3 Dinamiche migratorie
Grafico 2.8 – Distribuzione territoriale delle seconde generazion
2. Nuovi scenar
2.1. La femminilizzazione dei fluss
2.1.1. Tra protagonismo e dislocazione affettiva
Le donne migranti presenti in Italia hanno raggiunto quasi il 50% della popolazione immigrata. Si tratta di una presenza che è venuta crescendo nel corso degli anni, in seguito a molteplici fattori che hanno spinto verso una riorganizzazione della morfologia dei flussi.
Fino a qualche decennio fa, parlare di migranti significava quasi esclusivamente riferirsi a uomini adulti, stabilitisi in Italia per motivi di lavoro e spinti dal desiderio di una vita migliore.
Con gli anni la situazione è andata via via modificandosi, sotto la spinta di molteplici fattori. Non va tralasciato il ruolo svolto in tal senso dalla possibilità dei ricongiungimenti familiari, che hanno portato una maggiore stabilità al
34 La teoria del mercato duale del lavoro parte dal presupposto che non esista un unico mercato
in cui domanda ed offerta si incontrano, ma contempla che ci siano due settori rigidamente separati: il settore primario è caratterizzato da redditi alti, dalla presenza di desiderabilità sociale, da un forte potere negoziale; quello secondario, invece, è formato dai cosiddetti bad jobs e vi è una sovrarappresentanza di ceti marginali (nello specifico, di migranti).
progetto migratorio, diluendo la prospettiva del ritorno e radicando sempre di più i migranti nel Paese di arrivo.
La spinta alla mobilità femminile è arrivata in primo luogo dalla necessità di offrire alla famiglia d’elezione una maggiore stabilità, colmando le distanze35, fisiche e affettive, derivanti dall’avere il marito ed il padre dei propri figli in Paesi lontani da quello d’origine.
Va ricordato che le donne, anche quando intraprendono il percorso migratorio per ricongiungimento familiare e non nelle vesti di primogranti, sono agenti attive del mutamento. La loro presenza, infatti, offre stabilità al progetto migratorio della famiglia, trasformando l’immigrazione in fattore di popolamento.
Nel corso degli ultimi decenni la femminilizzazione dei flussi ha introdotto un carattere di novità al processo, rendendolo irreversibile.
Quello che in letteratura passa con il nome di ‘pionierismo’ e che negli ultimi tempi sembra coinvolgere sempre più donne, rappresentando così il tratto caratteristico delle migrazioni degli ultimi anni, obbliga a guardare al discorso sulla famiglia da un’altra prospettiva.
Le pioniere, infatti, specialmente quando hanno già una famiglia d’elezione, introducono una novità nei vissuti e nella storia dei singoli membri, inducendo ad una ‘dislocazione affettiva’, che si traduce anche in una ‘spoliazione affettiva’ per i figli delle donne migranti.
In qualche maniera le famiglie transnazionali si presentano come il volto, forse tra i più complessi e drammatici, della globalizzazione.36
È cresciuto, dunque, negli ultimi anni il volume di donne nelle vesti di primomigranti. Tale fenomeno è segno di un cambiamento profondo sia nelle
35 Una volta ottenuto il ricongiungimento familiare, il mito del ritorno, “ricorrente tra gli
immigrati di prima generazione” (Zanfrini 2004 b: 34), perde d’attrattiva lasciando il posto alla speranza di una vita migliore per sé e per i propri figli nel paese d’arrivo. Per i contesti di arrivo tutto ciò implica dover fronteggiare nuovi bisogni, che in un primo momento la figura del migrante singolo, maschio e adulto, non lasciava intravvedere: in altri termini, le famiglie migranti aprono il discorso sulle seconde generazioni con tutto ciò che questo comporta in termini di politiche educative, familiari e di protezione sociale.
36 La dislocazione affettiva delle famiglie transnazionali, infatti, riflette il processo di
disaggregazione messo in luce da Giddens (1994), il quale prova a spiegare le forme di despazializzazione e rispazializzazione della modernità radicale. Sebbene Giddens si riferisca in misura maggiore ai sistemi esperti quando parla di disaggregazione, è possibile ricomporre i significati della despazializzazione in riferimento alle unità familiari dei migranti, laddove queste ultime vadano esperendo “l’enuclearsi dei rapporti sociali dei contesti locali di interazione e il loro ristrutturarsi attraverso archi di spazio-tempo indefiniti” (ibidem: 32).
strategie familiari che nei ruoli di genere, sottoposti, anche in seguito al processo di globalizzazione, a complesse rinegoziazioni.
L’aumento di donne primomigranti inaugura la seconda fase nell’ambito della femminilizzazione dei flussi, dando corpo ad una molteplicità di questioni prima del tutto assenti. Si segnala, in particolare, la trasformazione dei ruoli di genere: segnatamente esiste una maggiore autonomia e prospettiva decisionale nelle mani della donna, la quale assume un ruolo di protagonista nella storia della famiglia d’elezione, vestendo i panni di ‘eroina’ che si sacrifica “per il bene della famiglia e per il benessere futuro dei figli” (Basa, De La Rosa 2004: 50).
Ambrosini sottolinea come le madri migranti, poi, segnino oggi “una discontinuità nei confronti del passato, quando a emigrare da soli erano eventualmente i padri” (2005: 152). L’esperienza migratoria, infatti, porta ad un ripensamento dei ruoli di genere, ma costringe anche a declinare in modo del tutto nuovo i vissuti affettivi e relazionali, le stesse dinamiche di cura. In particolare, la rinegoziazione dei significati legati alla cura è un elemento che segna in modo multidimensionale i processi migratori femminili, trasformandosi in un autentico paradosso: le donne, spesso nei panni di primomigranti, si impegnano a colmare i vuoti di cura delle tante città globali, dopo aver, però, affidato i propri figli alla rete femminile della famiglia allargata, “alle figlie più grandi, alle nonne, alle zie, ecc…” (Ambrosini 2005: 153).
Basti dare uno sguardo ai molteplici contributi sul tema delle care givers per rendersi conto come quest’ultimo non sia mai sganciato da una lettura capace di tener conto della trama relazionale-affettiva caratterizzante, in modo precario, tali vissuti (Parrenas 2001; Ehrenreich, Hochschild 2004; Ambrosini 2005; Zanfrini, Asis 2006; Decimo 2005).
Le donne, sempre più nel ruolo di pioniere e con funzioni di breadwinner, scelgono di partire da sole lasciando nel Paese di origine la propria famiglia. Per tale ragione, la dislocazione delle relazioni affettive37 (Parrenas 2001; Ambrosini 2005) diventa la cornice che solidarizza interi nuclei familiari: essa, se per un verso genera la possibilità di una maggiore emancipazione economica e
37 Basti pensare a cosa accade per i filippini, una delle nazionalità più radicate sul territorio
italiano: la dislocazione affettiva sembra essere una condizione condivisa e socialmente accettata, capace di assicurare ai figli adeguati tempi di cura (seppur elargiti da altri soggetti) impensabili in un contesto lavorativo full-time e, in secondo luogo, rinsalda ancora di più i legami familiari, autentica risorsa in termini di capitale sociale e di sostegno emotivo.
l’opportunità di ricodificare i rapporti tra generi, d’altro canto si impone rendendo sicuramente più fragili le relazioni, lacerando il tessuto emotivo dei figli.38
Parlare di donne migranti implica, perciò, operare una riflessione sulle famiglie transnazionali. Il carattere della transnazionalità ha da sempre accompagnato le esperienze migratorie delle famiglie: l’elemento di novità degli ultimi anni è dato dal fatto che, in molti casi, ad emigrare per prime sono le donne. Tale aspetto inedito introduce una frattura nel cuore di formule familiari in cui le donne, madri e spose, sono i soggetti privilegiati erogatori di cura ed attenzioni per i membri dell’intera famiglia, sono gli agenti per eccellenza della costruzione dei legami sociali dentro e fuori il contesto domestico.
La distanza tra madri e figli obbliga a modulare su altri canali e con forme diverse la cura, attraverso la delega per esempio ad alternative figure femminili della famiglia allargata (nonne, zie, sorelle, ecc…), e a riprodurre in modo altro (anche attraverso l’uso di tecnologie: telefonate, sms, chat, e-mail, ecc…) le quotidiane dinamiche affettive e relazionali di una famiglia sempre più intesa come “comunità immaginata” (Ambrosini 2005: 153). Si tratta, pertanto, di una distanza e di una separazione che non si traducono necessariamente come anticamera dell’abbandono, ma impongono come necessaria una rivisitazione delle modalità attraverso le quali si è famiglia.
Il paradosso principale che anima il lavoro di cura è dato dal fatto che le donne migranti impegnate in tale settore devono spesso fare i conti con il senso di colpa che emerge al pensiero che si è prodighe di attenzioni per i figli e i genitori altrui, privando i propri cari della personale presenza.
Tale paradosso fa buona compagnia ad un altro conflitto di senso: come conciliare la giusta emancipazione dei lavori di cura delle donne occidentali con il fatto che essa è resa possibile scaricandone i costi su altre donne, straniere, desiderose solamente di una prospettiva di vita migliore per sé e per i propri figli?
La sottrazione di risorse affettive ha, quindi, dell’inedito ed ha dei costi in termini di benessere personale e collettivo, riproponendo, altresì, le dinamiche neo-coloniali del dumping.
38 Soprattutto per molte donne “l’amore per i figli si traduce nell’allontanarsi da loro e nel
cercare di guadagnare il più possibile per loro” (Ambrosini 2005: 143). Diverse ricerche mettono in luce come per i figli ad una maggiore sicurezza economica si accompagni una crescente insicurezza affettiva (Parrenas 2001; Ambrosini 2005).
Le donne, i bambini e più estesamente le famiglie delle periferie sono, dunque, senza ombra di dubbio i soggetti fragili del sistema globale della cura, nodi deboli di un complesso gioco di equilibri tra bisogni ed aspettative. Provare a sciogliere il nodo della cura è un passaggio estremamente importante nel processo di messa a fuoco delle complesse dinamiche che governano la scelta e i vissuti migratori al femminile.
I migranti sono chiamati a reinventare le forme espressive dell’affettività e della cura, facendo ricorso al sostegno della rete sociale. Essi, infatti, tentano di “plasmare gli assetti familiari cercando di modellarli in senso più favorevole ai propri scopi e interessi” (Ambrosini 2005: 151).