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3 Dinamiche migratorie

Grafico 2.8 – Distribuzione territoriale delle seconde generazion

2. Nuovi scenar

2.3. Il welfare: l’utenza che cambia

Ambrosini (2005), riprendendo il contributo di altre autrici, ha sottolineato il ruolo decisivo delle donne migranti nel processo di integrazione. In particolare, esse diventano nodi strategici della mediazione fra esperienze culturali diverse e rendono possibile la creazione e il mantenimento del legame sociale, formando reti ed arricchendo il capitale sociale delle unità familiari.

Potrebbero essere molteplici le metafore utili a descrivere il potenziale integrativo delle donne: queste ultime svolgono una ‘funzione osmotica’ tra cultura familiare e culture esterne, tra tradizione e modernità; sono ‘ponte’ fra universi simbolici e fisici diversi (tra il Paese e la comunità di provenienza e quelli di arrivo); sono abili “tessitrici di rapporti” (Ambrosini 2005: 148).

Questa capacità di ‘fare società’, che implica un numero ampio di componenti, si traduce in interrogativo aperto nei confronti delle istituzioni, chiamate a confrontarsi con un fenomeno che, non avendo più i tratti dell’episodicità, cresce in complessità. In altre parole, nel momento in cui muta di segno il flusso migratorio, arricchendosi della componente femminile, allora si offre una maggiore stabilità alla rete di nuovi arrivati, diluendo in una prospettiva temporale più ampia l’idea del ritorno.

45 Ciò che sancisce una frattura fra l’esperienza della prima generazione di care givers e quella

della seconda è dato dal fatto che negli anni ’70-’80 per la famiglia italiana assumere una colf o una badante era un veicolo distintivo e si inseriva all’interno di una più ampia strategia di comunicazione simbolica del proprio status; con l’entrata in crisi del welfare e con il cambiamento demografico della struttura sociale (aumento della componente anziana) e del mercato del lavoro (femminilizzazione della sfera pubblica), le donne impegnate nella cura rappresentano una risorsa cui attingere per supplire le falle del sistema dei servizi.

Il primo cambiamento indotto dalla presenza di un numero crescente di donne nella popolazione migrante è dato dalla presenza delle seconde generazioni, figli nati nel Paese di arrivo o giunti ancora molto piccoli.

È quanto mai palese che il tema delle seconde generazioni interroga le istituzioni e la politica per una vasta rosa di questioni internamente interconnesse: policies educative e familiari adeguate, il complesso nodo del riconoscimento della differenza, l’acquisizione dello status di cittadinanza, l’esplicitazione di una doppia appartenenza da esperire come ricchezza e non come handicap.

Il percorso dell’inserimento, dunque, si arricchisce di tematiche e questioni che non coinvolgono in via esclusiva il mondo del lavoro, innervandosi nella complessità del tessuto sociale. Grazie alle seconde generazioni, quindi, implicitamente per merito delle donne, il processo migratorio va radicandosi, trasformandosi in tratto strutturale della società.

Pur mutando la morfologia dei flussi e pur articolandosi l’esplicitazione di bisogni e domande provenienti dalla popolazione immigrata, le istituzioni – riflesso di uno Stato che stenta a confrontarsi in modo maturo e coraggioso con tale fenomeno – ritardano l’elaborazione di risposte adeguate. La questione relativa all’organizzazione dei servizi non è certamente marginale, considerato che “le ‘idee’ che sono alla base della legislazione che struttura il welfare influenzano l’accesso alla cittadinanza, ai provvedimenti di politica sociale” (Tognetti Bordogna 2004: 13).

La specificità italiana del fenomeno migratorio, in cui alla stabilizzazione di alcuni gruppi (già alla seconda o alla terza generazione) si accompagnano i nuovi arrivati (provenienti soprattutto dall’Est Europa), rende ancora più difficoltosa l’organizzazione di risposte da parte delle istituzioni. Scrive a tal proposito Tognetti Bordogna:

“Abbiamo quindi individui primo migranti, che pongono bisogni d’urgenza, a fianco di individui che sanno muoversi in un sistema complesso di offerta, che sanno scegliere fra le risorse e le offerte di un dato territorio che a volte presentano una richiesta multiproblematica. Così come vi sono donne, uomini, bambini e anziani, i quali presentano bisogni specifici, legati all’età e all’appartenenza di genere, oltre che al periodo di ingresso nel nostro paese; abbiamo infine famiglie ricongiunte, famiglie formate qui, che presentano un ampio ventaglio di bisogni sanitari e sociali, ma anche abitativi, e famiglie miste.

Bisogna poi ricordare che gli immigrati non possono essere considerati un insieme omogeneo proprio perché non hanno omogeneità culturale, geografica, di progetto migratorio, di percorso biografico.” (Tognetti Bordogna 2004: 14)

Non va esclusa un’altra componente che sta emergendo negli ultimi anni in forme virulente. Il processo migratorio e il contesto sociale, ambientale ed emotivo nel quale ha luogo l’inserimento (in primis, lavorativo) sono forieri di disagi in termini di benessere fisico e psichico.

Chiaretti (2005) segnala come sempre più diventi palese l’incapacità da parte delle badanti (soprattutto di quante vivono il peso di un ‘confinamento domestico’) ad esercitare capacità di coping (Folgheraiter 1998). Ella mette in luce come siano in crescita i disturbi da “mal di rapporti sociali” (Chiaretti 2005: 182). Nello specifico:

“I rischi e i pericoli per la salute presenti nei settori lavorativi prevalentemente femminili sono molteplici: ‘biologici’, malattie infettive e respiratorie e dermatiti, ‘fisici’, causati, ad esempio, da posizione faticose e scomode, ‘chimici’ dovuti all’uso di prodotti detergenti. Infine, i rischi e i pericoli definiti ‘psicosociali’, ossia quel insieme di fattori e di situazioni che determinano uno stato di tensione nervosa e di logorio psichico nocivo per la salute. […] rischi di una gravità estrema: la molestia, la violenza e le malattie da stress (lo stress causa disturbi cardiaci, depressione, indebolimento del sistema immunitario, insonnia, induce all’uso dell’alcol e del tabacco, può portare al suicidio). Colpiscono più duramente e frequentemente persone appartenenti agli strati sociali più bassi e più discriminati e presentano una forte connotazione di genere. Sono i rischi tipici dei lavori femminili: posizione lavorativa ai livelli bassi, forte gerarchizzazione dell’organizzazione del lavoro, discriminazione e una condizione di vita al di fuori del lavoro che indebolisce ulteriormente la capacità di fronteggiare il malessere causato dai rapporti di lavoro. Sono i rischi che corrono maggiormente le donne: pesantezza e monotonia delle mansioni, intensità dei tempi di lavoro, lunghi orari giornalieri che rendono ancora più pesante l’assenza di contatti sociali, considerazione e rispetto per la persona che lavora scarsi o nulli, incertezza sul proprio futuro lavorativo, assenza di prospettive di carriera, conflitto tra casa e lavoro.” (ibidem: 182-183).

Una ricerca condotta in Lombardia sulle politiche degli enti locali (Zucchetti cit. in Ambrosini 2005) ha messo in luce proprio come vadano sviluppandosi due tendenze specifiche: la prospettiva emergenziale – “gli interventi prendono il via con l’esplodere del problema a livello locale e spesso si rivitalizzano con l’insorgere di una nuova emergenza” (Ambrosini 2005: 222) – e la “preoccupazione di rendere poco visibili gli interventi stessi” (ivi).

È proprio l’eterogeneità dell’universo migrante che rende complessa la gestione del fenomeno, assumendo così come via italiana dei servizi agli immigrati spontaneismo ed episodicità degli interventi.

Un altro tratto che caratterizza le risposte da parte degli organi istituzionali è dato dal ricorrere surrettiziamente all’operato del Terzo Settore, chiamato in gioco per supplire, spesso, alle lacune derivanti da una mancata pianificazione degli interventi.

L’affidare il governo delle risposte sociali al Terzo Settore nasce dal fatto che spesso le “linee di politica per l’immigrazione sono state delineate proprio in piena crisi del welfare state, in una fase di delegittimazione del welfare, con rischi ulteriori di lasciare ad altri attori sociali non pubblici l’erogazione delle prestazioni” (Tognetti Bordogna 2004: 16).

In particolare, Tognetti Bordogna sottolinea con forza come il welfare pensato per i migranti rifletta profondamente le immagini che di essi si hanno: infatti “è stato pensato in funzione di categorie particolari di individui vissuti come temporaneamente presenti sul nostro territorio, o come individui da tenere in posizione marginale perché soggetti da cui difendersi” (Tognetti Bordogna 2004: 15).

Le problematicità di un sistema di welfare che si prenda carico dei bisogni di un’utenza così eterogenea va associato alla particolarità familistica di quello italiano: fondato sulla cittadinanza lavorativa, esso è pensato per colmare i vuoti di cura delle reti familiari e comunitarie. L’utente immigrato, soprattutto se nelle vesti di new comer, è certamente escluso per ragioni che pertengono alla povertà del capitale sociale dei nuovi arrivati.

Lo Stato non può pienamente garantire diritti sociali ai migranti, perché non contempla possibilità alternative a quelle standardizzate: ritorna, anche se in forma diversa, la ‘questione narrativa’.

L’opzione della transculturalità, dunque, va accompagnata dalla capacità di pensare all’eterogeneità dell’utenza, varia non solo per provenienza geografica, ma anche per biografie e per progetti migratori.

L’utenza femminile si caratterizza per una domanda di cura, in via preliminare concernente la sfera materno-infantile: ciò apre inevitabilmente a considerare la

pianificazione degli interventi e l’erogazione dei servizi assumendo la prospettiva olistica proveniente dalle unità familiari.

Nel momento in cui muta l’utenza occorre chiaramente implementare servizi alla persona che tengano conto di bisogni, di esigenze, di storie di vita che cambiano inevitabilmente da soggetto a soggetto. La diversificazione dei servizi, quindi, risponde ad una volontà di efficacia ed efficienza dell’erogazione degli stessi; ottimizzare, inoltre, la progettazione e la relativa implementazione dei servizi implica porre in primo piano il rispetto e la tutela dei diritti della persona. Le moderne politiche sociali in materia di immigrazione sono certamente influenzate dal fatto che, come documenta una vasta letteratura, in Italia non ci si trova dinanzi a mature politiche migratorie, essendo quest’ultime ostaggio di modalità interpretative segnate più dalla logica dell’emergenza e del contenimento dei flussi piuttosto che da visioni del mondo orientate all’integrazione, alla valorizzazione delle differenze, all’elaborazione di nuove forme di cittadinanza. Il presente contesto storico-sociale fa ulteriormente segnare il passo a politiche sociali che non tengono conto di un’utenza in cambiamento: la crisi del welfare, infatti, di certo non facilita il processo di progettazione sociale dei servizi destinati ad un’utenza eterogenea per bisogni, aspettative e modalità di approccio alle istituzioni locali.

Un ulteriore fattore che incide fortemente sull’inefficienza e sull’inefficacia di politiche sociali per gli immigrati è il retaggio culturale di politiche pubbliche centralizzate, fondate sul presupposto che il ‘centro’ sia il solo in grado di monitorare i bisogni del territorio, erogando servizi per tutti in maniera indifferenziata. Tale approccio contrasta apertamente la logica che vede le policies pubbliche orientate al rafforzamento dell’empowerment comunitario e personale. Si tratta, pertanto, di accogliere per il prossimo futuro una sfida, declinabile su più livelli operativi: occorre, in una logica di efficacia e di efficienza degli interventi ed in ottemperanza alle istanze promosse dalla legge 328/00, orientare le politiche sociali verso una cultura delle differenze e verso strategie tese al rafforzamento del ‘potere’ (dell’empowerment) delle comunità locali facendo proprie le dinamiche di rete. Affinché ciò accada occorre che le istituzioni in primis e, quindi, gli operatori siano portatori di weltanschauungen e di competenze

relazionali fondate sulla transcultura, in modo che essi diventino esperti nell’approcciare e nel gestire le differenze.

In contesti territoriali sempre più complessi e multietnici agli operatori sociali viene richiesta, in altre parole, la capacità di saper far maturare l’empowerment dei singoli e delle comunità.