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Seconda Parte Dentro la ricerca

2. Gli studi precedent

Il fenomeno migratorio affascina i ricercatori; sono, perciò, numerosi gli studi che lo riguardano. Sono cresciute negli ultimi anni anche le ricerche sul fenomeno del terzo settore e, in particolare, sul ruolo e sulle implicazioni dell’associazionismo.

Sono, invece, molto poche le riflessioni sull’associazionismo dei migranti. Quest’elemento ha complicato la fase iniziale, soprattutto quella di formulazione delle ipotesi, dovendo così ricorrere all’osservazione diretta.

2.1 Storia di un’esperienza plurale

Macioti e Pugliese (2003) si soffermano sulla storia dell’associazionismo delle donne in Italia, tracciando alcuni caratteri di fondo.

Essi, in primo luogo, rivelano che “laddove esistono flussi femminili consistenti nasce uno specifico associazionismo femminile” (ibidem: 123); citano come esempio il caso capoverdiano (una comunità pioniera in tal senso).

Secondo gli autori, una tra le motivazioni che generano la pratica associativa è data dal desiderio di cercare altre donne che vivono la stessa condizione e sperimentano le medesime problematiche, cercando altresì persone che non appartengono alla propria comunità: è un aspetto quest’ultimo che limita le dinamiche di controllo esercitato dal gruppo di provenienza.

Sono molte le ragioni che possono governare una scelta di partecipazione attiva, che nasce, quindi, anche dal bisogno di uscire da una rete di controllo oppure, al contrario, dal cercare un gruppo di sostegno.

“Non è quindi difficile spiegarsi come mai oggi rispetto al passato si noti in Italia un moltiplicarsi di associazioni di donne immigrate, associazioni che hanno fatto da sostegno e punto di riferimento per le connazionali nel primo impatto con la realtà italiana, che sono state capaci di agevolare l’inserimento delle donne, quando non ci si trovava più in una situazione di emergenza e si evidenziavano invece problemi di ordine diverso, legati alla durata del soggiorno: mentre è relativamente facile adattarsi per qualche mese a lavorare in una famiglia, a non avere uno spazio, del tempo propri, questo può divenire sempre meno tollerabile con il passare degli anni. Le associazioni di donne immigrate hanno quindi anche operato per procurare migliori situazioni di alloggio. Sono intervenute a volte per agevolare l’apprendimento della lingua del paese ospitante, ma anche quella del paese di origine, non sempre nota alla generazione dei figli. In certi casi, hanno svolto un utile ruolo nel far conoscere a bambini e ragazzi il paese di origine dei genitori, nel far sì che ne potessero andare fieri e non fossero costretti a vivere le loro origini come un fatto di cui vergognarsi. Oggi possono intervenire anche incoraggiando cooperative o altre forme associative intese all’inserimento nel mondo del lavoro con attività gestite in proprio, al femminile. E possono far parte di più vaste reti associative.” (Macioti, Pugliese 2003: 123-124)

All’inizio le associazioni nascevano miste; uomini e donne insieme; in molti casi era dominante la traccia comunitaria, facendo in modo che si costituissero realtà nazionali, capaci di mediare con i Paesi di origine. Con gli anni cresce sempre di più il bisogno associativo da parte dell’universo femminile, ma, secondo Macioti e Pugliese, è anche vero che la crescita del numero di donne impegnate in tale settore è in parte frenata dal fenomeno del ricongiungimento familiare. Le donne che giungono in Italia, infatti, “tendono a riprodurre nel paese di emigrazione le stesse modalità di vita che avevano sperimentato a casa, nel passato” (Macioti, Pugliese 2003: 125); accade, pertanto, che si attesti la tendenza a rimanere confinate nello spazio domestico, frequentando “il meno possibile le attività comunitarie, salvo magari in occasione di qualche festa importante” (ivi).

Con il tempo, poi, nasce da parte delle donne il desiderio di organizzarsi in maniera autonoma rispetto agli uomini: la femminilizzazione dei flussi porta come risultato anche questo primo elemento di differenziazione delle configurazioni associative.

L’esigenza di creare realtà associative esclusivamente femminili inizia a portare i suoi frutti a partire dagli anni ’90. Le donne provenienti dal Nicaragua, dalla Polonia, dall’Albania, quelle brasiliane, tunisine, marocchine hanno dato vita a contesti associativi nati nel segno di una cultura delle differenze. Promozione e rivendicazione dei diritti, creazione di strutture di accoglienza, valorizzazione

dello strumento della cooperazione internazionale, sono solamente alcuni dei contenuti che giustificano la partecipazione:

“Non si tratta comunque solo di reti di rassicurazione e conforto: dal più maturo associazionismo femminile sono nate anche inedite proposte lavorative, sostegno a donne che intendevano uscire dal ghetto del lavoro domestico in una casa altrui, senza prospettive di cambiamenti, senza la possibilità di tempi e spazi per sé. Specialmente nel Nord e nel Centro Italia troviamo così iniziative lavorative che vedono protagoniste donne immigrate riunite in una qualche forma associativa che fa loro da sostegno e permette l’apertura di locali per lavori comuni […].” (Macioti, Pugliese 2003: 126)

La ricchezza delle proposte, dei contenuti, delle istanze messe in voce da tali realtà non permette una sintesi che sia fedele dalla realtà. Sta di fatto che l’associazionismo delle donne “è stato ormai da più parti individuato e riconosciuto come fonte di grande esperienza (si tratta di realtà, in certi casi, esistenti da oltre vent’anni), in grado di rappresentare un vettore di cambiamento sia nel cogliere e definire le priorità, sia poi nell’opera messa in atto” (Macioti, Pugliese 2003: 127).

2.2. L’ipotesi della mission

Ciò che emerge dalle riflessioni di Macioti e Pugliese (2003) si aggancia a quanto sottolineato da Ambrosini (2000, 2005)65 a proposito del ruolo che ha il Terzo Settore nell’ambito delle politiche locali di governo dell’immigrazione: molto spesso, infatti, emerge la presenza di “forme di delega implicite e scarico di responsabilità nei confronti della solidarietà organizzata, che reagisce con atteggiamenti critici e rivendicativi verso il settore pubblico” (ibidem: 223). L’Autore, inoltre, ribadisce come l’associazionismo promosso dai migranti sia “debole e poco attrezzato per fornire servizi” (Ambrosini 2005: 225). Egli sottolinea, per quanto concerne il contesto italiano, l’esistenza di un “profondo

65 Ambrosini, riprendendo quanto elaborato da Douglas (cit. in Ambrosini 2005: 224) a

proposito delle organizzazioni non-profit, individua quattro tipologie associative (Ambrosini 2005: 224-229) riscontrabili nell’universo migrante: l’associazionismo caritativo; l’associazionismo rivendicativo; l’associazionismo imprenditivo; quello promosso dagli immigrati. La costruzione delle formule associative, dunque, è condotta prendendo in esame prevalentemente la mission dei singoli contesti e, in secondo luogo, considerando la componente demografica. L’ipotesi di Ambrosini, sebbene sintetizzi la pluralità di configurazioni associative non sempre riesce ad esaurire le domande di conoscenza che anima il mio interesse di studio, che, concentrandosi su un particolare tipo di associazionismo (quello promosso dagli stessi migranti), intende esaminare il ruolo e i significati attribuiti dalle donne a tale esperienza.

divario tra associazionismo formale e reti informali a base etnico-nazionale” (ibidem: 226): mentre nel primo caso, pur trattandosi di un fenomeno diffuso, si esprime come fenomeno “molto fragile e soggetto a un elevato turnover” (ivi); nel secondo caso, si tratta di reti etniche “molto vitali, anche se alquanto differenziate a seconda dei gruppi nazionali, intrise di particolarismo e familismo, non sempre disinteressate ma spesso capaci di sostenere in vari modi l’inserimento sociale e lavorativo dei loro membri” (ivi).

2.3. Altri studi

Per quanto riguarda l’associazionismo dei migranti si è già detto di essere dinanzi ad un fenomeno poco studiato.

Fanno eccezione alcune ricerche relative ad aree locali (Ambrosini 2000; Caselli 2006) e la ricerca “Politis” condotta su base europea.

Caselli, introducendo la ricerca sull’associazionismo dei migranti presenti nell’area milanese, ribadisce quanto segue:

“Le associazioni di migranti presenti anche solo in ambito milanese sono […] estremamente diverse fra loro per storia, grado di formalizzazione, livello di articolazione e consolidamento dell’organizzazione interna, composizione etnica, qualità dei rapporti con le istituzioni locali e con le altre organizzazioni di migranti, autorevolezza nell’ambito del/i gruppo/i etnico/i di riferimento, caratteristiche della leadership, numero e tipo delle attività portate avanti e così via. Tale contestazione deve pertanto invitare a una certa prudenza nel momento in cui si cerca di individuare elementi o tendenze unificanti e comuni oppure di esprimere valutazioni complessive della realtà studiata.” (Caselli 2006: 20)

Si tratta di una premessa che mi sento di condividere e che testimonia la complessità dell’oggetto della presente ricerca.

L’attenzione della ricerca “Politis”, per quanto riguarda il contesto italiano, è data alle istanze provenienti dai migranti in merito al diritto di voto, intesa come forma e strategia di inclusione sociale.

Giudicate come preziosi attori civici, le associazioni di migranti svolgono un ruolo importante nei processi di partecipazione attiva degli immigrati alla vita pubblica, favorendo altresì la socialità, l’incontro o lo scambio tra i new comers e il più vasto contesto sociale.

La periodizzazione dell’associazionismo dei migranti è sintetizzata in tre fasi: un primo momento è caratterizzato dalla presenza di pionieri (dagli anni ’70 fino alla metà degli anni ’80), per lo più soggetti attivi politicamente già nei Paesi di origine; la seconda fase (da metà degli anni ’80) è caratterizzata dall’acquisizione di una visibilità e di un impatto sull’opinione pubblica (soprattutto in relazione al diritto alla casa, all’accesso ai servizi sociali); l’ultima fase è quella della partecipazione attiva e dell’autopromozione.

Da tale studio emerge che il 46,8% delle associazioni sono di piccole o di medie dimensioni (con meno di trecento membri) e che il 60,7% di tali realtà è di tipo etnico.