabha 1997) impone di non riconoscere tutto ciò che non ne assume i caratteri.16

Le strategie dello stato moderno sono state il confinamento e la marginalizzazione delle diversità: nel ‘chiostro domestico’ per quanto riguarda quelle di genere; negandone l’esistenza o perseguitandole (Appadurai 2005) per quanto concerne quelle religiose o etniche.17 Lo Stato-nazione, dunque, opera rendendo

gestalticamente rilevanti alcuni caratteri e non altri.

riproduzione della vita e di gestione dei legami parentali che non dà loro alcun diritto di cittadinanza” (2003: 76-77).

16 In Europa, infatti, seppure con modalità opposte, è andato emergendo uno stesso problema.

Per esempio, in un contesto sociale come quello francese (permeato dall’idea forte, di matrice giacobina, di soggetti che liberamente stipulano un contratto sociale, rinunciando a rendere evidenti in nome di un discutibile universalismo le particolarità di rango, sesso, ceto, religione, etnia, ecc…) il problema vien fuori nel momento in cui i soggetti rivendicano un diritto alla diversità; contrariamente in Germania è proprio il prevalere di un’idea di nazione fondata sul ‘volk’ a inibire il processo di incorporazione, per esempio, di tutti quei migranti che, seppur ormai alla terza generazione, vengono riconosciuti solamente attraverso l’appellativo di stranieri.

17 Scrive a tal proposito Hirsch: “Le nazioni moderne sono sostanzialmente il prodotto degli

apparati statali centralizzati e delle loro strategie di omogeneizzazione e marginalizzazione. Esse “inventano” e costruiscono culture unitarie nazionali marginalizzando, eliminando e sopprimendo le devianze. Lo stato moderno diventa nazione attraverso un processo in cui gli spazi socio- culturali esistenti e le tradizioni storiche vengono assemblate in modo selettivo e differenziato per dar vita a un nuovo costrutto: un processo che si forma, ad esempio, intorno allo sviluppo di una comune lingua nazionale. La natura contraddittoria di tale processo sta nel fatto che lo stato – in quanto apparato burocratico coercitivo – non può creare nuove relazioni socio-culturali ma soltanto utilizzare, ricostruire, riorganizzare quelle esistenti: ciò lega profondamente lo stato all’ostinazione di tali relazioni. Di fatto, non sono mai esistiti stati-nazione completamente omogeneizzati” (1995: 267-284).

Tutto ciò si riflette nelle pratiche discorsive e nell’organizzazione dei saperi, che, riproducendo le mappe del dominio fisico e simbolico18, non fanno altro che occultare le diversità.

Le rivoluzioni del ’900 (l’accesso delle donne alla sfera pubblica, la rilevanza delle migrazioni transnazionali, l’emergere del processo di globalizzazione, ecc…) hanno creato delle profonde lacerazioni in quelle che erano già ferite aperte, rendendo evidenti questioni fino a poco tempo prima prive di rilevanza.

Un principio di crisi di tale assetto istituzionale si è avvertito per la prima volta nel momento in cui il sistema fordista di produzione ha incominciato a manifestare i primi cedimenti, arrendendosi sotto i colpi inferti dal processo di internazionalizzazione dei mercati.

Nel ‘900, quindi, lo Stato, “come esito della modernità, non sfugge a quella drammatica trasmutazione dei valori, a quel tramonto delle grands recits – patria, nazione, identità – a quella rivolta degli iloti, con i quali si designa la crisi della modernità” (Borghini 2003: 11).

Il richiamo all’ipotesi di Geertz delle grands recits ci è d’aiuto nel leggere come per certi versi lo Stato-nazione, così per come oggi noi lo conosciamo, sia stato soggetto per diversi secoli al fascino della metanarrazione dell’omogeneità culturale, di cui le dinamiche proprie della globalizzazione l’hanno espropriato.

Tuttavia, il ‘secolo breve’ (Hobsbawm 1997), pur assistendo all’acuirsi di tali prospettive, che sono andate manifestandosi nel segno della balcanizzazione di vaste regioni, ha registrato una crisi degli assetti tradizionali:

“Lo stato vede indebolirsi la propria autorità, da un lato, per l’interdipendenza planetaria e l’emergere di forze transnazionali politiche ed economiche […] che gli sottraggono il potere e spostano le decisioni su livelli sovranazionali; dall’altro, per la moltiplicazione dei centri di decisione autonomi, che forniscono alla società civile inaspettati poteri di contrattazione con gli stati stessi” (Borghini 2003: 16).

18 A tal proposito viene in mente quanto ricordato da Kimmel (2004) circa “l’‘invisibilità’ del

genere agli occhi del maschio”. Egli intuì ciò durante un seminario, dopo che assistette ad una discussione tra una donna bianca ed una nera. Zanfrini riporta l’episodio in tali termini: “[…] Mentre la prima affermava la sostanziale analogia delle loro esperienze e la comune subordinazione all’oppressione maschile, la seconda replicava affermando che, guardandosi ogni mattina allo specchio, lei non vedeva semplicemente una donna, ma una donna nera; la differenza razziale, invisibile alla prima, risultava particolarmente saliente nell’esperienza della seconda, in quanto appartenente ad un gruppo svantaggiato. Fu in quel momento che Kimmel si rese conto del fatto che, guardandosi nello specchio al mattino, lui non vedeva un uomo, ma piuttosto un essere umano, qualcuno che, in quanto uomo, bianco e appartenente al ceto medio, finiva col non avere

Globalizzazione e spinte localistiche segnano una crisi profonda delle istituzioni nazionali: “da un lato lo Stato-nazione è troppo limitato per far fronte ai problemi creati da un ambiente segnato da interdipendenze sempre più diffuse; dall’altro è troppo esteso per contenere movimenti sociali e regionalisti di identità” (Benhabib 2005: 232).

Sono molteplici i fattori che incidono sul processo di crisi dello Stato-nazione, provato dai colpi inferti dall’internazionalizzazione dei mercati e dell’economia, dalle grandi migrazioni transnazionali, dalla cultura della frammentazione che mina le appartenenze e le forme tradizionali di costruzione del legame sociale, da una globalizzazione crescente che si accompagna alla riscoperta dei microregionalismi e del revival localistico. Lo Stato-nazione, dunque, in un’epoca di importanti trasformazioni strutturali e culturali, rimane come schiacciato tra le istanze del glocalismo, i risvolti anomici (Durkheim 2003) di società in continuo mutamento e la pluralizzazione dei riferimenti istituzionali sovranazionali, transnazionali e locali.19

La moderna “griglia globale” (Sassen 2002), dunque, è andata costruendosi proprio grazie al fare strategico degli stati nazionali, che, quasi sedotti da una ‘doppia morale’, hanno accompagnato al discorso identitario autoreferenziale la necessità di tenere in vita le rispettive economie rese dalla globalizzazione transfontaliere.20

È quanto mai evidente come non sia possibile individuare esclusivamente una sola causa al processo di crisi della modernità, essendo quest’ultima il risultato di profonde e complesse interdipendenze fra fattori distinti. Ciò che mi pare doveroso mettere in evidenza è il fatto che l’idea di crisi era implicitamente contenuta già nelle sue premesse: il processo di individualizzazione, tratto caratteristico della modernità, infatti, non è stato altro che il generatore del

19 Sassen sottolinea come in realtà lo Stato-nazione sia stato una categoria analitica unitaria

“soltanto per il discorso politico e per la politica economica” (Sassen 2002: 17). Di fatto, l’economia nazionale ha sempre operato su una scala globale, interconnessa: “in campo economico il moderno Stato-nazione ha sempre avuto attori e pratiche transnazionali” (Sassen 2002: 17).

20 I processi migratori entrano pienamente in gioco nella costruzione di tale doppio discorso: da

un lato, infatti, fungono da fattore di crescita delle economie nazionali, che possono fare ricorso a manodopera specializzata, a basso costo e con minimo potere negoziale, spesso proveniente dalle periferie del ‘sistema-mondo’; dall’altro invocano con urgenza la possibilità di regolamentare i flussi, rappresentando nell’immaginario collettivo una concreta minaccia alla solidità nazionale.

processo di differenziazione, che in qualche modo ha non solo pluralizzato le istituzioni, smembrandole in base a scopi e funzioni, ma ha anche fatto venire meno il collante sociale, metafora del più esteso patto sociale. Lo Stato-nazione, dunque, ha perso gradualmente posizione e credibilità, sostituito da altri istituti: dalla ‘società globale’ e da organismi sovranazionali (come l’Unione Europea), per un verso, e dai molteplici assetti locali, dall’altro.

Al di là dei processi di erosione esibiti dall’avvento della globalizzazione e dagli sciovinismi localistici, sono ben altre le questioni che hanno generato delle insanabili crepe al suo interno. In primo luogo, mi pare importante sottolineare come la coppia etnico/contrattualistico che segna l’inizio di ogni processo di costituzione dello Stato nazionale sia stata, negli ultimi anni, messa in crisi dall’emergere delle rivendicazioni degli ‘iloti’ (Semerari 1991).

Tutte le forme di “estraneità del domestico” (Bhabha 2001) (migrazioni, esili, marginalità sociali e culturali) esprimono i contorni di un disegno diverso del patto sociale.

Tale mutamento incide fortemente sul discorso della cittadinanza. Nella logica della modernità, cittadino è colui che possiede una residenza, è soggetto alla giusdizione amministrativa dello Stato, vive una partecipazione democratica ed esprime un’appartenenza culturale (Benhabib 2005). Sono proprio questi quattro caratteri che costituiscono “il modello ‘tipico-ideale’ della cittadinanza nel moderno stato-nazione occidentale” (ibidem: 233).

Benhabib mette in luce come le “rivendicazioni multiculturalistiche sono antitetiche rispetto al modello weberiano sotto ogni aspetto: esse chiedono il decentramento dell’uniformità amministrativa e la creazione di multiple gerarchie giuridiche e giurisdizionali, la delega del potere democratico alle regioni o ai gruppi, e guardano con favore all’allentamento del legame tra la residenza territoriale continuativa e le responsabilità della cittadinanza” (2005: 234).

La messa in crisi dell’idea di Stato-nazione, pertanto, impone una rinarrazione dell’apparteneneza, una risignificazione del principio di cittadinanza.

Leggere le storie intessute dagli ‘iloti’ significa, per dirla con Cavarero, cogliere l’inedito del contratto sociale, l’“unità figurale del disegno”, la quale “può essere posta, da chi la vive, solo in forma di interrogazione” (2005: 8). Le nuove soggettività, dunque, interrogano i protagonisti dello spazio pubblico, rivendicando un ruolo, sognando una nuova narrazione dell’appartenenza e della

cittadinanza. Le rivendicazioni delle nuove soggettività obbligano ad una decostruzione e ad una successiva ricostruzione della narrazione del patto sociale, risignificando le motivazioni che spingono a prendersi cura del legame sociale. Come nella celebre immagine marcusiana, gli ‘iloti’ scardinano i presupposti ritenuti fondativi dello Stato moderno operando una “rivoluzione che cala dalle colline” (Hobsbawm 1997: 509) ed obbligano a ridefinire i concetti stessi di uguaglianza e libertà.

Nello stesso tempo essi introducono l’idea di un pluralismo che va dispiegandosi nell’universo simbolico dello Stato-nazione come bisognoso di riconoscimento e legittimazione, proprio in virtù dei presupposti fondanti del modello liberal- democratico.

Lo Stato moderno è costretto a modulare l’istanza pedagogica di sedimentazione storica della propria identità sulla base di un pluralismo crescente, che turba in qualche modo la narrazione fluente di una presunta omogeneità culturale (Bhabha 2001).