Seconda Parte Dentro la ricerca
2. Metodologia qualitativa e fenomeno migratorio
Tutto ciò si rivela veritiero soprattutto per quanto riguarda il fenomeno migratorio. La distanza che separa la logica della teoria da quella della pratica è direttamente proporzionale al fatto che il ricercatore si presenta sulla scena come depositario di un capitale simbolico superiore rispetto all’agente: egli esibisce (sebbene non volutamente) l’essere collocato in una posizione di privilegio all’interno dello spazio sociale; inoltre, rende evidente l’aver incorporato le categorie proprie dello Stato-nazione, il quale agisce distinguendo tra in e out, tra ‘cittadini’ e ‘stranieri’.
Tale carattere della ricerca diventa più evidente quando ci si confronta con particolari tipi di popolazione (soprattutto quelli segnati da marginalità sociale), ma la si può intendere come un carattere qualificante di ogni situazione di analisi.
60 Ogni tentativo di ‘simulazione’ dei vissuti degli agenti, perciò, è destinata allo scacco. In
ogni ricerca rimane incolmabile uno spazio tra quanto vissuto, esperito e raccontato dagli attori sociali e lo spazio discorsivo ad esso dedicato dalla ricerca medesima. A tal proposito Sayad (1993: 1268) afferma che il mondo dell’immigrazione e l’esperienza di tale realtà sono completamente “fermés”, chiuse, alla maggior parte di coloro che provano a parlare di tale mondo (sociologi inclusi). Lo scarto esperienziale segna una frattura anche nel tentativo ermeneutico.
Riprendendo quanto affermato da Bourdieu ne “La misère du monde”, Bichi sostiene:
“[…] la situazione di intervista può essere vista anche come un mercato di beni linguistici e simbolici in cui lo scambio riguarda il capitale linguistico e, più in generale, culturale e sociale dei due interlocutori. […] Il problema riguarda lo squilibrio che si può verificare in questo ‘mercato’ e che può portare a conseguenze negative nel caso in cui un’eventuale disparità non sia riconosciuta e gestita e limitata, riducendo al massimo, con le parole dell’autore, ‘la violenza simbolica che si può esercitare attraverso la relazione di intervista’”. (Bichi 2007 a: 139)
Già a partire da questi elementi si evince che rimane aperta una ferita nel processo di comprensione; ogni tentativo di ‘approssimazione’ (Cassano 2003) deve fare i conti non solo con le dinamiche proprie dell’alterità (mai come in questo caso), ma soprattutto con il tentativo di spogliarsi di categorie e concetti imbevuti di una ‘distanza’ che (più che metodologica) è fisica e simbolica, legata al fatto di occupare posizioni diverse all’interno del campo sociale.
Non va trascurato, pertanto, il fatto che lo status differente tra ricercatore e coloro che egli giudica come ‘oggetti’ della ricerca agisca da frame, influenzando fortemente i risultati.
La conversione di sguardo si impone come strumento necessario all’interno della cassetta degli attrezzi del ricercatore, palesandosi come “esercizio di esperienza dell’altro” (Cassano 2003). Questa attitudine nasce da “addestrarsi all’ascolto ed evitare di far andare via lo stupore che ci accompagna quando violiamo le leggi di gravità del nostro etnocentrismo” (ibidem: VIII), nella consapevolezza che “l’esperienza dell’altro è quindi un esercizio di decentramento, di indebolimento della nostra chiusura in noi stessi” (ivi).
In altri termini, passa proprio dal viaggio verso l’altro il tentativo di scardinare, attraverso il metodo qualitativo ed una prospettiva ermeneutica, il nazionalismo metodologico che caratterizza il modo in cui le scienze sociali guardano al fenomeno migratorio. Esse, pertanto, sono chiamate a misurarsi con la capacità di ‘decentrarsi’: in primo luogo, mettendo a dura prova l’arroganza di “vedere il mondo esclusivamente dal lato delle proprie pretese e dei propri diritti” (ibidem: 154); in seconda istanza, confrontandosi con “l’incredibile ricchezza delle voci che si possono incominciare a sentire” (ivi) una volta messo a nudo il proprio ‘egocentrismo’.
Non si può altrettanto ipotizzare che da parte del ricercatore il percorso di spoliazione delle categorie analitiche sia scontato e facile da percorrere:
“Questo ‘sradicamento’ dal centro è un esercizio più complesso e doloroso di quanto non possa apparire a prima vista e per certi versi lo sconcerto e il dolore sono gli unici indicatori attendibili che consentono di distinguerlo dall’esotismo.” (Cassano 2003: 93)
Il processo di ‘messa tra parentesi’ (Schutz 1974, 1979) dei modelli teorici e delle categorie interpretative risulta un qualcosa di estremamente complesso, faticoso da compiersi. Bichi parla a tal proposito proprio di viaggio, facendo riferimento al fatto che si ha il compito di ‘situarsi’ nell’universo simbolico dell’altro, nel “punto dello spazio sociale a partire dal quale la visione del mondo della persona intervistata diviene evidente, necessaria, taken for granted” (Bichi 2007 a: 142). Ella ribadisce come tale delocalizzazione sia non solo necessaria, ma si espliciti essa stessa come “un vero percorso di ricerca di un luogo altro dal quale guardare” (ivi), aggiungendo che solo tale “conversione consente di osservare, in relazione, la persona nella sua interezza, proprio dentro quella complessità che la riempie di valore” (ivi).
Non è in gioco, tuttavia, solamente la non riducibile fragilità del ricercatore (nello spogliarsi delle teorie impregnate magari di nazionalismo) o la struttura disequamine dello spazio sociale che organizza in una logica di disparità i rapporti fra ricercatori e migranti; la frattura ermeneutica è generata dagli stessi attori sociali, che nelle vesti di migranti sono portatori di vissuti estremamente complessi, soggetti in bilico su più fronti: combattuti fra desiderio di ascesa e perdita di status; funamboli tra ‘ieri’ e ‘domani’, con identità plurali, con storie segnate da dolore e speranza, da amarezza e rimpianto, da entusiasmi e rinunce, dal peso di una doppia assenza.
Lo scarto che si apre nel momento ermeneutico nasce proprio dalla difficoltà di ‘indossare i panni’ dell’altro. Rimane, perciò, solamente da valorizzare lo iato che qualifica il processo interpretativo, assumendolo come la distanza giusta che motiva e avvia la narrazione.
Al di là del possibile conflitto interpretativo annunciato dai breakdowns61 (il quale pur facendo da corollario ad ogni tipo di interazione, nel caso della ricerca sul fenomeno migratorio diventa ancora più probabile e ricorrente, anche per l’incontro che esso impone fra pratiche culturali distinte), l’incomprensione può essere una concreta risorsa all’interno della cornice comunicativa, perché giustifica la relazione e motiva la ricerca stessa. In altri termini, l’incomprensione è la traccia del fatto che si è attori di mondi vitali distinti (e spesso anche distanti), con alle spalle un bagaglio di vissuto certamente non equiparabile.
La situazione dell’intervista, dunque, si rivela estremamente preziosa nel processo di negoziazione dei significati: ha luogo, da parte del ricercatore, un mettersi in viaggio verso l’universo simbolico migrante e da parte di quest’ultimo si palesa il tentativo di offrire al proprio interlocutore gli strumenti per renderlo capace di comprendere.
L’altro, che in questo caso è ‘totalmente altro’, giustifica proprio a partire da questa mancata condivisione di vissuti il racconto di sé. Così come enunciato nella prospettiva teorica di Cavarero (2001), la narrazione – perché possa aver luogo e perché possa funzionare – deve essere sostenuta da una premessa di non familiarità tra i due attori in gioco, chiamati a dare vita alla partita con funzioni distinte (l’una di ascolto, l’altra di racconto) e da posizioni diverse.
Il momento narrativo, dunque, è generato da due dinamiche diverse, nasce dall’incontro tra due bisogni: conoscere una storia e avere di fronte qualcuno che, dopo averla ascoltata, sappia restituirla. L’essere costitutivamente delle identità narrabili giustifica il fatto che biografia e autobiografia si leghino insieme in un unico desiderio (Cavarero 2001).
Il “desiderio del racconto” (ivi), infatti, si articola in una duplice dinamica e si sostanzia nella compresenza di due distinti attanti, impegnati a dare corpo ad una storia.
Cavarero, ragionando su questi elementi, giunge ad affermare che il sé narrabile si fonda su “un’etica relazionale della contingenza” (ibidem: 113) che
61 L’avvenuta riuscita del processo di decentramento è segnalata dall’emergere di
“breakdowns” (Sparti 1992), che indicano la violazione delle aspettative cullate dal ricercatore stesso o, in alternativa, l’assunzione da parte del narrante dell’incapacità del proprio interlocutore di accogliere interamente e comprendere integralmente il proprio racconto.
governa “un’esistenza espositiva e relazionale”, la quale “vuole e dà, riceve e dona, qui ed ora, una storia irripetibile in forma di racconto” (ibidem: 114). Se letta in questa prospettiva, l’istanza narrativa si profila come volontà di far emergere l’individualità di quanti sono invitati a prendere parte al gioco sociale della ricerca. Si tratta di dare corpo al racconto di storie uniche, facendo scaturire non soltanto il che cosa delle identità, ma anche il chi, cioè quell’aspetto che rende i soggetti qualcosa di irripetibile, transfughi persino rispetto ad un’idea di moderno che impone e produce serializzazioni.
Proprio in questo framework si staglia la scelta del metodo qualitativo, nella misura in cui è uno strumento volto a valorizzare l’istanza, proveniente dall’universo migrante, di affermazione delle soggettività. Ponendo il focus sulle singole storie, sui singoli vissuti, infatti, il metodo qualitativo si colloca come via non violenta per trovare le risposte cercate alle domande emerse dalla presa in conto di un mondo sociale in trasformazione, ma anche per far luce sulle domande nuove, che le narrative messe in atto dagli stessi migranti dovrebbero far nascere.
A questo punto entra in gioco la responsabilità delle scienze sociali, chiamate – nel ruolo di attanti deputati a prendere in carico la storia dell’altro – a porsi in ascolto di un reale governato da un costante mutamento.
L’etica della relazione si impone in questo caso nella capacità di operare sul versante del benessere, in una dinamica reciprocamente solidaristica: il rapporto ‘soggetto migrante/ricercatore’ fa sì che il secondo si faccia carico della storia del primo – fino a quel momento rimasta nascosta, sospesa nel non-enunciabile – per poi restituirgliela, piena di quei significati che solamente un’estranea complicità può concedere.
Parlando di metodologia qualitativa e fenomeno migratorio non si può fare a meno di porre in luce un ennesimo elemento, che giunge a ribadire lo scarto fra i mondi sociali dei due interlocutori: il narrante si esprime in una lingua non sua, ad eccezione delle seconde generazioni (ma anche in questo caso non è detto che la lingua parlata in casa sia quella italiana). Egli prepara l’ospitalità al suo interlocutore mettendolo nelle condizioni di comprendere la propria cornice esistenziale, il perché di determinate scelte maturate lungo il corso di vita, i valori che abitano il proprio quotidiano; tuttavia, tale rituale si manifesta esperendo la
condizione dell’ospitalità linguistica: ‘io ti racconto la mia storia nella tua lingua’, si potrebbe dire.
Tale ‘gioco linguistico’ espone chiaramente a dei rischi interpretativi, a dei biases quanto mai ovvi: quella adottata è per l’appunto la lingua dell’altro, del proprio interlocutore; quanto viene raccontato nasce già come qualcosa di ‘tradotto’, di già ‘tradito’. Le parole che ‘traducono’ un’esperienza sono già a loro volta traduzione di altre parole, di cui manca persino il ricordo e di cui non si ha nemmeno traccia.
L’istanza ermeneutica – che teoricamente esprime “il costituirsi e l’autointerpretarsi di una cultura intesa come insieme di simboli e significati depositati nella tradizione linguistica di una società” (Sparti 2002: 156) – subisce anche sul versante del significante una crisi.
Proprio quest’elemento rende evidente come risulti estremamente difficoltoso (e per certi versi un’ingenua aspettativa) potersi disancorare in via definitiva dalle categorie che abitano il nazionalismo metodologico. La peculiarità del ‘gioco linguistico’ che interessa la ricerca sui migranti, inoltre, ci fa dire che il testo prodotto in seguito alla raccolta delle singole biografie va trattato con maggiore cautela del dovuto, nella misura in cui esso rappresenta una già avvenuta traduzione di significati e codici valoriali nella lingua del nuovo Paese.